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Ricorda a Benetton e Mango che tutti hanno diritto a un risarcimento equo

banner_benetton_mangoI sopravvissuti del Rana Plaza rischiano di perdere la loro casa.

>>Chiedete a Benetton, Mango, Piazza Italia, YesZee, Manifattura Corona di partecipare attraverso i social network o una mail.

FACEBOOK:
Copia e incolla questo testo sulla fan page dei marchi (Benetton, Mango, Piazza Italia, YesZee): "I sopravvissuti del Rana plaza e della Tazreen lottano per sopravvivere! Vi chiedo di partecipare all'incontro dell'11 e 12 agosto a Dhaka per definire il loro giusto risarcimento!"

TWITTER: Clicca su bottone !function(d,s,id){var js,fjs=d.getElementsByTagName(s)[0],p=/^http:/.test(d.location)?'http':'https';if(!d.getElementById(id)){js=d.createElement(s);js.id=id;js.src=p+'://platform.twitter.com/widgets.js';fjs.parentNode.insertBefore(js,fjs);}}(document, 'script', 'twitter-wjs'); e twitta la tua richiesta ai brand!

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Nel maggio scorso, un mese dopo il crollo del Rana Plaza e sei mesi dopo l’incendio della Tazreen, migliaia di voi hanno mandato un messaggio chiaro alle aziende coinvolte nei due disastri chiedendogli di assumersi le loro responsabilità pagando i giusti risarcimenti ai superstiti e ai familiari delle vittime.

Insieme abbiamo intasato le caselle di posta di Walmart, Benetton, Mango, Disney, Piazza Italia, Manifattura Corona, YesZee e delle altre aziende coinvolte. Vi ringraziamo ancora una volta per aver partecipato a quella battaglia!

Ma ora ci serve di nuovo il vostro aiuto. Senza un adeguato risarcimento, i lavoratori e le lavoratrici rischiano di perdere le loro case. Shurima (30) ha perso i piedi durante il crollo. Ora non ha più stipendio. La stanza che condivide con altre due persone le costa 1500 Taka, un terzo della sua paga mensile compresa di straordinari. Ha detto: "Non siamo stati in grado di pagare l'affitto per due mesi. Se anche questo mese non pagheremo, il proprietario cancellerà il contratto. Alcune persone hanno già perso la loro stanza".

I brand posso evitare che accada. IndustriALL Global Union ha invitato tutti i marchi che producevano al Rana Plaza e alla Tazreen ad un incontro in Bangladesh l’11 e 12 Agosto in modo che possano impegnarsi insieme concretamente per un pieno e giusto risarcimento.

Chiedete a Benetton, Mango, Piazza Italia, YesZee, Manifattura Corona di partecipare attraverso i social network o una mail.

FACEBOOK:
Copia e incolla questo testo sulla fan page dei marchi (Benetton, Mango, Piazza Italia, YesZee): "I sopravvissuti del Rana plaza e della Tazreen lottano per sopravvivere! Vi chiedo di partecipare all'incontro dell'11 e 12 agosto a Dhaka per definire il loro giusto risarcimento!"

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La protesta pubblica che ha riguardato la vicenda del Rana Plaza ha costretto i più grandi marchi e rivenditori del pianeta a sottoscrivere l’Accord on Bangladesh Building and Fire Safety. Ci avete aiutato a vincere.

Sebbene la firma di quell’Accordo fosse fondamentale per prevenire morti future, non è sufficiente per quelle famiglie che si sono ritrovate a lottare per la sopravvivenza a causa di questi due disastri. Un adeguato risarcimento è fondamentale per permettere a queste persone di ricostruire la loro vita.

I brand devono pagare ora. Fino a quando non lo avranno fatto continueranno a distruggere le vite delle vittime di quei disastri. Chiedi a Mango e Benetton di partecipare all’incontro con i sindacati e di impegnarsi a pagare il giusto risarcimento.

Molte organizzazioni stanno coraggiosamente lavorando per alleviare il dolore e la sofferenza dei feriti e delle famiglie di coloro che sono morti. La National Garment Workers' Federation, un sindacato del Bangladesh, ha di recente riunito duecento orfani che hanno perso i loro genitori nel crollo del Rana Plaza. Hanno poi organizzato un sit-in per chiedere un completo ed equo indennizzo per la perdita dei loro cari.

Unisciti alla lotta dei lavoratori e delle lavoratrici del Rana Plaza e della Tazreen ancora una volta.

Ad oggi solo la Primark ha pubblicamente dichiarato di voler impegnarsi per il risarcimento. È ora che lo facciano tutti.


(2013) Lettera aperta a Dolce e Gabbana

Cari Dolce e Gabbana,

nel leggere le dichiarazioni che avete rilasciato in questi ultimi giorni ci sarebbe da farsi grasse risate, se non ci fossero degli aspetti inquietanti che accompagnano da anni il lavoro della Vostra azienda.

La questione dell’evasione, pur grave di suo, infatti, non è che l’ultima notizia che vi riguarda. Ma siamo proprio sicuri che sia la più grave?

Vorremmo ricordare ad esempio che, come molte altre aziende del settore, voi siete abituati a produrre i vostri preziosissimi capi in posti in cui mancano le basilari norme sulla sicurezza dei lavoratori, nonché le principali tutele sindacali e di rappresentanza. Vi ricordate la sabbiatura dei jeans? Si tratta di una tecnica adoperata per dare ai denim un aspetto logoro e sbiancato: viene realizzata sparando della sabbia con dei compressori ad alta pressione, liberando nell’aria particelle di silice altamente dannose per la salute degli operatori che la praticano. Può portare alla morte nel giro di pochi anni.

Vi ricordate come avete reagito quando ve ne abbiamo parlato? Al contrario di molti altri marchi, anche italiani, che si sono impegnati ad abolire questa tecnica dalle loro catene di fornitura, Voi non avete nemmeno risposto alle nostre domande. Anzi, quando persino le Ienehanno cercato di chiederVi spiegazioni in merito, ci avete accusato di protagonismo.

E devono essere malate di protagonismo anche quelle donne che hanno raccontato come si producono gli abiti, anche Vostri, nelle fabbriche di Tangeri: eccesso di ore lavorative, bassi salari, abusi verbali e fisici, arbitrarietà nelle assunzioni e nei licenziamenti, misure disciplinari sproporzionate e ostacoli all’azione sindacale. Gli straordinari sono obbligatori e generalmente non retribuiti. La giornata lavorativa supera le 12 ore, sei giorni a settimana per salari che non vanno oltre i 200 euro mensili e che, a volte, stanno anche al di sotto dei 100 euro mensili. Le operaie più giovani, spesso minori di 16 anni, sono considerate apprendiste e vengono fatte lavorare senza contratto le stesse ore delle altre, con una paga però di 0,36 centesimi di euro all’ora, tre volte meno delle colleghe. (vedi rapporto La moda española en Tánger: trabajo y superviviencia de las obreras de la confección).

Ci piacerebbe allora che provaste a spiegare alle persone che vengono sfruttate nella Vostra catena di fornitura le ragioni della Vostra indignazione: chissà, per la legge dei grandi numeri, magari una riuscite anche a convincerla.

In fede

Campagna Abiti Puliti


MDG-Rana-Plaza-Bangladesh-008

Rana Plaza e Tazreen: è ora di risarcire le vittime. Incontro a Dhaka con le aziende coinvolte

MDG-Rana-Plaza-Bangladesh-008Oggi, esattamente otto mesi dopo l’incendio nella fabbrica Tazreen e tre mesi dopo il crollo del Rana Plaza, entrambi avvenuti in Bangladesh, la Clean Clothes Campaign  invita tutti i marchi coinvolti a partecipare agli incontri fissati per definire lo schema del risarcimento dovuto ai sopravvissuti e ai familiari delle vittime. Questi appuntamenti, organizzati da IndustriALL Global Union, IndustriALL Bangladesh Council e i partner internazionali, avranno luogo l’11 e il 12 agosto prossimi a Dhaka, in Bangladesh.

Gli incontri hanno lo scopo di riunire le aziende che hanno effettuato ordini presso i due stabilimenti in cui la mancanza di norme di sicurezza e di tutela della salute ha causato 1.243 morti e migliaia di feriti. Tra i marchi invitati ci sono Benetton, Mango, Walmart, Primark, The Walt Disney Company e l’agenzia internazionale Li & Fung. Ciascuna aveva effettuato ordini a una delle fabbriche coinvolte dalle tragedie. Oltre a queste, sono state invitate anche le italiane Manifattura Corona, Piazza Italia e Yes Zee.

Gli incontri hanno l’obiettivo di avviare un processo collaborativo per determinare il risarcimento e la distribuzione dei pagamenti a coloro la cui vita familiare, il benessere economico e la salute sono stati gravemente danneggiati a seguito di entrambe queste tragedie. Il percorso è già stato tracciato da precedenti esperienze legate ad altre tragedie che hanno sconvolto il Bangladesh.

Il confronto era già iniziato in relazione alle vittime e ai sopravvissuti dell’incendio alla Tazreen. Alcuni marchi si erano impegnati a partecipare al risarcimento, ma la tragedia del Rana Plaza ha di fatto bloccato questo processo. Chiediamo che i negoziati a questo punto ripartano.

L’incontro al Rana Plaza sarà il primo in tema di risarcimento su questo caso. Solo Primark ad oggi ha pubblicamente dichiarato che parteciperà al fondo secondo lo schema previsto. Gli altri marchi, invece, hanno preferito per ora annunciare solo operazioni caritatevoli piuttosto che impegnarsi seriamente sul fondo negoziato.

Indagini sul campo indicano che molti lavoratori insieme alle loro famiglie vivono situazioni disperate, non essendo in grado di pagare le spese mediche, alimentari e quotidiane.

Una sopravvissuta ha perso suo marito nel crollo dello scorso aprile, ma il suo corpo è ancora disperso. Il marito lavorava al quinto piano alla fabbrica Phantom Tec come addetto alla cucitura guadagnando 4.800 taka (47 euro) al mese. Lei è l’unica speranza per il suo bambino di 7 mesi e per l’anziano padre in pessime condizioni di salute. La BGMEA, l’associazione degli esportatori bengalesi, le ha offerto una macchina da cucire e 1000 Taka (10 euro), ma non ha più ricevuto lo stipendio del marito o qualsiasi altro risarcimento.

La cifra stimata per il risarcimento alle vittime del Rana Plaza si aggira intorno ai 54 milioni di euro. Per la Tazreen intorno ai 4,3 milioni di euro. Questi numeri comprendono il risarcimento per il dolore e la sofferenza causati, la perdita di reddito per le famiglie dei lavoratori deceduti o feriti. Non comprendono le spese mediche per i lavoratori feriti, il supporto psicologico per loro e per tutti i familiari delle vittime e il pagamento degli stipendi e dei trattamenti di fine rapporto per coloro che hanno perso il proprio lavoro.


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(2013) 5 motivi che rendono il piano di Walmart e Gap inutile

Walmart-GAP_10Jul2013jpegWalmart e Gap, due multinazionali che hanno fallito nel prevenire la morte di numerosi lavoratori in Bangladesh, hanno annunciato un proprio programma di ispezioni che va ad aggiungersi alla lunga lista di interventi inefficaci propagandati per anni. Walmart e Gap - insieme ad altri marchi, molti statunitensi, anche se non tutti - hanno rifiutato di firmare l’Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh, un programma effettivo per la sicurezza dei lavoratori sottoscritto da più di 70 aziende in oltre 15 Paesi. Walmart, Gap e le aziende che hanno scelto di unirsi a loro, non sono disposte ad impegnarsi in un programma grazie al quale sarebbero realmente costrette a mantenere le promesse fatte ai lavoratori e ad accettare la responsabilità finanziaria di garantire che le loro fabbriche siano effettivamente rese sicure. Al contrario, offrono un programma che imita l’Accordo in maniera retorica, omettendo le caratteristiche che lo rendono significativo.

“L’approccio volontaristico e auto-referenziale proposto da Walmart e Gap ricalca esattamente tutte le fallimentari e fumose politiche di RSI che hanno fatto da paravento ad una realtà durissima, quella del Bangladesh, dove migliaia di lavoratori sono morti a causa della negligenza prolungata delle imprese”, dichiara Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti. “ L’Accordo sulla prevenzione e la sicurezza sviluppato dal sindacato internazionale e bengalese, firmato da più di 70 marchi internazionali rappresenta un processo radicalmente diverso, che impegna le imprese a fare ciò che dicono e coinvolge direttamente i rappresentanti dei lavoratori. Walmart e Gap farebbero bene a firmare quello, se davvero vogliono prevenire nuovi gravissimi fatti luttuosi” continua Lucchetti

Spieghiamo nel dettaglio perché questa proposta è molto lontana dalle aspettative dell’Accordo.

  1. Si tratta di un programma sviluppato e controllato dalle aziende “prodotto da un gruppo di 17 distributori di abbigliamento nordamericani e dai marchi che hanno deciso di unirsi a loro per sviluppare e lanciare la Bangladesh Worker Safety Initiative”. I rappresentanti dei lavoratori non rientrano nell’accordo e non hanno alcun ruolo nel processo di governance. Considerati i gravi rischi cui sono sottoposti i lavoratori bengalesi, non può esserci nessuno schema credibile che non preveda un ruolo centrale di direzione per i rappresentanti dei lavoratori stessi così come stabilito dall’Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh.
  2. Secondo lo schema Walmart/Gap, i brand e i distributori non sono tenuti a pagare un centesimo per il rinnovamento e la ristrutturazione delle fabbriche bengalesi. Le aziende sono tenute solo a pagare le spese amministrative per coprire un programma di formazione, costi generali, ecc. Oltre a questo, non hanno obblighi finanziari. L’unico contributo per la ristrutturazione a cui si fa accenno nel testo dell’Alleanza riguarda un programma di prestito puramente volontario, “somministrato esclusivamente dall’azienda aderente [i.e. un marchio o distributore] che rende tali fondi disponibili a condizioni stabilite esclusivamente dall’Aderente stesso”. I documenti dell’Alleanza affermano inoltre esplicitamente che l’erogazione di tali fondi "non è una condizione di adesione all'Alleanza" stessa.  Walmart, Gap e i loro alleati sostengono che metteranno a disposizione in forma anonima 110 milioni di dollari sottoforma di prestiti, ma è un aspetto del tutto volontario e non c’è nessun modo di sapere se qualche azienda lo farà davvero. Secondo l’Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh, invece, i marchi e i distributori sono obbligati a mettere a disposizione tutti i soldi necessari a coprire i costi di rinnovamento e ristrutturazione di tutte le fabbriche interessate. Non si tratta di un impegno volontario, ma di una richiesta vincolante e obbligatoria. Le priorità di Walmart, Gap e le altre aziende sono chiare. Nell’Accordo il fulcro è la sicurezza delle fabbriche: brand e retailer devono pagare ciò che serve per rendere tutte le fabbriche sicure. Nello schema Walmart/Gap il fulcro è la limitazione dei costi per brand e retailer. I costi obbligatori sono ridotti dall’inizio e limitati ad un massimo di un 1 milione di dollari all’anno, senza alcun impegno vincolante a pagare per ristrutturazioni e riparazioni. Questo vuol dire che milioni di persone continueranno a lavorare in posti pericolosi.
     
  3. Secondo il programma Walmart/Gap, marchi e distributori controllano le ispezioni. L’unico ruolo per l’Alleanza è di proporre standard e metodi e di accreditare gli ispettori. I brand e i retailer scelgono gli ispettori, li pagano e regolano le ispezioni. Il presunto controllo sulle ispezioni dell’azienda sarà affidato a un sistema di verifica a campione. Sfortunatamente però, non essendo previsto il coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori, ma trattandosi un programma interamente affidato alle aziende, queste verifiche a campione non saranno altro che controlli di aziende sulle ispezioni di altre aziende. Se tutto questo ricorda i programmi di CSR fallimentari e gli schemi di ispezione che i marchi e distributori hanno usato in Bangladesh per più di dieci anni è perché sono proprio gli stessi. Il programma di Walmart e Gap conserva intatto lo stesso modello che ha fallito per anni e che è costato la vita a circa 2000 lavoratori e lavoratrici.

  4. Lo schema dell’Alleanza impone pochi obblighi ai marchi e pure inapplicabili. Secondo il loro programma, qualsiasi azienda può tirarsi indietro quando vuole. L’unica penale che deve pagare è una parte o l’intera quota delle sue spese amministrative, a seconda di quando decide di uscire. Per le grandi aziende si parla di un massimo di 5 milioni di dollari. Walmart ha un fatturato di 400 miliardi di dollari: una penale del genere è una spesa ridicola a confronto, non certo un deterrente. Questo conferma quanto i sostenitori dei diritti dei lavoratori avevano previsto da tempo: Walmart, Gap e le aziende come loro, non vogliono fare promesse che sarebbero costrette a mantenere. Ciò che vogliono è fare promesse ora, che l’attenzione mediatica sul tema è alta, per poi defilarsi quando gli fa comodo a un costo simbolico. Secondo l’Accordo, invece, i rappresentanti dei lavoratori hanno il potere di avviare procedimenti esecutivi nei confronti delle aziende che non rispettano i loro obblighi. Per l’Alleanza, invece, come ha dichiarato Walmart in conferenza stampa, l’unico strumento a disposizione dei lavoratori è un “numero verde” per comunicare con i marchi e i distributori, ai quali però resta ogni potere decisionale.

  5. Secondo l’Accordo il diritto dei lavoratori di rifiutarsi di fare lavori pericolosi, compreso entrare in edifici pericolanti, è garantito. Sulla scia della tragedia del Rana Plaza l’importanza vitale di garantire questo diritto dovrebbe essere evidente a qualsiasi azienda abbia rapporti con il Bangladesh. Invece lo schema Walmart/Gap non fa alcun riferimento a questa protezione, lasciando ai dirigenti delle fabbriche la libertà di costringere i lavoratori ad entrare negli edifici pericolosi, così come accadde nel Rana Plaza

Oltre a tutto ciò, che rende di fatto l’iniziativa Walmart/Gap inefficace, è importante tenere a mente gli antecedenti di queste aziende: tutti quei lavoratori morti nelle loro fabbriche di subappalto e tutte le promesse non mantenute che hanno fatto. Walmart opera in Bangladesh da un quarto di secolo e anno dopo anno ha sempre ripetuto che stava lavorando assiduamente per garantire i diritti e la sicurezza dei lavoratori. Eppure l’azienda non aveva effettuato nemmeno un’ispezione antincendio o dedicata alla sicurezza degli edifici prima di quest’anno. Gap aveva annunciato, circa un anno fa, un programma apparentemente robusto e globale di ispezioni e ristrutturazioni di tutte le sue fabbriche bengalesi. Ad oggi, Gap non ha menzionato nemmeno una fabbrica che avrebbe rinnovato.

Gap e Walmart non hanno più alcuna credibilità in merito.


(2013) REPORT - Scoperto l’uso della tecnica del sandblasting nelle fabbriche cinesi

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UPDATE: leggi il report in italiano

Attivisti chiedono oggi con forza un intervento immediato da parte dei governi e delle aziende per abolire definitivamente la tecnica della sabbiatura e gli altri processi di rifinitura dalla produzione dei jeans. La richiesta è contenuta in un nuovo report sulle condizioni di lavoro in sei fabbriche della provincia cinese di Guangdong, la regione in cui viene prodotta più della metà dei denim commerciati nel mondo.

L’inchiesta Breathless for Blue Jeans: Health hazards in China’s denim factories ha rivelato una presenza ancora molto diffusa del sandblasting in Cina, nonostante la maggior parte dei brand occidentali avessero dichiarato pubblicamente 3 anni fa di volerla abolire perché causa di silicosi, una lunga malattia respiratoria che ha già prodotto la morte di molti lavoratori del tessile. La tecnica viene utilizzata per fornire ai jeans un aspetto “logoro”.

Uno dei lavoratori intervistati ha dichiarato: “Il nostro reparto è pieno di polvere nera e di jeans. La temperatura nella fabbrica è molto alta. L’aria è irrespirabile. Mi sento come se lavorassi in una miniera”.

Il nuovo rapporto, basato su interviste ai lavoratori all’interno delle fabbriche, ha inoltre rivelato l’uso di altre tecniche di rifinitura altrettanto pericolose: la levigatura manuale, la lucidatura, la tintura e l’uso di agenti chimici come il permanganato di potassio. Tutto senza adeguati equipaggiamenti di protezione e formazione sul loro utilizzo.

I lavoratori e le lavoratrici devono sopportare queste condizioni per più di 15 ore al giorno e per un salario minimo di meno di 1100 yuan al mese (circa 137 euro).

Chiediamo quindi un abolizione totale e vincolante della sabbiatura dall’industria tessile, insieme ad una migliore protezione nell’uso delle altre tecniche di rifinitura.

Il rapporto è stato prodotto da IHLO, l’Hong Kong Liaison Office del movimento sindacale internazionale; Students and Scholars Against Corporate Misbehaviour (SACOM), sempre con sede ad Hong Kong; dalla Clean Clothes Campaign; e dal gruppo di pressione sui diritti dei lavoratori War On Want.

Leggi il sommario del report


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(2013) L'accordo sul Bangladesh entra nel vivo

accordo_bangladeshIl Comitato di direzione annuncia il piano di implementazione

 

Il Comitato di direzione dell'Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh annuncia oggi il suo piano di implementazione del programma dell'Accordo, che doveva essere consegnato entro la scadenza di 45 giorni dalla firma. Questo Accordo pionieristico è costituito da un contratto vincolante tra 70 marche e rivenditori del settore dell'abbigliamento, sindacati internazionali e locali e ONG. L'obiettivo è di assicurare miglioramenti sostenibili nelle condizioni di lavoro nell'industria degli indumenti in Bangladesh.

"La CCC come testimone della firma dell'Accordo si congratula con il team di implementazione per gli eccellenti passi in avanti compiuti, che potenzialmente potranno rappresentare un reale cambiamento per la vita di molti lavoratori bengalesi. Accogliamo inoltre con favore il forte impegno dei marchi per migliorare la salute e la sicurezza nelle fabbriche di abbigliamento in Bangladesh". ha dichiarato Ben Vanpeperstraete, del Segretariato Internazionale

I punti principali del piano sono:

-                  Ispezioni iniziali, per identificare pericoli gravi e la necessità di riparazioni urgenti (saranno portate a termine entro 9 mesi).

-                  Una procedura intermedia per avere effetto nel caso in cui i processi d'ispezione esistenti o i rapporti dei lavoratori identifichino fabbriche che richiedono immediate misure d'intervento.

-                  Avviamento delle procedure di assunzione per i posti di ispettore capo della sicurezza e del direttore esecutivo

-                  Istituzione della struttura di governance tramite il Comitato di direzione con un numero uguale di rappresentanti delle aziende firmatarie e dei sindacati e un comitato consultivo con ampia rappresentanza in Bangladesh.

Secondo i firmatari dell'accordo è prioritario procedere rapidamente per ridurre gravi pericoli ai quali sono soggetti i lavoratori nelle aziende coperte dall'accordo. Le prime ispezioni saranno portate a termine al più tardi entro 9 mesi in tutte le fabbriche e i progetti di rinnovamento e di riparazione saranno messi in atto laddove necessario.  Questi si concentreranno nelle situazioni in cui i lavoratori sono esposti a gravi e immediati rischi, in particolare dove le infrastrutture e le procedure di emergenza (ad esempio uscite di emergenza, esercitazioni anti incendio ed evacuazione) e difetti strutturali, che potrebbero condurre a guasti strutturali parziali o totali di una fabbrica, vengano riscontrati.

Jyrki Raina, segretario generale di IndustriAll: "La nostra missione è chiara: assicurare la sicurezza a tutti i lavoratori dell'industria degli indumenti in Bangladesh. La chiave del  successo  di  questo  programma  è  il  conivolgimento  diretto  degli  operai  nelle fabbriche".

Nel periodo intermedio durante il quale si finalizzeranno i dettagli e si creeranno gli ispettorati,   un   protocollo   di   emergenza   garantirà   la   possibilità   di   intervenire rapidamente per  proteggere  i  lavoratori  presso  qualsiasi  fabbrica  nella  quale programmi di ispezione esistenti o rapporti dei lavoratori identifichino una minaccia immediata per la vita e situazioni pericolose. Tutte le aziende firmatarie che fanno capo alla fabbrica in questione saranno informate immediatamente e il proprietario della fabbrica sarà intimato a cessare le attività nell'attesa di ulteriori investigazioni e/o riparazioni. Grazie al coinvolgimento dei sindacati locali, gli operai delle fabbriche saranno informati su potenziali pericoli e sul loro diritto di rifiutarsi di entrare in un edificio potenzialmente non sicuro. Si prevederà un piano attuabile di rinnovo e riparazione per eliminare i pericoli e gli operai saranno pagati durante il periodo di chiusura della fabbrica.

Andy York, manager del commercio equo, N Brown Group: "I firmatari concordano che questo sforzo comune costituisce un programma credibile ed effettivo in cui tutte le parti si impegnano in modo genuino a collaborare. Soltanto in questo modo si potranno realizzare cambiamenti a lungo termine e sostenibili nell'industria degli indumenti in Bangladesh."

È già in corso il processo di reclutamento dell'ispettore capo della sicurezza e del direttore esecutivo, i quali dovranno riferire direttamente al Comitato di direzione dell'accordo.

Entro il 15 luglio tutte le compagnie firmatarie raccoglieranno i dati concernenti le fabbriche, comprendenti i dettagli di ogni singolo edificio della fabbrica.  Si prevede di pubblicare un elenco aggiornato di tutte le fabbriche interessate dall'accordo.

La struttura legale  che gestisce l'accordo sarà costituita da una Fondazione con sede in Olanda e un ufficio in Bangladesh.

I sei membri esecutivi del Comitato di direzione sono stati eletti. I membri includono funzionari di IndustriAll Global Union, UNI Global Union e del Consiglio dei sindacati del  Bangladesh,  nonché  rappresentanti  delle  aziende  firmatarie:  Inditex,  N.Brown Group and PVH Corp. L'Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) ha designato un suo rappresentante senior quale presidente.

Si istituirà un comitato consultivo che include rappresentanti del governo del Bangladesh, dei fornitori, delle marche, dei sindacati logali e delle ONG. Il comitato consultivo, che sarà presieduto da un rappresentante dell'ILO, è di vitale importanza per assicurare un collegamento forte tra gli attori locali e il piano d'azione nazionale.

Una delegazione del Comitato di direzione si recherà in visita in Bangladesh alla fine di luglio per incontrare i portatori di interessi locali e discutere sul loro ruolo nel contesto di implementazione dell'accordo e per creare nessi tra i lavoratori.

Il Comitato di direzione desidera ringraziare il team di implementazione per il grande lavoro svolto negli ultimi 45 giorni per allestire il piano di implementazione. Il team di implementazione è composto da Clean Clothes Campaign, Worker Rights Consortium (consorzio per i diritti dei lavoratori), IndustriAll Global Union (federazione mondiale dell'industria), UNI Global Union, Aldi, C&A, Inditex, N Brown Group, Otto Group, e PVH Corp.

You can find all the answers to the Frequently Asked Questions here

The History of the Bangladesh Safety Accord here

CCC's report Fatal Fashion - An analysis of recent factory fires in Pakistan and Bangladesh here

CCC's report Hazardous Workplaces - Making the Bangladesh Garment Industry Safe here


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Basta false promesse: chiedi ai marchi il risarcimento per le vittime

webbeeld5Oggi, 24 maggio 2013, è un mese esatto dal crollo del Rana Plaza, costato la vita ad oltre mille persone. Oggi è anche l’anniversario del sesto mese dall’incendio alla fabbrica Tazreen in cui morirono 112 persone arse vive.

Queste due assurde tragedie nell’industria tessile bengalese contano un totale di 1239 vittime e migliaia di feriti. A queste lavoratrici e a questi lavoratori spetta un risarcimento, ma i loro debiti stanno crescendo a causa dell’inerzia dei marchi coinvolti. Diciamo ai marchi: è ora di pagare! Non fate soffrire i sopravvissuti ulteriormente.

>> Scrivi ai marchi per chiedere di pagare i risarcimenti per le vittime dell’incendio alla Tazreen e del crollo del Rana Plaza ora!

Sabato 25 maggio attivisti della Campagna Abiti Puliti scenderanno in piazza a Milano, Firenze e Napoli per chiedere ai marchi coinvolti nelle tragedie del Rana Plaza e della Tazreen di assumersi le loro responsabilità. Siete tutti invitati a partecipare!

Apprezziamo l’impegno assunto dai marchi che hanno sottoscritto l’Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh per prevenire future tragedie, ma questo non li sottrae dalla responsabilità di pagare risarcimenti equi e negoziati con i sindacati.

Leggi la posizione aggiornata di tutti i marchi coinvolti

La perdita del lavoro e dei salari è devastante per le famiglie coinvolte. Le storie di disagio sono moltissime. Una donna ha raccontato ai media che sua nipote stava lavorando al Rana Plaza da appena un mese quando è stata sepolta dalle macerie. Ha raccontato di non essere riuscita ad ottenere assistenza da nessuno: “Siamo molto poveri, non so dove chiedere aiuto”.  La nipote era l’unica, come in molte famiglie, ad avere un lavoro.

Nonostante molti marchi abbiano annunciato pubblicamente che avrebbero prestato soccorso alle vittime, la maggior parte delle famiglie dei deceduti nel Rana Plaza non ha ancora ricevuto alcun supporto economico. Né le vittime del Rana Plaza, né quelle della Tazreen hanno alcuna garanzia che tali sostegni arriveranno, pur essendo un diritto previsto dagli standard dell’ILO.

La somma necessaria a costruire il fondo di risarcimento per la tragedia del Rana Plaza ammonta a circa 54 milioni di euro, mentre quello per l’incendio alla Tazreen a circa 4,5 milioni di euro. Queste cifre sono state calcolate dai sindacati bengalesi e internazionali sulla base di altre tragedie precedenti e degli standard dell’ILO. I marchi devono assumere l’onere il 45% del totale, mentre il governo, l’associazione dei datori di lavoro bengalese (BGMEA) e i fornitori il restante 55%

La CCC chiede a tutti i marchi collegati al Rana Plaza e alla Tazreen di:

  • Impegnarsi a pagare le cure immediate e un risarcimento completo ed equo ai lavoratori feriti e alle famiglie delle vittime, in linea con le metodologie e i calcoli stabiliti dai sindacati
  • collaborare con i sindacati del Bangladesh e le organizzazioni che rappresentano le vittime, così come con IndustriALL, la confederazione sindacale globale che rappresenta i lavoratori del tessile, al fine di garantire che tutti i pagamenti siano effettuati secondo un processo trasparente e concordato.

La Campagna Abiti Puliti ha bisogno del tuo supporto affinché giustizia sia fatta per le vittime del Rana Plaza e della Tazreen. Alcuni brand hanno dato la loro disponibilità a partecipare al meccanismo di risarcimento, ma finché tutte le vittime non saranno risarcite non smetteremo di chiedere giustizia. I marchi possono fare pressione su altre imprese e sul governo bengalese per costringerli a pagare, creando un precedente importante che riconsegni dignità alle vittime delle due tragedie.

>> Entra in azione e chiedi ai marchi di pagare un pieno ed equo risarcimento.

Manda una email ai brand per chiedergli di assumersi le loro responsabilità!

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Testo dell’email

Caro …

Sono molto preoccupato/a  di apprendere dalla Campagna Abiti Puliti che dopo sei mesi dall’incendio alla fabbrica Tazreen e dopo un mese dal crollo del Rana Plaza, le famiglie dei 1239 morti e degli oltre 2600 feriti stiano ancora aspettando il pieno ed equo risarcimento. È trascorso troppo tempo.

Basta ritardi! Prendete l’iniziativa e collaborate con i sindacati per pagare immediatamente i risarcimenti che spettano alle vittime. Dovreste impegnarvi a pagare l’indennizzo secondo un processo trasparente e concordato basato su standard internazionali coprendo la perdita di guadagni immediati e i danni, le cure mediche, la riabilitazione e le spese dell’istruzione dei figli dei lavoratori e delle lavoratrici deceduti.

È ora di pagare. Le vittime hanno già sofferto abbastanza

Distinti saluti

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Il Parlamento Europeo per le vittime del Bangladesh

parlamento-europeoLa Clean Clothes Campaign accoglie favorevolmente la risoluzione del Parlamento Europeo del 20 maggio scorso sulla salute e la sicurezza nelle fabbriche del Bangladesh, che definisce le aspettative del Parlamento riguardo il piano di risarcimento finanziario per le vittime degli incendi e dei crolli che le multinazionali distributrici del tessile devono istituire e il sostegno all’Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh.
La risoluzione invita inoltre i marchi ad aderire pienamente ai Guiding Principles on Business and Human Rights delle Nazioni Unite, che definiscono le responsabilità per i brand negli ambiti di dovuta diligenza e bonifica.
La risoluzione è stata approvata in seguito all’incendio della fabbrica Tazreen in cui hanno perso la vita 112 lavoratori e lavoratrici nel novembre 2012 e al crollo del Rana Plaza in cui sono morte 1129 persone lo scorso aprile.
Il fatto che il Parlamento Europeo si aspetti che i marchi internazionali che stavano producendo in queste fabbriche istituiscano un piano di risarcimento supporta la richiesta della CCC, a tutti i brand che hanno effettuato ordini presso Tazreen e Rana Plaza, di assumersi le loro responsabilità facendo in modo che sia pagato un risarcimento integrale ed equo alle vittime.
Tra le oltre 30 aziende coinvolte ci sono giganti dell’abbigliamento come Benetton, Walmart, Mango, ma ad oggi solo Primark ha annunciato pubblicamente che si impegnerà nel fondo di risarcimento stabilito secondo la formula predisposta dai sindacati.
La risoluzione è stata approvata quasi all'unanimità, con 459 voti a favore e 1 contrario, lo stesso giorno che l’ILO ospitava la riunione di lancio dell’Accord on Fire and Building Safety.
L'accordo, giuridicamente vincolante, è stato firmato da 40 imprese, IndustriALL e Uni Global Unions, i sindacati del Bangladesh con CCC, WRC, ILRF e MSN quali osservatori internazionali. Alla riunione di lancio si è deciso di muoversi immediatamente per attuare l’Accordo. L'obiettivo è quello di avere il più rapidamente possibile gli ispettori della sicurezza sul campo, al fine di cominciare a risolvere i problemi più urgenti.
La CCC è molto soddisfatta per la richiesta del Parlamento a Walmart, Gap, Metro, NKD e tutti gli altri marchi di firmare questo accordo vincolante.
L'accordo attribuisce ai lavoratori un ruolo chiaro nel prevenire tragedie in fabbrica. La risoluzione del Parlamento Europeo sottolinea questo principio fondamentale e difende il diritto dei lavoratori in Bangladesh di formare e iscriversi ai sindacati indipendenti, senza timore di vessazioni: l’esistenza di strutture sindacali democratiche è uno strumento essenziale nella lotta per migliorare gli standard di salute e sicurezza e le condizioni di lavoro, compreso l’aumento dei salari. Per questo invita il governo del Bangladesh a garantire questi diritti fondamentali


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Immagini e video delle manifestazioni

Ecco alcune immagini dei presidi di sabato 25 maggio per chiedere che alle azienda che si assumano le loro responsabilità nel risarcimento alle vittime del Rana Plaza e della Tazreen

Milano

Firenze


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Sabato 25 maggio in piazza per chiedere giustizia

webbeeld5Sabato 25 maggio attivisti della Campagna Abiti Puliti scenderanno in piazza a Milano, Firenze e Napoli per chiedere ai marchi coinvolti nelle tragedie del Rana Plaza e della Tazreen di assumersi le loro responsabilità. Siete tutti invitati a partecipare!

Ecco gli appuntamenti:

Milano - ritrovo davanti al negozio Benetton in Piazza del Duomo, angolo Via Mazzini alle ore 16.30. Contatto Ersilia Monti (Coordinamento Nord Sud) 333.2044346

Firenze - ritrovo in Piazza della Repubblica alle ore 11 da dove partirà il corteo per via Calima fino al negozio Benetton di Via Por Santa Maria.
Contatto Montse Framis Abella (Manitese) 3473867310

Napoli - dalle 10.30 ale 13.00- seminario di presentazione della Campagna Abiti Puliti  con la partecipazione di Francesco Gesualdi, Alex Zanotelli e Renato Briganti.
c/o la Fiera dei Beni Comuni – Acquario di Napoli – Lungo Mare Caracciolo
A seguire stesso luogo --> ritrovo alle ore 16.30 per partecipare al Flash Mob davanti alla Benetton di Via Dei Mille
Contatto Renato Briganti (Manitese) 3474204498


(2013) Sabato 25 maggio in piazza per chiedere giustizia

Sabato 25 maggio attivisti della Campagna Abiti Puliti scenderanno in piazza a Milano, Firenze e Napoli per chiedere ai marchi coinvolti nelle tragedie del Rana Plaza e della Tazreen di assumersi le loro responsabilità. Siete tutti invitati a partecipare!

Ecco gli appuntamenti:

Milano - ritrovo davanti al negozio Benetton in Piazza del Duomo, angolo Via Mazzini alle ore 16.30. Contatto Ersilia Monti (Coordinamento Nord Sud) 333.2044346  

Firenze - ritrovo in Piazza della Repubblica alle ore 11 da dove partirà il corteo per via Calima fino al negozio Benetton di Via Por Santa Maria. 
Contatto Montse Framis Abella (Manitese) 3473867310

Napoli - dalle 10.30 ale 13.00- seminario di presentazione della Campagna Abiti Puliti  con la partecipazione di Francesco Gesualdi, Alex Zanotelli e Renato Briganti. 
c/o la Fiera dei Beni Comuni – Acquario di Napoli – Lungo Mare Caracciolo
A seguire stesso luogo --> ritrovo alle ore 16.30 per partecipare al Flash Mob davanti alla Benetton di Via Dei Mille
Contatto Renato Briganti (Manitese) 3474204498


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(2013) Basta false promesse: chiedi ai marchi il risarcimento per le vittime

webbeeld5Oggi, 24 maggio 2013, è un mese esatto dal crollo del Rana Plaza, costato la vita ad oltre mille persone. Oggi è anche l’anniversario del sesto mese dall’incendio alla fabbrica Tazreen in cui morirono 112 persone arse vive.

Queste due assurde tragedie nell’industria tessile bengalese contano un totale di 1239 vittime e migliaia di feriti. A queste lavoratrici e a questi lavoratori spetta un risarcimento, ma i loro debiti stanno crescendo a causa dell’inerzia dei marchi coinvolti. Diciamo ai marchi: è ora di pagare! Non fate soffrire i sopravvissuti ulteriormente.

>> Scrivi ai marchi per chiedere di pagare i risarcimenti per le vittime dell’incendio alla Tazreen e del crollo del Rana Plaza ora!

Sabato 25 maggio attivisti della Campagna Abiti Puliti scenderanno in piazza a Milano, Firenze e Napoli per chiedere ai marchi coinvolti nelle tragedie del Rana Plaza e della Tazreen di assumersi le loro responsabilità. Siete tutti invitati a partecipare!

Apprezziamo l’impegno assunto dai marchi che hanno sottoscritto l’Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh per prevenire future tragedie, ma questo non li sottrae dalla responsabilità di pagare risarcimenti equi e negoziati con i sindacati.

Leggi la posizione aggiornata di tutti i marchi coinvolti

La perdita del lavoro e dei salari è devastante per le famiglie coinvolte. Le storie di disagio sono moltissime. Una donna ha raccontato ai media che sua nipote stava lavorando al Rana Plaza da appena un mese quando è stata sepolta dalle macerie. Ha raccontato di non essere riuscita ad ottenere assistenza da nessuno: “Siamo molto poveri, non so dove chiedere aiuto”.  La nipote era l’unica, come in molte famiglie, ad avere un lavoro.

Nonostante molti marchi abbiano annunciato pubblicamente che avrebbero prestato soccorso alle vittime, la maggior parte delle famiglie dei deceduti nel Rana Plaza non ha ancora ricevuto alcun supporto economico. Né le vittime del Rana Plaza, né quelle della Tazreen hanno alcuna garanzia che tali sostegni arriveranno, pur essendo un diritto previsto dagli standard dell’ILO.

La somma necessaria a costruire il fondo di risarcimento per la tragedia del Rana Plaza ammonta a circa 54 milioni di euro, mentre quello per l’incendio alla Tazreen a circa 4,5 milioni di euro. Queste cifre sono state calcolate dai sindacati bengalesi e internazionali sulla base di altre tragedie precedenti e degli standard dell’ILO. I marchi devono assumere l’onere il 45% del totale, mentre il governo, l’associazione dei datori di lavoro bengalese (BGMEA) e i fornitori il restante 55%

La CCC chiede a tutti i marchi collegati al Rana Plaza e alla Tazreen di:

  • Impegnarsi a pagare le cure immediate e un risarcimento completo ed equo ai lavoratori feriti e alle famiglie delle vittime, in linea con le metodologie e i calcoli stabiliti dai sindacati
  • collaborare con i sindacati del Bangladesh e le organizzazioni che rappresentano le vittime, così come con IndustriALL, la confederazione sindacale globale che rappresenta i lavoratori del tessile, al fine di garantire che tutti i pagamenti siano effettuati secondo un processo trasparente e concordato.

La Campagna Abiti Puliti ha bisogno del tuo supporto affinché giustizia sia fatta per le vittime del Rana Plaza e della Tazreen. Alcuni brand hanno dato la loro disponibilità a partecipare al meccanismo di risarcimento, ma finché tutte le vittime non saranno risarcite non smetteremo di chiedere giustizia. I marchi possono fare pressione su altre imprese e sul governo bengalese per costringerli a pagare, creando un precedente importante che riconsegni dignità alle vittime delle due tragedie.

>> Entra in azione e chiedi ai marchi di pagare un pieno ed equo risarcimento.

Manda una email ai brand per chiedergli di assumersi le loro responsabilità!

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Testo dell’email

Caro …

Sono molto preoccupato/a  di apprendere dalla Campagna Abiti Puliti che dopo sei mesi dall’incendio alla fabbrica Tazreen e dopo un mese dal crollo del Rana Plaza, le famiglie dei 1239 morti e degli oltre 2600 feriti stiano ancora aspettando il pieno ed equo risarcimento. È trascorso troppo tempo.

Basta ritardi! Prendete l’iniziativa e collaborate con i sindacati per pagare immediatamente i risarcimenti che spettano alle vittime. Dovreste impegnarvi a pagare l’indennizzo secondo un processo trasparente e concordato basato su standard internazionali coprendo la perdita di guadagni immediati e i danni, le cure mediche, la riabilitazione e le spese dell’istruzione dei figli dei lavoratori e delle lavoratrici deceduti.

È ora di pagare. Le vittime hanno già sofferto abbastanza

Distinti saluti

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copertinasito_abbiamovinto

(2013) Abbiamo vinto. Anche Benetton sigla l'accordo sulla sicurezza in Bangladesh

copertinasito_abbiamovintoLa pressione popolare coordinata dalla Campagna Abiti Puliti ha costretto anche Benetton a firmare l’accordo per la sicurezza e la prevenzione degli incendi in Bangladesh.

A poche ore della scadenza dell’ultimatum lanciato dalla CCC, l’azienda italiana ha deciso infatti di sottoscrivere l’accordo che prevede ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti, informazione pubblica e l’obbligo di revisione strutturale degli edifici e obbligo per i marchi internazionali di sostenere i costi e interrompere le relazioni commerciali con le aziende che rifiuteranno di adeguarsi, per rimuovere alla radice le cause che rendono le fabbriche del paese insicure e rischiose per migliaia di lavoratori.

“Il cuore dell’accordo” spiega Deborah Lucchetti “è l’impegno delle imprese internazionali a pagare per la messa in sicurezza degli edifici, unitamente ad un ruolo centrale dei lavoratori e dei loro sindacati. Solo attraverso una diretta partecipazione dei lavoratori del Bangladesh sarà possibile costruire condizioni di lavoro sicure e mettere la parola fine a tragedie orribili come quella del Rana Plaza”.

La firma di Benetton arriva dopo aver negato a lungo il suo coinvolgimento con fornitori presenti al Rana Plaza e dopo che molti dei marchi impegnati nelle fabbriche bengalesi avevano già riconosciuto la propria responsabilità. H&M, Inditex, PVH, Tchibo, Primark, Tesco, C&A, Hess Natur sono alcuni dei primi firmatari dell’accordo.

Questo successo è frutto non solo della collaborazione straodinaria tra la Clean Clothes Campaign, il Workers Rights Consortium, la federazione dei sindacati internazionali IndustiAll e UNI Global Union, unitamente alle altre organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti dei lavoratori, tra cui citiamo International Labor Rights Forum (ILRF), United Students Against Sweatshops (USAS), Maquila Solidarity Network (MSN), War on Want, People and Planet, SumOfUs.org, Change.org, Credo Action, Avaaz e Causes, ma soprattutto della forza che i consumatori hanno saputo imprimere alla campagna decidendo di sottoscrivere la petizione che chiedeva ai marchi azioni concrete.

Dal 2005 più di 1700 lavoratori tessili in Bangladesh sono morti a causa della scarsa sicurezza degli edifici. Ora si apre una fase nuova, nella quale i marchi si sono impegnati ad essere parte attiva e collaborativa.

Tutti insieme siamo riusciti a creare un precedente storico di mobilitazione dal basso che difficilmente potrà essere ignorato d’ora in avanti.


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(2013) Oltre 1 milione di firme per la sicurezza in Bangladesh

bangladesh_picture1I marchi sottoscrivano entro il 15 maggio
l’accordo per la sicurezza delle fabbriche in Bangladesh


>> AGISCI SUBITO Firma la petizione online

 

Più di un milione di persone ha già firmato le petizioni che chiedono ai marchi che si riforniscono in Bangladesh di sottoscrivere il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement immediatamente.

“In tutto il mondo l’opinione pubblica si è mobilitata per dire basta a questa orribile sequenza di incidenti  e mandare un chiaro messaggio alle imprese che si riforniscono in Bangladesh, tra cui Benetton, H&M, Mango, Primark, GAP, C&A, KIK, H&M, JC Penney, e Wal-Mart” dichiara Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti”. “Chiediamo a tutti i marchi coinvolti di fare passi concreti e immediati necessari a cambiare le condizioni di lavoro e di sicurezza presso i loro fornitori in Bangladesh, perché non si ripeta un’altra tragedia evitabile come il Rana Plaza dove hanno perso la vita più di mille lavoratori.” Continua Lucchetti: “L’accordo messo a punto insieme ai sindacati internazionali pone le basi strutturali per evitare la perdita di altre vite. Le imprese non possono continuare ad ignorarlo e devono firmarlo entro il 15 maggio, è questione di vita o di morte”.

L’accordo prevede ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti, informazione pubblica e revisione strutturale delle norme di sicurezza per rimuovere alla radice le cause che rendono le fabbriche del paese insicure e rischiose per migliaia di lavoratori.

Il crollo dell’edificio Rana Plaza, costato la vita a oltre 1000 persone, e l’ultimo incendio dello scorso 8 maggio in un’altra fabbrica di abbigliamento bengalese, rendono questo impegno dei marchi ineluttabile.

Le firme sono state raccolte da una coalizione di sindacati e organizzazioni di cittadini impegnati nella difesa dei diritti dei lavoratori dislocate in tutto il mondo: Clean Clothes Campaign (CCC), IndustriALL Global Union, UNI Global Union, International Labor Rights Forum (ILRF), United Students Against Sweatshops (USAS), Maquila Solidarity Network (MSN), War on Want, People and Planet, SumOfUs.org, Change.org, Credo Action, Avaaz e Causes.

Dal 2005 più di 1700 lavoratori tessili sono morti a causa della scarsa sicurezza degli edifici. Gli ultimi avvenimenti evidenziano, ancora una volta, la necessità di interventi immediati e il fallimento dei sistemi di controllo adottati dalle imprese. Due delle fabbriche del Rana Plaza erano state ispezionate dalla Business Social Compliance Initiative (BSCI) e molti dei marchi coinvolti hanno altri sistemi di controllo in atto, ma nessuno di questi è  riuscito a denunciare l’abusivismo edilizio e a migliorare le pratiche di sicurezza.

Jyrki Raina, segretario generale del sindacato IndustriALL ha dichiarato: ”il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement è l'unico programma credibile che i marchi possono firmare. I requisiti di questo programma sono semplici misure di buon senso, che avranno un impatto importante sulla sicurezza dei lavoratori nelle fabbriche in Bangladesh. E 'giunto il momento per tutti i marchi di impegnarsi a garantire la sicurezza in Bangladesh”.

Molte delle organizzazioni che sostengono la campagna si sono mobilitate sui temi della sicurezza in Bangladesh già dopo il crollo della fabbrica Spectrum nel 2005, costata la vita a 64 persone con il coinvolgimento di Zara. Nel 2012, PVH (proprietario di Calvin Klein e Tommy Hilfiger) e il distributore tedesco Tchibo sono stati i primi marchi a sottoscrivere l'accordo sulla sicurezza.


RANA-PLAZA-BENETTON-BANGLADESH

(2013) Lettera aperta a Benetton

RANA-PLAZA-BENETTON-BANGLADESHLa Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign, chiede, attraverso una lettera aperta indirizzata ai vertici dell’azienda Benetton, un loro impegno concreto per affrontare l’emergenza scaturita dalla tragedia del Rana Plaza, l’edificio di otto piani crollato lo scorso 24 aprile nella regione di Dhaka in Bangladesh.

In particolare, viste anche le ultime dichiarazioni rilasciate dal marchio alla stampa internazionale con le quali si è detto disponibile a contribuire al risarcimento delle vittime del crollo e alla luce delle numerose prove che di fatto legano l’azienda a una delle fabbriche del Rana Plaza, chiede che Benetton:

 

  • Invii immediatamente una sua delegazione in Bangladesh, stabilendo un contatto diretto con Abiti Puliti e i sindacati locali per fornire immediato supporto alle vittime della tragedia che hanno bisogno di cure, cibo e assistenza;
  • contribuisca al fondo di risarcimento negoziato con i sindacati bengalesi e IndustryALL - la federazione internazionale dei sindacati tessili - in base a criteri equi e secondo una lista   trasparente che elenchi tutte le vittime e i feriti.  La cifra totale, secondo le prime stime, non potrà essere inferiore ai 30milioni di dollari, per risarcire le vittime o le famiglie dei deceduti, per gli stipendi mancati per l’intero ciclo di vita e i danni psicologici subiti. Sono esclusi i costi dell’assistenza medica per centinaia di feriti.
  • sigli il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, un programma specifico di azione che include ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti, informazione pubblica e revisione strutturale delle norme di sicurezza per rimuovere alla radice le cause che rendono le fabbriche del paese insicure e rischiose per migliaia di lavoratori.
  • renda pubblica e trasparente la lista dei loro fornitori, i report degli audit effettuati e le azioni correttive intraprese per consentire alle organizzazioni non governative e ai consumatori di valutare in maniera indipendente la qualità dei loro controlli e l’effettivo miglioramento dei livelli salute e sicurezza presso i vostri fornitori.

 

La Campagna Abiti Puliti si dice certa che Benetton saprà valutare con attenzione le istanze che provengono anche dai loro clienti, attenti sempre più che gli abiti che acquistano siano confezionati in condizioni di produzione eque e dignitose.


MDG-Rana-Plaza-Bangladesh-008

(2013) Benetton faccia la sua parte

MDG-Rana-Plaza-Bangladesh-008Nuove prove a carico di Benetton sono state rinvenute tra le macerie del Rana Plaza, l’edificio di otto piani crollato lo scorso 24 aprile a Savar, sobborgo di Dhaka in Bangladesh. Questa volta si tratta di due documenti che dimostrano come il 23 marzo 2013 la New Wave, una delle fabbriche presenti nell'edificio, stesse ancora producendo capi per l'azienda italiana.

In particolare sono stati ritrovati un ordine e una relazione finaleche sottolinea alcuni difetti in una consegna di t-shits da donna. L'ordine è stato fatto attraverso un'altra azienda, la Shahi Exports PVT, fatto che evidenzia la complessa articolazione delle filiere produttive internazionali e che impone alle aziende committenti la responsabilità di conoscere, valutare e monitorare tutta la catena produttiva dal punto di vista degli impatti sociali e dei diritti effettivamente garantiti.

"Resta sconcertante che a distanza di dieci giorni dalla tragedia Benetton rilasci dichiarazioni in cui non fa alcun passo avanti nella concreta direzione di dare sostegno alle vittime e affrontare i problemi strutturali che affliggono il sistema produttivo da cui si rifornisce" dichiara Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti. "E' un problema dell’azienda se non conosce a fondo la sua catena produttiva e questo testimonia quanto debole sia il sistema di monitoraggio adottato in materia di diritti umani. Ora ci troviamo di fronte a documenti e etichette che dimostrano il loro coinvolgimento continuativo: è giunto il momento che facciano la loro parte collaborando con i sindacati e le organizzazioni a difesa dei diritti umani".

Nello specifico, la Campagna Abiti Puliti (sezione italiana della Clean Clothes Campaign) chiede a Benetton:

  • l'impegno a recarsi in Bangladesh, stabilendo un contatto diretto con Abiti Puliti e i sindacati locali per fornire immediato supporto alle vittime della tragedia che hanno bisogno di cure, cibo e assistenza;
  • l'impegno a contribuire al fondo di risarcimento negoziato con i sindacati bengalesi e IndustryALL - la federazione internazionale dei sindacati tessili - in base a criteri equi e secondo una lista   trasparente che elenchi tutte le vittime e i feriti.  La cifra totale, secondo le prime stime, non potrà essere inferiore ai 30milioni di dollari, per risarcire le vittime o le famiglie dei deceduti, per gli stipendi mancati per l’intero ciclo di vita e i danni psicologici subiti. Sono esclusi i costi dell’assistenza medica per centinaia di feriti.
  • impegno a siglare il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, unprogramma specifico di azione che include ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti, informazione pubblica e revisione strutturale delle norme di sicurezza per rimuovere alla radice le cause che rendono le fabbriche del paese insicure e rischiose per migliaia di lavoratori;

Nel frattempo è stata lanciata una petizione online per chiedere a tutte le aziende impegnate in Bangladesh di sottoscrivere il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, al fine di ridurre enormemente il pericolo che altre tragedie del genere possano verificarsi.


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Basta morti sul lavoro! Chiediamo sicurezza per i lavoratori bengalesi

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>> AGISCI SUBITO Firma la petizione online

Mercoledì 24 aprile migliaia di operai si sono recati come sempre presso una delle fabbriche in cui lavoravano situate nel palazzo Rana Plaza a Savar, Dhaka. Gli era stato detto di tornare al lavoro nonostante solo il giorno prima fossero state notate grosse crepe nello stabile. Oltre 370 di questi lavoratori sono morti e più di mille sono rimasti feriti quando quello stesso giorno l'edificio è crollato, intrappolandoli sotto tonnellate di macerie e di macchinari.

Quando è avvenuta la tragedia i lavoratori morti e feriti stavano producendo capi di abbigliamento per marchi europei e nordamericani. Un certo numero di marchi ha già riconosciuto l’esistenza di rapporti con queste fabbriche,  tra cui Primark (UK / Irlanda), Bon Marche (UK), Joe Fresh (Loblaws, Canada), El Corte Ingles (Spagna) e Mango (Spagna). Etichette e ordini dell’italiana Benetton sono state ritrovate tra le macerie. Altri marchi sono ancora in fase di identificazione.

Questa tragedia ha devastato la vita di migliaia di famiglie. Le lesioni subite da molti di questi lavoratori sono orribili e richiedono cure mediche immediate e a lungo termine. I marchi devono agire immediatamente per assicurare aiuti tempestivi e un adeguato risarcimento.

Ma c’è bisogno di passi avanti ulteriori per prevenire futuri incidenti. Dal crollo della fabbrica Spectrum nel 2005, il rispetto della sicurezza degli edifici e delle norme antincendio è stato ripetutamente chiesto ai marchi che si riforniscono in Bangladesh. Questi non possono più nascondere le loro responsabilità per l’inerzia dimostrata nell’evitare che queste tragedie si verifichino. Non vi è alcuna ragione che giustifichi ulteriori ritardi nella firma del Bangladesh Fire and Building Safety Agreement.

Da quando sono morti 112 lavoratori nell’incendio della Tazreen, i marchi hanno fatto proposte deboli e insufficienti per affrontare il tema della sicurezza degli edifici e delle norme antincendio, come i filmati (H&M), la scuola (WalMart) e alcune loro iniziative. Quanta sicurezza può garantire un video quando gli edifici crollano o le uscite di emergenza non esistono? I lavoratori hanno bisogno di soluzioni strutturali per mettere fine a queste condizioni di lavoro insicure. La firma del Bangladesh Fire and Building Safety Agreement e la collaborazione con i sindacati bengalesi sono i primi passi essenziali.

Questo accordo, costruito da sindacati bengalesi e internazionali insieme agli attivisti dei diritti del lavoro, porterà a ridurre sensibilmente l’esistenza di fabbriche trappola come Rana Plaza. Il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement comprende ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti, informazione pubblica e revisione strutturale delle norme di sicurezza. È un’operazione di fondamentale trasparenza che deve essere sostenuta da tutti gli attori principali bengalesi e internazionali.

>> AGISCI SUBITO Firma la petizione online


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(2013) Basta morti sul lavoro! Chiediamo sicurezza per i lavoratori bengalesi

rana_plaza>> AGISCI SUBITO Firma la petizione online

Mercoledì 24 aprile migliaia di operai si sono recati come sempre presso una delle fabbriche in cui lavoravano situate nel palazzo Rana Plaza a Savar, Dhaka. Gli era stato detto di tornare al lavoro nonostante solo il giorno prima fossero state notate grosse crepe nello stabile. Oltre 370 di questi lavoratori sono morti e più di mille sono rimasti feriti quando quello stesso giorno l'edificio è crollato, intrappolandoli sotto tonnellate di macerie e di macchinari.

Quando è avvenuta la tragedia i lavoratori morti e feriti stavano producendo capi di abbigliamento per marchi europei e nordamericani. Un certo numero di marchi ha già riconosciuto l’esistenza di rapporti con queste fabbriche,  tra cui Primark (UK / Irlanda), Bon Marche (UK), Joe Fresh (Loblaws, Canada), El Corte Ingles (Spagna) e Mango (Spagna). Etichette e ordini dell’italiana Benetton sono state ritrovate tra le macerie. Altri marchi sono ancora in fase di identificazione.

Questa tragedia ha devastato la vita di migliaia di famiglie. Le lesioni subite da molti di questi lavoratori sono orribili e richiedono cure mediche immediate e a lungo termine. I marchi devono agire immediatamente per assicurare aiuti tempestivi e un adeguato risarcimento.

Ma c’è bisogno di passi avanti ulteriori per prevenire futuri incidenti. Dal crollo della fabbrica Spectrum nel 2005, il rispetto della sicurezza degli edifici e delle norme antincendio è stato ripetutamente chiesto ai marchi che si riforniscono in Bangladesh. Questi non possono più nascondere le loro responsabilità per l’inerzia dimostrata nell’evitare che queste tragedie si verifichino. Non vi è alcuna ragione che giustifichi ulteriori ritardi nella firma del Bangladesh Fire and Building Safety Agreement.

Da quando sono morti 112 lavoratori nell’incendio della Tazreen, i marchi hanno fatto proposte deboli e insufficienti per affrontare il tema della sicurezza degli edifici e delle norme antincendio, come i filmati (H&M), la scuola (WalMart) e alcune loro iniziative. Quanta sicurezza può garantire un video quando gli edifici crollano o le uscite di emergenza non esistono? I lavoratori hanno bisogno di soluzioni strutturali per mettere fine a queste condizioni di lavoro insicure. La firma del Bangladesh Fire and Building Safety Agreement e la collaborazione con i sindacati bengalesi sono i primi passi essenziali.

Questo accordo, costruito da sindacati bengalesi e internazionali insieme agli attivisti dei diritti del lavoro, porterà a ridurre sensibilmente l’esistenza di fabbriche trappola come Rana Plaza. Il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement comprende ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti, informazione pubblica e revisione strutturale delle norme di sicurezza. È un’operazione di fondamentale trasparenza che deve essere sostenuta da tutti gli attori principali bengalesi e internazionali.

>> AGISCI SUBITO Firma la petizione online


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(2013) Benetton si riforniva al Rana Plaza Abbiamo le prove

Benetton-grandecredit_Associated_Press-ReportersEtichette di Benetton sono state ritrovate tra le macerie del Rana Plaza, l’edificio di otto piani crollato lo scorso 24 aprile a Savar, sobborgo di Dhaka in Bangladesh. Alcune t-shirts etichettate “United color of Benetton” sono state fotografate dall’agenzia AFP sulla scena del disastro. L’azienda, che in un primo momento ha smentito di rifornirsi presso le fabbriche crollate, è chiamata ora a chiarire il suo coinvolgimento nella tragedia.

La Campagna Abiti Puliti, inoltre, è in possesso di una copia di un ordine (link) di acquisto da parte di Benetton per capi prodotti dalla New Wave, una delle fabbriche del Rana Plaza, che annovera sul suo sito web anche l’azienda italiana tra i suoi clienti.

Chiediamo a Benetton, e a tutti i marchi italiani ed esteri coinvolti, di assumersi le responsabilità, in particolare:

-          entrando in contando diretto con Abiti Puliti e i sindacati locali per fornire immediato supporto alle vittime della tragedia che hanno bisogno di cure, cibo e assistenza;

-          assumendo l’impegno a contribuire al fondo di risarcimento per le famiglie delle vittime e per i feriti secondo quanto sarà stabilito in funzione della perdita di reddito presente e futura

-          firmando il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, un programma specifico di azione che include ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti, informazione pubblica e revisione strutturale delle norme di sicurezza per rimuovere alla radice le cause che rendono le fabbriche del paese insicure e rischiose per migliaia di lavoratori;

Il bilancio delle vittime del crollo del Rana Plaza, cresce di ora in ora.

La triste conta è ormai arrivata a 371 morti accertati e circa 2500 feriti. L’incessante lavoro di specialisti e volontari ha permesso di portare in salvo circa 2400 persone, ma centinaia di persone potrebbero essere ancora intrappolate sotto le macerie: la speranza di recuperarle in vita si esaurisce, purtroppo, con il passare delle ore.

“La gravità della situazione richiede un’assunzione di responsabilità immediata da parte dei marchi internazionali coinvolti, del governo e degli industriali bengalesi, che devono porre fine per sempre a tragedie come questa, l’ennesima per totale negligenza del sistema imprenditoriale internazionale”, dichiara Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti. “Aziende importanti come la Benetton hanno la responsabilità di accertare a quali condizioni vengono prodotti i loro capi e di intervenire adeguatamente e  preventivamente per garantire salute e sicurezza nelle fabbriche da cui si riforniscono”


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L’ennesimo sacrificio umano Crolla un edificio in Bangladesh. Almeno 170 i morti.

rana_plazaLa Campagna Abiti Puliti (sezione italiana della Clean Clothes Campaign), insieme con i sindacati e le organizzazioni per i diritti dei lavoratori attivi in Bangladesh e in tutto il mondo, chiede un intervento immediato da parte dei marchi internazionali a seguito del crollo del Rana Plaza a Savar, nella regione di Dhaka in Bangladesh, un edificio di otto piani, contente tre stabilimenti e un centro commerciale, costato la vita ad almeno 170 persone e il ferimento di oltre 1000.

Gli attivisti dei diritti umani sono riusciti ad accedere alle macerie del Rana Plaza, dove hanno trovato  etichette e documentazione che collega alcuni grandi marchi europei a questa ennesima tragedia: la spagnola Mango, l’inglese Primark e l’italiana Benetton, oltre ad altri marchi italiani. Sul loro sito web, le aziende elencano tra i loro clienti altrettanti noti brand, tra cui C&A, KIK e Wal-Mart, già noti alle cronache per l’incendio nella fabbrica bengalese Tazreen, dove 112 lavoratori sono morti esattamente cinque mesi fa, e, per quanto riguarda la tedesca KIK, per l’incendio della pakistana Ali Enterprises, dove quasi 300 lavoratori sono morti lo scorso settembre.

I lavoratori morti e feriti stavano producendo capi di abbigliamento quando lo stabile che ospitava più fabbriche tessili - con piani costruiti presumibilmente in maniera illegale - improvvisamente ha ceduto generando un enorme frastuono e lasciando intatto solo il piano terra. Questo crollo fornisce ulteriori prove a conferma dell’inefficacia del ruolo delle società di auditing nella protezione della vita dei lavoratori. Gli attivisti impegnati nella difesa dei diritti dei lavoratori sono convinti che tali decessi continueranno fino a quando le imprese e i funzionari di governo non sottoscriveranno un programma per la sicurezza degli edifici indipendente e vincolante.

“Tragedie come questa mostrano la totale inadeguatezza dei sistemi di controllo e delle ispezioni condotte dalle imprese senza il coinvolgimento dei sindacati e dei lavoratori” spiega Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti, “non possiamo continuare ad assistere ad un tale sacrificio di vite umane dovuto alla totale irresponsabilità di un sistema produttivo basato sulla competizione al ribasso. Le famiglie delle vittime e i feriti rimaste senza reddito e supporto ora hanno diritto a cure adeguate e risarcimento appropriato da parte delle imprese coinvolte per gli irreparabili danni subiti, oltre a giustizia immediata e assunzione di responsabilità da parte di tutti colore che dovevano prevenire questa carneficina”

Per mettere fine a questi incidenti, la Campagna Abiti Puliti esorta i marchi che si riforniscono in Bangladesh a firmare immediatamente il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement. La CCC, insieme con i sindacati locali e globali e le organizzazioni per i diritti dei lavoratori, ha messo a punto un programma specifico di azione che include ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti, informazione pubblica e revisione strutturale delle norme di sicurezza. È un’operazione di fondamentale trasparenza che deve essere sostenuta da tutti gli attori principali bengalesi e internazionali.

L'accordo è già stato sottoscritto lo scorso anno dalla società statunitense PVH Corp (proprietaria di Calvin Klein e Tommy Hilfiger) e dal distributore tedesco Tchibo. È il momento che tutti i principali brand del settore si impegnino per garantirne una rapida attuazione. Il programma può salvare la vita di centinaia di migliaia di lavoratori attualmente a rischio in fabbriche insicure e costruite illegalmente.


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(2013) Diritti cuciti addosso - Birmania

reportage_ersiliaIn Thailandia associazioni di migranti birmani in fuga dalla dittatura lavorano per il riconoscimento di un salario dignitoso

MAE SOT, THAILANDI A - Il fiume Moei nella luce del tramonto, a poche centinaia di metri dal Ponte dell’Amicizia che a Mae Sot unisce la Thailandia alla Birmania, è uno scorcio d’Asia di struggente bellezza. Le case, cresciute in poetico disordine a filo d’acqua sulla sponda birmana, sembrano rimandare a un altrove dello spirito. Ma la realtà deve essere ben diversa se ogni anno centinaia di birmani passano quel confine a guado o su imbarcazioni in spola incessante fra una riva e l’altra.

Reportage a cura di Ersilia Monti

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(2013) Speciale Valori incendi in Bangladesh

diritti_in_fumoLeggi lo speciale di Valori sugli incendi nelle fabbriche tessili in Bangladesh


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(2013) Il fornitore di Original Marines attacca noi invece di occuparsi dei lavoratori

ptsce-demoIl fornitore di Original Marines prende di mira i sostenitori della CCC invece di migliorare le condizioni di lavoro in fabbrica.

Il mese scorso la Campagna Abiti Puliti (membro della Clean Clothes Campaign) e la Filcams CGIL hanno avviato una campagna pubblica per invitare Original Marines e il suo fornitore, l’azienda indonesiana PT SC Enterprise, a cessare gli abusi contro i lavoratori che producono per la PT SC Enterprise. Abiti Puliti e Filcams Cgil hanno anche esortato la PT SC Enterprise a reintegrare i 42 addetti illegalmente licenziati dopo avere formato il sindacato indipendente SP SCE, a marzo dello scorso anno. Invece di porre fine a questo comportamento illegittimo e riassumere i lavoratori licenziati, l’azienda ha intensificato gli atti intimidatori che ora colpiscono anche Abiti Puliti e Filcams Cgil, che hanno legittimamente denunciato il caso.

La società indonesiana PT SC Enterprise, di proprietà dell’italiano Stefano Cavazza, ha risposto alle richieste della campagna aumentando la pressione nei confronti dei lavoratori. Interviste ai lavoratori confermano che in fabbrica persistono un clima di intimidazione e condizioni di lavoro inadeguate. Se i lavoratori non raggiungono i loro obiettivi di produzione, subiscono trattenute salariali mentre il lavoro straordinario è obbligatorio. Anche i sostenitori di Abiti Puliti sono stati presi di mira dal proprietario dell’azienda che ha inviato loro mail a più riprese nelle quali si fa riferimento ad alcuni difensori dei diritti umani con inaccettabili toni minacciosi. Mentre oggi la PT SC Enterprise sembra ansiosa di comunicare con i sostenitori della campagna pubblica, prima che il caso divenisse pubblico ha evitato di rispondere alle lettere inviate da Abiti Puliti e dalla Filcams Cgil.

E 'importante chiarire che Abiti Puliti e Filcams Cgil non hanno per obiettivo la cessazione della produzione né si prefiggono di causare danni alla fabbrica, poiché ciò andrebbe solo a svantaggio dei lavoratori. Abiti Puliti ha messo tutto il suo impegno per comunicare in modo costruttivo sia con Original Marines, che con PT SC Enterprise. Dal luglio 2012, ha fornito regolarmente alla IMAP rapporti dettagliati e affidabili che riportano fatti, episodi e prove ma questo non ha portato ad un dialogo costruttivo. Abiti Puliti e Filcams Cgil si sono viste infine costrette a lanciare una campagna pubblica per riuscire ad ottenere cambiamenti positivi per i lavoratori e il riconoscimento dei loro diritti fondamentali. Tuttavia, ad eccezione della rimozione di un paio di clausole discriminatorie e illegittime dai documenti ufficiali dell’azienda, non ci sono stati miglioramenti sostanziali nelle condizioni di lavoro.

'Manifestazioni spontanee'

Una delle e-mail inviate ai sostenitori della campagna promossa da Abiti Puliti e da Filcams Cgil è giunta dallo SPI, un sindacato che sostiene di essere indipendente. L'e-mail include le firme dei lavoratori, e fotografie delle proteste, che accusano Abiti Puliti e Filcams CGIL di diffondere informazioni false. Secondo i racconti di diversi lavoratori iscritti al sindacato SP SCE, intervistati dal Kasbi l’8 gennaio scorso, le manifestazioni hanno avuto luogo nelle seguenti circostanze:

- Il 20 dicembre alle 7 del mattino circa duecento lavoratori sono stati radunati in fabbrica in preparazione di una manifestazione di fronte al Dipartimento del Lavoro di Klaten. La società li ha informati che la fabbrica avrebbe chiuso se non avessero protestato contro il sindacato SP SCE.
-Durante le interviste, i lavoratori hanno riferito che il giorno dopo i dirigenti hanno fatto circolare una lettera in tutti i reparti chiedendo ai lavoratori di firmare una petizione per rifiutare il reintegro dei 42 lavoratori licenziati. Ai lavoratori è stato chiesto di firmare sotto minaccia di licenziamento.
Una settimana dopo, il 28 dicembre, i lavoratori sono stati riuniti fuori dalla fabbrica e gli è stato chiesto di sollevare le bandiere dello SPI. Le fotografie esistenti sono state scattate dalla direzione.

‘Indipendente’

Lo SPI sembra essere strettamente collegato con l’azienda e la direzione.I recapiti dello SPI sono gli stessi della fabbrica PT SC Enterprise e diversi funzionari sindacali dello SPI lavorano a livello manageriale in fabbrica. Ciò è in contraddizione con l'art.15 della legge sul sindacato del 21/2000 in cui si afferma che i lavoratori che in una impresa ricoprono posizioni che possono causare un conflitto di interesse non possono rivestire il ruolo di funzionari sindacali nella stessa azienda.
Inoltre, la lettera inviata per email dallo SPI è anonima e scritta in italiano, cosa molto insolita visto che tutti i lavoratori parlano indonesiano e un inglese molto limitato.

La comunicazione proveniente dalla direzione della PT SC Enterprise e dal sindacato 'indipendente' SPI contiene numerose contestazioni in relazione al caso denunciato e a Abiti Puliti. Di seguito sono allegati alcuni documenti con informazioni dettagliate e approfondimenti che confutano tali contestazioni:

>> La cronologia dei fatti (download)
>> La raccolta delle prove (download)

La richiesta alla CCC di recarsi in Indonesia

La PT SC Enterprise ha invitato Abiti Puliti ad andare in Indonesia per verificare direttamente le condizioni di lavoro in fabbrica. Anche se questo può sembrare un gesto positivo, non è la cosa giusta da perseguire. L’azienda ha già ricevuto raccomandazioni da parte dell'agenzia responsabile, il Dipartimento del lavoro di Klaten, che non sono ancora state adottate. Avere un comportamento etico e responsabile lungo l’intera catena di fornitura significa garantire il rispetto delle leggi nazionali e delle convenzioni internazionali dell’OIL. La responsabilità è in primo luogo del produttore PT SC Enterprise, ma anche dell’acquirente italiano IMAP, che ha il dovere di garantire che i suoi prodotti siano fabbricati in conformità con gli standard internazionali. Giova qui ricordare che la libertà di associazione sindacale e la contrattazione collettiva sono due diritti fondamentali di tutti i lavoratori, sanciti dalle convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL).

Al fine di giungere a una soluzione efficace della controversia, il proprietario della PT SC Enterprise deve pertanto accettare l’invito a dialogare con sindacati indipendenti come lo SP SCE. I leader sindacali del sindacato affiliato al KASBI hanno ripetutamente dichiarato di voler sviluppare relazioni positive e produttive con la direzione aziendale.

Come risolvere la controversia in corso

La PT SC Enterprise deve impegnarsi a promuovere la libertà di associazione sindacale, senza alcuna condizione, quale premessa necessaria all’avvio di un processo negoziale vero e credibile. Fino a quando la PT SC Enterprise rifiuterà un confronto autentico con i sindacati, l’azienda continuerà a violare diritti fondamentali e il caso in oggetto non potrà essere risolto. Pertanto per assicurare l’avvio un processo negoziale credibile, i sindacati, la Campagna Abiti Puliti e Oxfam chiedono a PT SC Enterprise di firmare il Protocollo di intesa sulla Libertà di associazione sindacale  già firmato nel 2011 da grandi marchi internazionali, fornitori e sindacati (compreso il Kasbi cui il SP SCE aderisce). Il protocollo è stato riconosciuto dal programma Better Work dell'OIL come un modello multistakeholder esemplare ed è sostenuto dal ministero del lavoro indonesiano.

Il ruolo della IMAP

È responsabilità della IMAP garantire che i suoi prodotti siano fabbricati in conformità alle convenzioni internazionali. La responsabilità delle imprese multinazionali operanti nel settore dell'abbigliamento è anche specificata nelle Linee Guida delle Nazioni Unite sulle imprese e i diritti umani che attribuiscono alle imprese l'obbligo di rispettare i diritti umani.

Non chiediamo alla IMAP di cessare gli ordini alla PT SC Enterprise. Piuttosto chiediamo alla IMAP di continuare ad approvvigionarsi dal suo fornitore collaborando per definire le necessarie misure di miglioramento da adottare.

Invitiamo IMAP e PT SC Enterprise a:
- Firmare il protocollo sulla libertà di associazione sindacale già sottoscritto da importanti marchi internazionali che operano in Indonesia, fornitori e sindacati e direndere il protocollo disponibile a tutti i lavoratori
- Reintegrare i 42 lavoratori licenziati arbitrariamente, secondo quanto previsto dalla raccomandazione ufficiale del Dipartimento del lavoro di Klaten (No.567/1320/14).
- Cessare tutti gli atti di violenza, abuso e ogni ulteriore intimidazione nei confronti dei lavoratori della PT SC Enterprise, ivi compreso il costringerli a firmare per il rifiuto del reintegro dei 42 lavoratori licenziati
- Porre fine agli straordinari forzati (anche noti come 'lavoro esteso' o 'ore fedeltà). Il lavoro straordinario deve essere effettuato in conformità con la legge, ovvero non deve essere obbligatorio, deve essere pagato il dovuto e non deve superare le 14 ore a settimana.
- Abolire il sistema corrente dei contratti a termine. Tutti i contratti devono essere registrati in conformità con la legge e i lavoratori devono essere assunti a tempo indeterminato.

 


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(2012) Una prima vittoria. Ma ora andiamo avanti.

kikKik, il gigante tedesco dei discount, ha firmato un accordo con il Pakistan Institute of Labour Education and Research (PILER) impegnandosi a pagare un primo risarcimento alle vittime e ai loro familiari di 1 milione di dollari e a negoziare un pacchetto di compensazioni a lungo termine con tutti gli altri soggetti coinvolti.

Nell'incendio della Ali Enterprises dello scorso 11 Settembre hanno perso la vita 262 lavoratori secondo il bilancio ufficiale, e almeno altri 20 sono rimasti feriti.

L'accordo è stato ufficializzato lo scorso 5 gennaio con una conferenza stampa a cui hanno preso parte diverse organizzazioni sindacali, tra cui la National Trade Union Federation. Karamat Ali, Executive Director del PILER, ha dichiarato: "KIK è uno dei maggiori acquirenti della Ali Enterprise. Gli attivisti dei sindacati pakistani e le organizzazioni internazionali di difesa dei diritti dei lavoratori, tra cui la Clean Clothes Campaign, hanno convinto l'azienda a pagare un risarcimento alle famiglie colpite dalla tragedia".

Il primo versamento verrà utilizzato per risarcire le famiglie di quelle vittime che non hanno ricevuto alcuna compensazione dal governo visto che non si sono potuti identificare i loro corpi a causa della gravità delle ustioni e dell'avanzato stato di decomposizione.

Deborah Lucchetti, portavoce italiana della Campagna Abiti Puliti, ha dichiarato: "Ci riteniamo molto soddisfatti per questa prima importante vittoria. Ora andremo avanti per garantire il totale risarcimento delle vittime, che abbiamo stimato richiedere una cifra di circa 20 milioni di dollari. Questo processo dovrà riguardare anche tutti gli altri soggetti coinvolti, a cominciare da SAI e Rina, per accertare le responsabilità di ciascuno".

Per facilitare il percorso di risarcimento, il PILER ha richiesto alla Sindh High Court di instituire una commissione di inchiesta indipendente che monitori l'intero processo e determini tutti i particolari necessari a raggiungere lo scopo.


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(2012) Diritti negati e sogni rubati nella filiera di Original Marines

copertinaOM“Tutti i bambini sognano di diventare grandi”. Con queste parole Original Marines, rinomato marchio di abbigliamento infantile, posseduto dall’azienda italiana Imap, ha aperto la sua campagna con cui chiedeva ai bambini di raccontare le proprie aspirazioni. Peccato che nel frattempo ben altri sogni aveva deciso di infrangere.

Imap non ha retro terra produttivo e come tutte le imprese distributive moderne ottiene i suoi capi d’abbigliamento da fornitori sparsi in tutto il mondo, in particolare Cina e Indonesia. Uno dei suoi principali fornitori è PT SCE, impresa localizzata in Indonesia, che si contraddistingue per il disprezzo dei diritti dei lavoratori. Su 1400 dipendenti, solo il 10% è assunto a tempo indeterminato. Tutti gli altri sono precari per essere ricattati meglio. E quando, nel 2012, un gruppo di lavoratori ha osato formare un sindacato aziendale indipendente, è scattata la rappresaglia: 42 lavoratori, per la maggior parte aderenti al sindacato sono stati licenziati illegalmente.

spanduk_solidaritas_SCE_dibentangkan_di_tugu_proklamasiSabato 13 dicembre si è tenuta una manifestazione dei lavoratori e dei sindacati di fronte all'ambasciata italiana di Jakarta. Già l’8 novembre 2012, esponenti della Campagna Abiti Puliti e del sindacato Filcams/Cgil avevano incontrato una rappresentanza di Imap per indicare i passi che l’azienda dovrebbe compiere per indurre PT SCE a comportamenti corretti. Ma a distanza di più di un mese non si vedono ancora iniziative concrete. Per questo abbiamo deciso di denunciare pubblicamente l’accaduto, coinvolgendo la cittadinanza nella campagna “Raccontiamo il loro incubo”: chiunque, attraverso il sito raccontiamoilloroincubo.abitipuliti.org, potrà mandare una lettera alla dirigenza dell’azienda italiana, chiedendogli di firmare il protocollo sulla Libertà di Associazione sindacale già siglato da importanti marchi internazionali che operano in Indonesia, e alla dirigenza del fornitore indonesiano chiedendo che

  • Ponga fine a qualunque atto di violenza o di intimidazione ai danni dei lavoratori della PT SC Enterprises, firmi il Protocollo sulla Libertà di Associazione e renda questo protocollo disponibile a tutti i lavoratori.
  • Reintegri i 42 lavoratori licenziati arbitrariamente, in conformità con la raccomandazione ufficiale del Klaten Regency Department of Manpower (no 567/1320/14).
  • Ponga fine a ogni forma di lavoro straordinario forzato (anche noto come “lavoro esteso” o “ore fedeltà”). Il lavoro straordinario deve essere effettuato in conformità con la legge, ovvero non deve essere obbligatorio, deve essere pagato  il dovuto e non  deve superare le 14 ore a settimana.
  • Abolisca il sistema di assunzioni a breve termine. Tutti i contratti dei lavoratori dovrebbero essere registrati in base alla legge e i lavoratori devono essere impiegati a tempo indeterminato.
  • Cessi ogni attività discriminatoria ai danni delle donne lavoratrici

 

sampai_di_kedubes_italia_spanduk_solidaritas_SCE_tuntutan_kawan-kawan_buruh_SCE2“Se tutti i sogni dei bambini diventassero realtà, il mondo sarebbe pieno di ballerine, astronauti ed eroi con i superpoteri”, sosteneva Original Marines nella sua campagna. Ma forse basterebbe un mondo in cui quei bambini, divenuti adulti, non venissero sfruttati e maltrattati all’interno di filiere internazionali utilizzate da aziende come Original Marines. Ecco perché mentre loro raccolgono i vostri sogni, noi vi raccontiamo gli incubi che ci hanno regalato.


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Etichette di Puff Daddy tra le macerie

enyceIl rapper e produttore americano, Sean Combs, meglio noto come Puff Daddy o P Diddy, è stato chiamato in causa dagli attivisti dopo la scoperta del legame tra il suo brand ENYCE e il tragico incendio che ha ucciso 120 operai tessili bengalesi lo scorso sabato. Etichette della sua ENYCE sono state trovate tra i resti bruciati della fabbrica tessile Tazreen Fashions.

“Siamo sicuri che Mr Combs è scioccato quanto noi per aver scoperto che la sua azienda è implicata in una simile tragedia” ha detto Liz Parker della Clean Clothes Campaign. “Lo invitiamo pertanto ad usare la sua influenza per assicurare che le fabbriche di indumenti siano luoghi sicuri per chi vi lavora”.

Altre etichette e documenti trovati nella fabbrica riguardano Walmart, C&A, Edinburgh Woollen Mill, Piazza Italia, Kik, Teddy Smith, Ace, Dickies, Fashion Basics, Infinity Woman, Karl Rieker GMBH & Co., e True Desire (Sears). Finora solo C&A e Li & Fung, un intermediario con sede ad Hong Kong, hanno confermato di essere acquirenti della fabbrica al momento dell’incendio.

La CCC e i suoi partner stanno lavorando per avere risposte ufficiali da ciascuno degli altri brand in merito al loro rapporto con la Tazreen Fashions e i loro proprietari TUBA Group. Inoltre stanno chiedendo a tutti gli acquirenti di effettuare immediatamente un’inchiesta per accertare l’esatta dinamica dei fatti e di garantire che adeguate compensazioni vengano pagate alle vittime e ai loro familiari. È particolarmente urgente che i feriti ricevano velocemente le cure mediche di cui necessitano.

Per prevenire future tragedie, la CCC, insieme ai sindacati e alle organizzazioni per i diritti dei lavoratori, ha messo a punto un piano d’azione specifico che include un programma di ispezioni indipendenti e trasparenti, una rivalutazione obbligatoria degli edifici in cui si riforniscono i marchi internazionali, una ricognizione di tutte le leggi e le norme di sicurezza esistenti, un impegno a pagare prezzi adeguati a coprire i costi e il coinvolgimento diretto dei sindacati in corsi di formazione per i lavoratori su salute e sicurezza. La CCC invita nuovamente i marchi internazionali a sottoscrivere immediatamente questo piano d’azione.

L’evento della Tazreen Fashions porta a circa 700 il totale dei lavoratori morti in incendi di fabbrica in Bangladesh dal 2006. Un secondo incendio divampato ieri in Dhaka, ferendo molti lavoratori, testimonia ancora una volta la necessità di misure immediate per prevenire future tragedie.

Proteste per l’incendio si stanno diffondendo in tutta Dhaka e non solo, spinte dalla rabbia e dalla disperazione per la perdita di così tante vite umane. Ineke Zeldenrust della CCC ha dichiarato: ”I marchi internazionali, i datori di lavoro e le autorità sono tutti corresponsabili per questa inutile sofferenza. Tutto ciò deve finire ora - non ci possono essere più scuse o ritardi che costringano i lavoratori a vivere nella miseria o a morire per produrre i nostri vestiti”.


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Nuovo incendio in Bangladesh. Oltre 100 morti

tazreenLa Clean Clothes Campaign, insieme ai sindacati e alle organizzazioni impegnate per i diritti dei lavoratori in Bangladesh e in tutto il mondo, chiede un intervento immediato da parte dei marchi internazionali a seguito dell’incendio divampato in Dhaka - Bangladesh nei giorni scorsi, in cui hanno perso la vita più di 100 operai tessili.

I lavoratori morti e feriti stavano producendo indumenti per brand internazionali del tessile quando la loro fabbrica, la Tazreen Fashions, è andata a fuoco. Secondo il loro sito internet, la Tazreen produceva per una moltitudine di ben noti marchi, tra cui C&A, Carrefour, KIK e Walmart. La Clean Clothes Campaign è convinta che questi soggetti abbiano dimostrato negligenza per non aver preso contromisure efficaci ai problemi di sicurezza evidenziati da incendi precedenti, divenendo responsabili per l'ennesima tragica perdita di vite umane.

Molti dei lavoratori hanno trovato la morte mentre cercavano di scappare dal palazzo a sei piani; altri, non potendo scappare, sono arsi vivi. Il bilancio delle vittime continua a salire mentre i soccorritori cercano di farsi largo tra le macerie della fabbrica devastata. Un vigile del fuoco presente sulla scena ha riferito che non c’era nessuna uscita antincendio all’esterno dell’edificio. Le prime analisi suggeriscono che il fuoco sia partito da un corto circuito elettrico. La causa dell’80% di tutti gli incendi industriali in Bangladesh è dovuto a cablaggi difettosi.

“Molti brand sanno da anni che molte delle fabbriche in cui scelgono di produrre sono delle trappole mortali. Il loro fallimento nell’adottare misure adeguate è una negligenza criminosa” ha detto Ineke Zeldenrust della Clean Clothes Campaign.

Insieme ai partner bengalesi, la CCC chiede un’inchiesta indipendente e trasparente sulle cause dell’incendio, per una piena e giusta compensazione da pagare alle vittime e ai loro familiari e per individuare le azioni necessarie a prevenire simili tragedie in futuro.

“L’ennesima perdita di vite umane, sacrificate sull’altare di un modello industriale che produce profitti per i grandi gruppi internazionali a discapito dei lavoratori impiegati senza diritti nelle fabbriche per l’export, fortifica la nostra convinzione che occorrono cambiamenti strutturali, concreti e rapidi per rimuovere la cause alla base di tragedie come queste” continua Deborah Lucchetti di Abiti Puliti, la CCC italiana.

La CCC, insieme ai sindacati e alle organizzazioni per i diritti dei lavoratori, ha messo a punto un piano d’azione specifico che include un programma di ispezioni indipendenti e trasparenti, una rivalutazione obbligatoria degli edifici in cui si riforniscono i marchi internazionali, una ricognizione di tutte le leggi e le norme di sicurezza esistenti, un impegno a pagare prezzi adeguati a coprire i costi e il coinvolgimento diretto dei sindacati in corsi di formazione per i lavoratori su salute e sicurezza. La CCC invita nuovamente i marchi a sottoscrivere immediatamente questo piano d’azione.

I datori di lavoro e il governo bengalese devono assumersi la loro parte di responsabilità. Il governo deve effettuare un'indagine immediata sulle cause dell’incendio e perseguire coloro la cui negligenza ha causato la morte di queste donne e uomini. Inoltre, deve investire in un programma di ispezioni in tutto il Paese per accertare che gli edifici attualmente in uso siano adatti allo scopo cui sono destinati e rispettino gli standard di sicurezza. Tutti gli imprenditori in Bangladesh devono immediatamente rivedere le procedure di sicurezza in vigore nelle loro fabbriche, effettuare controlli alle strutture e agli impianti elettrici e, soprattutto, impegnarsi a collaborare con i sindacati per formare i loro operai sulle procedure di sicurezza e recepire le loro istanze.

La CCC continuerà a lavorare con i partner sul campo per accertare la dinamica esatta dei fatti e pretendere giustizia per le vittime di questa ennesima tragedia. Nel frattempo chiede a tutti coloro che operano nel settore dell'abbigliamento in Bangladesh di passare ai fatti attraverso un’azione significativa e concreta per evitare che un’altra terribile perdita di vite si ripeta in futuro.


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(2012) Chiedi a KIK di identificare i buyers e risarcire le vittime del rogo in Pakistan

Anche se la causa dell’incendio è ancora oggetto di indagine, è chiaro che l’alto numero di morti è stato causato dalle spaventose condizioni di salute e sicurezza in fabbrica. Al momento dell’incendio le finestre erano sbarrate, le uscite di sicurezza erano chiuse e non c'era nessun dispositivo a disponibile per combattere l’incendio.

Sebbene KIK sia stato costretto a riconoscere il suo ruolo nella tragedia [http://www.cleanclothes.org/media-inquiries/press-releases/pakistan-fire-kik], ad oggi rifiuta di impegnarsi in un confronto serio e adottare misure adeguate per garantire sostegno alle vittime.

KIK sostiene che gli audit effettuati dal 2006 avevano portato miglioramenti al sistema di sicurezza antincendio. Gli eventi dell'11 settembre dimostrano l’insufficienza di tali miglioramenti. Gli audit non sono stati in grado di dimostrare che la fabbrica produceva  illegalmente, la mancanza di uscite di sicurezza e il fatto che tutte le finestre erano sbarrate, impedendo così al fumo di fuoriuscire. KIK deve ammettere che il suo processo di ispezione non è credibile, non avendo impedito la morte di quasi 300 lavoratori, e non lo solleva dale sue responsabilità.

KIK sostiene anche di anche di essere in procinto di creare un fondo per continuare a pagare i salari ai lavoratori superstiti. I lavoratori e le loro famiglie hanno un disperato bisogno di aiuto ed il mantenimento dei loro salari contribuirebbe ad alleviare parte degli oneri finanziari che sopportano. A quasi un mese di distanza dall'incendio, nessuno dei lavoratori contattati dal sindacato ha ricevuto tale contributo. Ma la responsabilità di KIK si estende anche alle famiglie dei lavoratori deceduti e quindi alle indennità di risarcimento, che, nel lungo periodo, fornirebbero maggiore sicurezza alle famiglie devastate da tali eventi.

Una tragedia di questa portata deve produrre azioni immediate e concrete. L’incapacità di KIK di fornire sostegno alle famiglie e la sua insistenza a celarsi dietro audit non credibili, è davvero oltraggiosa.

Non ci sono scuse. Scrivi subito e KIK e chiedigli di:

- garantire la trasparenza: fornire il rapporto di ispezione condotta dalla società UL Responsible Sourcing (assunta da KIK) e i nomi degli altri buyers che KIK conosce e con cui sostiene di negoziare;

- garantire risarcimenti, salari e lavoro alle vittime: negoziare direttamente con il movimento dei lavoratori per garantire che tutti i lavoratori infortunati ricevano appropriate cure mediche a titolo gratuito, che i salari continuino ad essere pagati, che le famiglie degli operai morti e feriti ricevano un risarcimento totale e una pensione per compensare le future perdite di reddito, e che i sopravvissuti siano ricollocati presso altri fornitori;

- adottare misure preventive: adottare immediatamente tutte le misure necessarie per evitare che simili tragedie abbiano a ripetersi. Questo implica una revisione completa dei sistemi di sicurezza di tutti i fornitori con il coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori, corsi di formazione su salute e sicurezza e garanzia di libertà di associazione ed espressione per il lavoratori, la pubblicazione dell'elenco dei fornitori e la garanzia che tutti i luoghi di lavoro siano registrati, che tutti i lavoratori abbiano un contratto e siano pagati prezzi che consentano ai fornitori l’adozione di tutte le misure di risanamento necessarie;

- sostenere e partecipare alle indagini: sostenere attivamente e partecipare a un'indagine rigorosa, indipendente e trasparente sulle cause dell'incendio che analizzi il fallimento del governo, del proprietario e dei buyer per prevenire, individuare e porre rimedio alle violazioni delle norme in materia di salute e sicurezza e delle leggi sul lavoro che hanno causato queste morti orribili e senza senso. L'indagine dovrebbe anche produrre un elenco completo dei deceduti.


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(2012) La catastrofe certificata

pakistanalienterprisesLe organizzazioni di difesa dei diritti dei lavoratori invitano la Social Accountability International (SAI) a rilasciare informazioni sui buyers della fabbrica e le relazioni degli audit di ispezione

- Alle vittime del tragico incendio avvenuto in Pakistan sono negate informazioni cruciali per rivolgersi ai buyer coinvolti

- SAI e SAAS si rifiutano di cooperare per individuare i buyers internazionali della fabbrica o di rilasciare le conclusioni dei revisori accreditati

- La certificazione SA8000 ha attestato la buona salute della fabbrica Ali Enterprises che è andata a fuoco ed è costata la vita a quasi 300 lavoratori tessili

La Clean Clothes Campaign (CCC), il Worker Rights Consortium (WRC), il Maquila Solidarity Network (MSN), l’International Labor Rights Forum (ILRF)  e ilNational Trade Union Federation Pakistan (NTUF) richiedono alla Social Accountability International (SAI) con sede a New York e la collegata struttura Social Accountability Accreditation Services (SAAS) a rilasciare tutte le informazioni in loro possesso riguardo la fabbrica tessile Ali Enterprises, dove circa 300 lavoratori hanno perso la vita nell’incendio del mese scorso. Solo un mese prima, la Ali Enterprises aveva ricevuto la certificazione SA8000 dal Registro Italiano Navale Group (RINA), società di ispezione accreditata dal SAAS (Social Accountability Accreditation Services).

La SA8000 è uno strumento che dovrebbe certificare il comportamento eticamente corretto delle imprese e della filiera di produzione verso i lavoratori attraverso il possesso di alcuni requisiti standard, tra cui il rispetto dei diritti umani, il rispetto dei diritti dei lavoratori, la tutela contro lo sfruttamento dei minori, le garanzie di sicurezza e salubrità sul posto di lavoro.

L’ 11 Settembre scorso quasi 300 lavoratori sono stati uccisi da un incendio divampato nella fabbrica che produceva jeans per l'esportazione. La fabbrica non era legalmente registrata presso il governo del Pakistan e non aveva assunto la maggior parte dei lavoratori con contratti di lavoro regolari. L’enorme bilancio delle vittime è il risultato di inadeguate uscite di sicurezza, scale bloccate e finestre sbarrate, che hanno impedito la fuga di molti lavoratori dall'incendio.

Nasir Mansoor dalla National Trade Union Federation in Pakistan ha dichiarato: “È incredibile che importanti aziende di abbigliamento e gli enti di accreditamento nascondano il loro coinvolgimento nella fabbrica Ali Enterprises  o neghino la loro responsabilità nell’incendio. Le famiglie dei lavoratori deceduti e feriti meritano piena trasparenza in merito al ruolo delle organizzazioni di controllo, che hanno dato un certificato di buona salute per la sicurezza della fabbrica, e dei marchi che sono stati in grado di fare profitti a discapito della sicurezza dei lavoratori.”

In una risposta a una lettera della coalizione dei gruppi internazionali per i diritti dei lavoratori, SAI e SAAS hanno negato ogni responsabilità per l’incendio, opponendo un vincolo alla segretezza come ragione per la quale  né loro né la società di revisione italiana, RINA, possono condividere tutte le informazioni di cui dispongono sulla fabbrica . Essi sostengono che sia RINA che SAAS stanno compiendo delle indagini, ma si rifiutano di condividere le loro informazioni con i rappresentanti dei lavoratori in Pakistan.

“I terribili eventi  dell'11 settembre mettono in evidenza le debolezze del sistema di certificazione SAI, che ha gravemente deluso chi avrebbe dovuto proteggere”, ha detto Deborah Lucchetti della Clean Clothes Campaign italiana. “Se SAI vuole mantenere un minimo di credibilità deve far cadere il velo della segretezza dietro cui si è attualmente nascosta e iniziare a cooperare con quei soggetti che chiedono  giustizia per le vittime dell’incendio alla Ali Enterprises”.

La Clean Clothes Campaign (CCC), il Worker Rights Consortium (WRC), il Maquila Solidarity Network (MSN) e l’International Labor Rights Forum (ILRF)  hanno invitato tutti i buyers della fabbrica Ali Enterprises a farsi avanti e a garantire che le vittime del rogo siano pienamente ricompensate, che ai lavoratori vengano pagati i loro stipendi in questo periodo di chiusura della fabbrica, e che  misure credibili vengano messe in campo per prevenire che una simile tragedia accada di nuovo. Finora, l'unica azienda che ha ammesso di rifornirsi dalla fabbrica, la KiK, lo ha fatto solo a fronte di prove pubbliche a testimonianza della relazione commerciale con l’azienda pakistana. Nessuno degli altri acquirenti è stato ancora identificato.

Dal 9 al 11 ottobre SAI sta tenendo una riunione del suo Advisory Board a Bologna. Gli attivisti chiedono che il Consiglio si impegni a cooperare con i gruppi di lavoro per garantire la giustizia per questi lavoratori, ad adottare misure per far luce sugli eventi che hanno portato a questa terribile tragedia e a contribuire a garantire che le vittime ottengano l'assistenza di cui hanno bisogno e meritano. Ciò include la pubblicazione delle relazioni degli audit e la comunicazione di informazioni sui buyers dalla fabbrica.


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(2012) Oltre 250 morti per un incendio

"Queste morti potevano e dovevano essere evitate", ha detto InekeZeldenrust coordinatrice internazionale della CCC . "Le uscite di sicurezza erano inesistenti o bloccate, e i lavoratori sono rimasti intrappolati.  Questo è il solito schema: è ben noto che molti luoghi di lavoro siano a rischio, e che  lavoratori di paesi chiave per la produzione di abiti destinati al mercato europeo e statunitense  rischiano la loro vita quotidianamente ". È necessario che i marchi, i governi e i datori di lavoro intraprendano azioni concrete per ammodernare gli edifici, per formare  lavoratori e manager  e soprattutto per garantire che i lavoratori possano liberamente organizzarsi e denunciare quando le norme di sicurezza vengono ignorate. Le vittime devono anche avere accesso alla migliore assistenza medica possibile e ad un equo compenso. I sindacati e i gruppi di lavoro in Pakistan hanno annunciato grandi proteste per oggi e per domani. La CCC sta lavorando con i partner sul campo per ottenere maggiori informazioni  e invita tutti i marchi che si riforniscono dalle fabbriche in questione a farsi avanti.

 


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(2012) Bangladesh: salari troppo bassi e repressione inaccettabile

Ashulia_Dhaka_Bangladesh_1La Clean Clothes Campaign è seriamente preoccupata per la violenta repressione ai danni dei lavoratori tessili e dei loro dirigenti sindacali messa in campo in Ashulia in Bangladesh. L'11 giugno scorso, migliaia di lavoratori sono scesi nelle strade chiedendo un aumento salariale. Invece di ascoltarli, i proprietari delle fabbriche hanno chiuso oltre 300 unità, lasciando gli operai senza alcuna prospettiva futura. Da allora, 25 persone sono state arrestate e molte altre sono state ferite durante i pesanti scontri con la polizia e i leader sindacali temono trattamenti brutali da parte delle agenzie di intelligence bengalesi. Sebbene le fabbriche siano state riaperte, la richiesta di aumento dei salari rimane un problema urgente e il livello di repressione inaccettabile.

Le aziende multinazionali dovrebbero capire dopo anni di proteste che i bassi salari sono la causa principale dei  disordini in corso. Il livello del salario minimo legale è rimasto lo stesso dall'aumento nel 2010, mentre il costo della vita è aumentato vertiginosamente e i lavoratori sono stati declassati a posizioni più basse per evitare un aumento di paga.

Ancora una volta il governo del Bangladesh risponde con la repressione e avviando indagini su sindacati e organizzazioni per i diritti dei lavoratori, invece di impegnarsi in negoziati per garantire salari adeguati al costo della vita. E mentre tutte le fabbriche sono state riaperte, i proprietari rifiutano ancora di riaprire i negoziati sui salari minimi.

Durante le importanti proteste salariali del 2006, 2008 e 2010, centinaia di lavoratori e sindacalisti sono stati arrestati, tra cui Aminul Islam, attivista bengalese per i diritti dei lavoratori ed ex operaio tessile, torturato e ucciso nel mese di aprile di quest'anno. Decine di dirigenti sindacali sono accusati di istigazione ai disordini e attività connesse; accuse considerate prive di fondamento dalle organizzazioni internazionali del lavoro e dei diritti umani. Le organizzazioni che difendono i diritti dei lavoratori temono che, senza tempestivi provvedimenti, la repressione salirà a livelli simili a quelli del 2010.

La CCC invita tutte le aziende che acquistano in Bangladesh a:

Garantire che tutta la loro catena di fornitura paghi salari dignitosi e classifichi correttamente i lavoratori in base alle loro qualifiche;

Sollecitare le autorità ad aumentare i salari nazionali ad un livello di salario dignitoso;

Sollecitare le autorità affinché si metta fine alle molestie, alle minacce e agli arresti nei confronti dei lavoratori e degli attivisti sindacali;

Garantire che ai lavoratori sia assicurato il salario per il periodo di chiusura delle fabbriche;

Garantire che tutte le denunce, nominali o generiche (denunce di massa) presentate contro i lavoratori e gli attivisti sindacali siano ritirate;

Garantire che i lavoratori arrestati siano rilasciati e che i difensori dei diritti del lavoro possano operare liberamente.

 


(2012) REPORT Olimpiadi: parte la campagna di pressione

fair_gamesDopo lo sconvolgente rapporto Toying with Workers' Rights, il nuovo report Fair Games? esamina le condizioni di lavoro in 10 fabbriche di abbigliamento sportivo in Cina, Sri Lanka e Filippine, dove vengono prodotti capi che verranno  acquistati dai consumatori e usati da atleti e volontari dei  Giochi Olimpici di Londra 2012.

I ricercatori hanno riscontrato fatti molto preoccupanti che indicano uno sfruttamento sistematico e diffuso dei lavoratori:

-          Salari da fame praticamente ovunque. In Sri Lanka, alcuni lavoratori devono sopravvivere con circa £ 1,78 al giorno, poco sopra la soglia ufficiale di povertà stabilita dalle Nazioni Unite, e pari ad appena il 25% del salario che permetterebbe ai lavoratori di vivere dignitosamente. Nelle Filippine, il 50% dei lavoratori è nelle mani degli usurai.. Nelle Filippine, il 50% dei lavoratori è nelle mani degli usurai.

-          I benefici di legge che spettano ai lavoratori sono costantemente negati grazie all’utilizzo di contratti a termine. I datori di lavoro li utilizzano per non pagare pensioni, assenze per malattia e congedi per maternità.

-          I lavoratori sono costretti a fare straordinari sotto minaccia di licenziamento.

-          In nessuna delle 10 fabbriche c’è un sindacato riconosciuto o rappresentanti dei lavoratori credibili. I lavoratori non hanno voce in capitolo sui salari e sulle condizioni di lavoro. In Cina i lavoratori sono stati minacciati di licenziamento per aver distribuito volantini che potrebbero 'ostacolare i rapporti di lavoro”; nelle Filippine, tutti i lavoratori intervistati hanno dichiarato di aver paura di perdere il lavoro se aderissero ad un sindacato.

-          Le condizioni di vita riflettono i livelli di povertà vissuti dai lavoratori. Gli operai cinesi condividono camere anguste e sovraffollate, con acqua calda disponibile solo dopo le 23, al termine del loro turno di lavoro.

Questo insieme di violazioni dei diritti umani sia nella catena di fornitura olimpica che in quella generale delle multinazionali deve essere affrontata dal movimento olimpico e dai brands del settore tessile sportivo. Chiediamo a voi di sollecitare i marchi ad intervenire subito per ripristinare condizioni di lavoro dignitose firmando la petizione che trovate sul sito PlayFair2012


aminul

(2012) Aminul Islam torturato e ucciso in Bangladesh

aminulAminul Islam, un’attivista Bengalese per i diritti dei lavoratori ed ex operaio tessile è stato torturato ed ucciso la scorsa settimana a Dhaka. Il suo corpo è stato ritrovato dalla polizia locale appena fuori dalla capitale. Secondo il rapporto della polizia, il corpo di Aminul Islam portava i segni di torture brutali. E 'molto probabile che Aminul sia stato assassinato a causa del suo impegno per i diritti del lavoratori.

Aminul Islam lavorava per il Bangladesh Center for Worker Solidarity (BCWS) e il Bangladesh Garment and Industrial Workers Federation (BGIWF). L’ultima volta è stato visto il 4 Aprile 2012, quando si è allontanato per incontrare un lavoratore che lo aveva chiamato chiedendogli assistenza. Poco prima quella stessa sera, avendo visto una camionetta della polizia parcheggiata fuori, Aminul e un suo collega avevano chiuso la locale sede del BCWS temendo di essere molestati o arrestati. La famiglia di Aminul e i suoi amici lo hanno cercato per tre giorni, finché la moglie non ha riconosciuto una sua foto su un giornale locale.

La repressione contro i sindacalisti e gli attivisti per i diritti dei lavoratori è in Bangladesh un problema serio; le proteste dei lavoratori sono state trattate con la violenza moltissime volte negli ultimi anni. In particolare, le proteste salariali del 2010 sono finite con centinaia di arresti di lavoratori e sindacalisti, compreso Aminul Islam. Nel giugno 2010 Aminul è stato arrestato dai funzionari del National Intelligence Service (NSI). Secondo i suoi racconti,  è stato sottoposto a percosse gravi e ripetute,  che, secondo i carcerieri, avrebbero dovuto terminare solo se avesse accettato di testimoniare il falso contro i suoi colleghi del BCWS.  Decine di dirigenti sindacali sono ancora accusati di istigazione al disordine e attività connesse; accuse considerate prive di fondamento da organizzazioni internazionali del lavoro e organizzazioni dei diritti umani.

La Clean Clothes Camapign chiede alle autorità del Bangladesh di avviare un'indagine immediata e imparziale sull’omicidio e  di lavorare instancabilmente per consegnare i colpevoli alla giustizia. Chiede inoltre a tutti i partner internazionali, comprese le rappresentanze della UE e le altre organizzazioni di esercitare le stesse pressioni sulle Autorità bengalesi per porre fine ad una cultura dell’impunità che ci ha portato fino a questo tragico assassinio.

Le nostre più sentite condoglianze vanno in questo momento alla famiglia di Aminul e agli amici.


(2012) REPORT - I jeans continuano ad uccidere

Inchiesta svolta in 7 fabbriche bengalesi.
La sabbiatura abolita solo a parole.

Schermata 2014-07-24 alle 15.17.39Dopo la condanna ufficiale del sandblasting come tecnica di schiaritura dei jeans da parte di molti marchi internazionali del mondo della moda, la Campagna Abiti Puliti ha deciso di verificare sul campo le parole delle imprese, mandando alcuni ricercatori dell’AMRF in 7 fabbriche bengalesi per intervistare 73 lavoratori, di cui oltre la metà addetti alla sabbiatura.

I risultati dell’inchiesta sono allarmanti: in nessuno dei 7 stabilimenti la sabbiatura è stata definitivamente abolita, qualunque siano state le istruzioni dei committenti, e spesso viene eseguita di  notte in modo da non dare nell’occhio. I principali marchi identificati sono H&M, Levi’s, C&A, D&G, Esprit, Lee, Zara e Diesel, la totalità dei quali, ad eccezione di Dolce e Gabbana che ha sempre rifiutato di fornire informazioni sulle sue tecniche produttive, sostiene di avere abolito l’uso della sabbiatura nelle proprie filiere internazionali.

I comunicati stampa ufficiali non bastano, servono le azioni concrete che finora nessun marchio ha ancora messo in campo: le ispezioni sono rare e solo in queste occasioni gli addetti vengono muniti di dispositivi di sicurezza individuale; per il resto del tempo si opera senza precauzioni in ambienti saturi di polveri ad alto tenore di silice. Persino l’adozione del più semplice dei mezzi preventivi, l’uso di sabbia importata a basso contenuto di silice, viene totalmente omessa nella maggior parte delle fabbriche. In alcuni stabilimenti si è passato dalla sabbiatura manuale a quella meccanica, ma, essendo effettuata in ambienti aperti e in assenza di dispositivi di sicurezza adeguati, il livello di pericolosità è rimasto identico. Nessun tipo di formazione per i lavoratori e, soprattutto, per i medici, è stata realizzata, precludendo la possibilità di cure tempestive in caso di malattia. Il quadro si chiude con esempi evidenti di conflitti di interesse di aziende di abbigliamento facenti parte di gruppi che controllano organi di informazione e strutture sanitarie.

“La situazione è molto grave” dichiara Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti, “ al contrario di quanto sostengono pubblicamente, i marchi non sono disposti a modificare lo stile dei loro prodotti o a modificare i tempi e costi di produzione per permettere ai fornitori di adottare metodi alternativi che comportano lavorazioni più sicure, con il risultato di continuare a incentivare l’uso, clandestino o alla luce del sole, della sabbiatura.” “Ormai è noto da anni il rischio professionale di contrarre la silicosi per migliaia di lavoratori tessili ” continua Lucchetti, “ le imprese devono fare di più per eliminare definitivamente l’uso della tecnica potenzialmente fatale”

A questo punto la Campagna Abiti Puliti chiede ai marchi di rendere conto pubblicamente di questa contraddizione, di fronte ad una campagna che ha visto nel corso dei mesi aumentare il sostegno di consumatori consapevoli e attenti alla sostenibilità dei prodotti che acquistano. Inoltre chiede che:

-          I marchi mettano in atto adeguati meccanismi di monitoraggio per accertare l’effettiva cessazione dei trattamenti con sabbiatura in collaborazione con le organizzazioni sindacali locali/di fabbrica e le organizzazioni non governative in Bangladesh e in ogni paese dal quale si riforniscono; modifichino il design dei prodotti per eliminare all’origine la possibilità di utilizzo della sabbiatura;

-          I marchi collaborino con i propri fornitori affinché tutti i lavoratori che sono stati esposti a polveri di silice, per qualunque tipo di mansione, siano sottoposti a sorveglianza sanitaria e a diagnosi precoce, provvedendo a fornire cure mediche e  indennizzi a coloro che risultano aver già contratto la silicosi;

-          I governi adottino misure di legge che vietino la sabbiatura sul proprio territorio e assistano coloro che hanno già contratto la silicosi;

-          l’Unione Europea metta in atto misure per vietare l’importazione di jeans sabbiati;

-          l’Organizzazione internazionale del Lavoro e l’Organizzazione Mondiale della Sanità inseriscano la filiera del jeans nei programmi volti a sradicare la silicosi a livello mondiale, istituiscano un programma specifico per il Bangladesh e istruiscano indagini volte a cancellare definitivamente questo tipo di lavorazione anche all’interno dei confini europei.

I risultati dell’inchiesta presentata in questo rapporto evidenziano che non è sufficiente limitarsi al semplice annuncio della messa al bando dei trattamenti incriminati. Al contrario, i marchi devono dimostrare che producono capi in tessuto denim solo in siti produttivi che non fanno ricorso a nessun tipo di sabbiatura, anche attraverso test specifici che finora nessuno di loro ha ancora effettuato.

                                                          

Scarica il sommario del rapporto [ITA]

Scarica il rapporto completo [ENG]


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(2012) Somyot. La corte rifiuta per l'otta volta di concedere la libertà provvisoria

somyot_carcereAncora una volta la corte Thailandese ha rifiutato di concedere la libertà provvisoria a Somyot Pruksekasemsuk, l’attivista e giornalista accusato di lesa maestà e in carcere dall’Aprile 2011. Questo è l’ottavo rifiuto opposto dalla corte, nonostante Somyot non abbia mai usato violenza e i suoi sostenitori abbiano pagato una sostanziosa somma come cauzione. Come ha amaramente sottolineato un sostenitore “presto finiremo nel Guinness dei primati”. L’accusa rivolta a Somyot non è ancora stata provata e la sua prigionia ha suscito proteste in tutto il mondo. La libertà provvisoria è diventata un’istanza urgente, considerando che il processo ha messo a dura prova il giornalista sia fisicamente che psicologicamente. La corte dall’inizio del processo continua a spostare  il prigioniero da una provincia all’altra della Thailandia: è stato trasportato per oltre 4000 chilometri obbligato ad indossare catene di metallo da oltre 10kg. A Febbraio il figlio ha sostenuto uno sciopero della fame di 112 ore (come il numero dell’articolo che incrimina Somyot) per chiedere alla corte di concedere la libertà provvisoria. Che cos’altro ancora si aspetta?


(2012) REPORT - Olimpiadi: Giocare con i diritti dei lavoratori

Leggi il rapporto completo (in inglese)product_02

Il Merchandise olimpico e paraolimpico è un grande business. Gli organizzatori dei Giochi del 2012 stimano che le mascotte di Londra 2012, Wenlock e Mandeville, aumenteranno le vendite totali di portachiavi, peluche, adesivi, badge, zaini e carte da gioco in edizione limitata di 1 miliardo di sterline. Questa è una buona notizia per Londra e le Olimpiadi, ma c'è un costo nascosto che sarà pagato dai lavoratori cinesi impiegati per produrre questi beni. Mentre gli atleti dedicano lunghe ore all'allenamento per battere i record del mondo nei loro rispettivi sport, lavoratori di tutto il mondo sono costretti ad una corsa al ribasso sui salari e le condizioni di lavoro. Ma nessuna medaglia sarà assegnata loro per le ore e gli sforzi da record fatti per raggiungere gli obiettivi di produzione in tempo. 'Giocando con i diritti dei lavoratori' (Toying with Workers' Rights) ha confermato ancora una volta che all'aumentare della domanda di merchandise da parte dei consumatori durante la preparazione delle Olimpiadi corrispondono orari di straordinari eccessivamente lunghi per i lavoratori, per una paga molto bassa, in ambienti di lavoro spesso pericolosi e faticosi, con i datori di lavoro che mostrano poco riguardo per gli standard lavorativi riconosciuti a livello internazionale o dalle leggi nazionali.

Le Fabbriche
Questo report indaga sulle condizioni in due fabbriche in Cina che si occupano della produzione di merchandise con il logo dei giochi olimpici di Londra 2012.

La Fabbrica A ha iniziato a produrre i badge di Londra 2012 nel 2011, compresi quelli con le mascotte Wenlock e Mandeville. L'azienda occupa circa 500 lavoratori in bassa stagione e più di 1000 nei periodi di picchi produttivi. Durante la ricerca contava circa 500 occupati. La fabbrica è situata in una zona rurale fuori Huizhou nella provincia del Guangdong. Non è vicina a nessun'altra città e i lavoratori sono completamente isolati. La maggior parte di loro proviene da villaggi rurali cinesi, è di età compresa tra i 16 e i 24 anni e difficilmente ha accesso alla casa, all'educazione e alle cure mediche.

La Fabbrica B sta producendo peluche e oggetti da collezione delle due mascotte olimpiche. La produzione è iniziata nell'Aprile 2011 e continuava ancora ad Ottobre, quando la ricerca è stata effettuata. Situata in un'area rurale della provincia di Guangdong, l'azienda produce peluche da esportazioni e impiega 250 lavoratori in bassa stagione e 600 nei periodi di alta produttività.

Cosa abbiamo trovato

Codice violato in ogni punto
La Campagna Play Fair ha chiesto ai ricercatori di documentare la realtà delle condizioni in queste fabbriche rispetto agli standard sanciti dal codice di condotta del Comitato Organizzatore dei Giochi olimpici e paraolimpici di Londra (LOCOG), che include l'Ethical Trading Initiative Base Code. Questo codice dovrebbe garantire un salario di sussistenza, lavoro sicuro, condizioni di lavoro sane e libertà di associazione sindacale, oltre a proibire il lavoro minorile e forzato. I risultati sono stati estremamente preoccupanti. La ricerca sulle due fabbriche ha riscontrato violazioni di tutti e nove gli standard che gli organizzatori dei giochi del LOCOG si sono impegnati a cercare di garantire nelle loro catene di fornitura.

exterior_of_factorySalari da fame e orari di lavoro eccessivi
Nessuno dei lavoratori è pagato abbastanza per coprire i bisogni fondamentali e assicurargli un salario dignitoso - la definizione di salario di sussistenza nel codice LOCOG. Nella Fabbrica B, i lavoratori non ricevevano nemmeno il salario minimo. Solo una piccola parte di loro, in entrambe le fabbriche, riceveva le prestazioni di sicurezza sociale garantite dalla legge cinese, lasciando la gran parte senza cure mediche o pensioni. Per aumentare queste paghe tristemente inadeguate i lavoratori fanno oltre 100 ore di straordinari al mese. Il limite legale è di 36 ore. Alcuni lavorano su turni di 24 ore, ad altri non veniva riconosciuto il giorno di riposo. Anche se non economicamente indispensabili, questi straordinari non sono volontari; i lavoratori che non vogliono farli hanno bisogno di permessi speciali. Queste ore in più potrebbero fare la differenza per la vita dei lavoratori se fossero pagati in base alla legge, che nessuna delle due fabbriche rispetta.

Nessun contratto
I lavoratori che vogliono far valere i propri diritti devono conoscerli. I lavoratori della Fabbrica A non possedevano una copia del loro contratto mentre nella Fabbrica B il contratto differiva dalle reali condizioni di lavoro, in particolare per ciò che riguardava i salari. L'azienda non ha nemmeno fornito le buste paga così i lavoratori, non sapendo quanto dovevano essere pagati e per fare cosa, non hanno potuto contestare le discrepanze. Nella Fabbrica B, poi, i lavoratori vengono multati se lasciano l'impiego prima della scadenza del contratto di cinque anni, contravvenendo alle disposizioni del codice LOCOG in materia di occupazione scelta liberamente.

Nessun diritto
Anche laddove i lavoratori avevano le informazioni che gli servivano per un eventuale reclamo, le rappresentanze sindacali erano del tutto ignorate. Inoltre le fabbriche non avevano sistemi che garantissero una rappresentanza indipendente. Questo vuol dire che ciascun lavoratore deve intraprendere una protesta individuale, senza la protezione garantita da un'azione collettiva. Un lavoratore che aveva inoltrato un esposto ad esempio per la sua paga è stato multato per aver "offeso" il suo supervisore. E' chiaro che nessuno dei lavoratori se la sente di organizzarsi per tutelare i propri diritti, come il  codice di condotta del LOCOG prevede.

Luoghi di lavoro pericolosi
Le condizioni di igiene e sicurezza nelle due fabbriche, sia nei luoghi di lavoro che nei dormitori messi a disposizione dei lavoratori, necessitano di un significativo miglioramento. I dispositivi per la protezione personale dei lavoratori sono insufficienti e il loro uso non obbligatorio. Non avendo ricevuto alcuna formazione riguardo l'igiene e la sicurezza sul posto di lavoro, molti lavoratori vi rinunciano per essere più veloci, raggiungere gli obiettivi di produzione e guadagnare di più. I lavoratori della Fabbrica A corrono seri pericoli dovuti all’uso l'uso di prodotti chimici dannosi, anche in stato di cattiva conservazione. Nessuno degli intervistati conosce le procedure anti-incendio e come usare i dispositivi di protezione. I problemi alla schiena sono molto comuni a causa delle lunghe ore trascorse seduti su sgabelli. I dormitori sono senz’aria e nella Fabbrica B l'accesso all'acqua calda è limitato.

Responsabilità olimpiche
Per anni il Comitato Olimpico Internazionale, con le sue controparti nazionali, ha predicato ideali di etica e correttezza, ma si è assunto poche responsabilità per metterli in pratica nei confronti dei lavoratori impiegati per produrre merchandise olimpico in tutto il mondo. In risposta alla Campagna PlayFair, LOCOG è andato oltre quanto avevano fatto i precedenti organizzatori dei giochi nelle misure di appalto, ha adottato un codice per il modello di fornitura che comprende i diritti umani internazionalmente riconosciuti, incluso negli accordi contrattuali con gli licenziatari,  ha chiesto ai fornitori di preparare report di controllo dei siti produttivi e ha disposto un meccanismo di reclamo per la sua catena di fornitura.

Tuttavia questi passi non si sono dimostrati sufficienti per contrastare lo sfruttamento sistematico dei lavoratori nel settore dei beni promozionali.

Perchè gli impegni del LOCOG non riescono a fare la differenzaSP_A0010
La verità è che il LOCOG ha fatto ben poco per ottenere dei cambiamenti reali sul "campo" e ha concentrato i suoi sforzi sui controlli, notoriamente poco efficaci per scoprire la realtà che vivono lavoratori di fabbriche dall'altra parte del mondo. Play Fair ha mostrato più e più volte attraverso i suoi report che la frode è molto diffusa e che le ispezioni di un giorno preannunciate non possono contribuire a svelare la verità sulle condizioni di lavoro. La nostra ricerca ha scoperto che i lavoratori sono istruiti, minacciati e persino corrotti dai revisori per ingannare gli ispettori. Una lavoratrice ci ha detto che molti hanno paura di essere licenziati se si scoprisse la verità. "I consumatori possono pensare che le mascotte olimpiche sono carine e divertenti, ma non potranno mai immaginare il duro lavoro e i bassi salari che abbiamo in fabbrica" ha detto.

Questo spiega perché, fin dall'inizio del lavoro del LOCOG, abbiamo costantemente ripetuto che qualsiasi sforzo autentico di cambiamento deve coinvolgere i lavoratori stessi. Loro devono conoscere i diritti che gli spettano e devono avere accesso ai meccanismi di denuncia. Tuttavia nessuno dei lavoratori con cui abbiamo parlato sapeva dell'esistenza del codice del LOCOG, per non parlare di ciò che dovrebbe significare per loro. Né sapevano che esiste un meccanismo per inoltrare le proprie denuncie direttamente al LOCOG. Inoltre, non c'è nessun rappresentante sindacale che potesse aiutarli a preparare l’esposto e le informazioni di cui avevano bisogno per farlo erano solo in inglese.

Un sistema di sfruttamento che esiste da decenni non può essere cambiato senza un'azione forte. In un mercato molto competitivo sul prezzo, le imprese incaricate di produrre beni con il logo olimpico chiedono etica a bassa voce, mentre la alzano quando pretendono alta qualità e bassi costi. Per questo, le ditte fornitrici garantiscono etica a parole, mentre trasferiscono i costi reali della produzione sulla forza lavoro, sotto forma di paghe da fame, lavoro precario e straordinari eccessivi e obbligatori.

Il cambiamento deve esserci
I risultati di questo rapporto sono preoccupanti. Paghe da fame, seri rischi per la salute e la sicurezza, diritti sindacali non rispettati, mancanza di contratti, lavoro minorile, multe illegali. I codici di condotta del LOCOG e dell'Ethical Trading Initiative Base risultano violati in ogni punto. Questo non può essere ignorato.

Il Comitato Olimpico e i licenziatari degli appalti devono assumersi le loro responsabilità per garantire giuste condizioni di lavoro. L'azione deve partire dall'alto, con l'indicazione chiara da parte del CIO che i lavoratori impiegati nella produzione di merci per i giochi non possono essere maltrattati. Anche i Comitati Organizzatori Nazionali possono influenzare gli accordi commerciali verso il rispetto degli standard internazionali del lavoro e dei diritti umani. I licenziatari infine devono lavorare con i loro fornitori per monitorare e attuare programmi di monitoraggio lungo tutta la catena di fornitura. Qui non si tratta di spuntare una casella, ma di assumersi impegni a lungo temine e di perseverare - tratti che qualsiasi atleta sa essere fondamentali per raggiungere il successo.

Il Comitato Olimpico Internazionale deve

  • Riconoscere pubblicamente la necessità di porre fine allo sfruttamento e all'abuso dei lavoratori coinvolti nella produzione di abiti e calzature sportive e di beni promozionali;
  • Includere il principio del rispetto dei diritti dei lavoratori nella Carta Olimpica e nel Codice Etico del CIO;
  • Porre la ratifica e l'applicazione degli standard internazionali del lavoro quale condizione qualificante per la scelta del Paese ospitante;
  • Obbligare i Comitati Nazionali a richiedere il riconoscimento degli standard internazionali a tutte le aziende che producono beni e servizi per i giochi;
  • Facilitare la condivisione delle conoscenze sulla sostenibilità e sull'etica tra i vari Comitati Nazionali cosicché le migliori pratiche si implementino ogni volta;
  • Sovraintendere un meccanismo di reclamo che possa essere usato da qualsiasi lavoratore e sindacato coinvolti nella produzione di beni e servizi per i giochi olimpici.

Comitati Organizzatori Nazionali dei Giochi Olimpici (compreso il LOCOG)

  • Garantire contratti con licenziatari e sponsor dei Giochi che comprendano obblighi legali a riconoscere gli standard lavorativi internazionali e predisporre i passi per monitorare e sanzionare eventuali violazioni;
  • Rendere nota l'ubicazione dei siti di produzione dei beni olimpici e assicurare che tale richiesta sia inclusa nei contratti con i licenziatari;
  • Lavorare con ilicenziatari per indagare e porre rimedio alle violazioni scoperte negli ambienti di produzione. Rendere noti i report sui progressi in questo campo;
  • Assicurarsi che le informazioni riguardo i codici di fornitura e i meccanismi di reclamo siano tradotte nelle lingue locali, e che il loro significato e utilizzo sia accessibile;
  • Lavorare con sindacati e i gruppi locali che si occupano di diritti dei lavoratori per fornire formazione sui codici di condotta e sui meccanismi di reclamo in tutte le fabbriche dedicate alla produzione di beni olimpici.

 Licenziatari olimpici devono

  • Impegnarsi pubblicamente a rispettare gli standard lavorativi riconosciuti a livello internazionale per tutti i lavoratori della catena di fornitura;
  • Includere nei loro contratti con i fornitori la richiesta di soddisfare gli standard lavorativi;
  • Lavorare con i fornitori e con i sindacati per assicurare l'applicazione degli standard e contrastare eventuali violazioni;
  • Impegnarsi a garantire a tutti i lavoratori impegnati nelle loro produzioni un salario dignitoso;
  • Supportare la creazione di un clima positivo in cui i lavoratori si sentano liberi di riunirsi e organizzarsi in unioni sindacali;
  • Eliminare l'uso di contratti a breve termine e garantire la sicurezza lavorativa;
  • Costruire relazioni di lungo termine con le fabbriche fornitrici.

Questo report è pubblicato dalla Campagna Play Fair. Play Fair è una campagna internazionale coordinata da federazioni sindacali internazionali e ONG: in particolare l’ International Trade Union Confederation, l’International Textile, Garment and Leather Workers' Federation, la Clean Clothes Campaign e il Building and Wood Workers' International.
play-fair.org

La campagna PlayFair 2012, un progetto coordinato dal Trade Union Congress and Labour Behind the Label, ha contribuito alla pubblicazione di questo report. PlayFair 2012 ha l’obiettivo di spingere gli organizzatori dei giochi di Londra, i marchi internazionali di indumenti sportivi e le ditte  licenziatarie al rispetto dei diritti dei lavoratori nella corsa verso le Olimpiadi del 2012
Playfair2012.org


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(2012) Reso noto il verdetto del People's Tribunal

I giudici provenienti da tre diversi continenti sono arrivati alla conclusione che sono necessari passi avanti importanti da parte degli attori internazionali per affrontare la questione delle paghe da fame dei lavoratori del tessile. Hanno inoltre chiesto ai marchi committenti di “andare al di là delle buone intenzioni, riconoscendo e rendendo prioritario il rispetto dei diritti umani sul posto di lavoro a partire dalle loro politiche di determinazione dei prezzi e di acquisto”.

Il verdetto ha seguito due giorni di udienza in cui più di 200 lavoratori del tessile si sono riuniti per sottolineare la necessità ineludibile di un salario dignitoso nel settore. Sono state raccolte testimonianze sugli svenimenti di massa, sulle condizioni di vita nei sobborghi, sulla malnutrizione, sul debito, sui ripetuti contratti a breve termine e sulla revoca di 1000 dirigenti sindacali dopo uno sciopero di tutto il comparto.

Ha partecipato anche un numero di esperti del settore. Uno di loro ha rivelato che a causa della massiccia inflazione, i lavoratori del tessile cambogiani hanno registrato una perdita di salario reale del 14% negli ultimi 12 anni. La situazione sta diventando ingestibile.

Anche i marchi multinazionali Adidas e Puma hanno presentato prove in qualità di acquirenti. Entrambi stanno partecipando a programmi di ricerca per identificare quale potrebbe essere un “giusto salario” nel settore tessile e stanno considerando la possibilità di istituire “salari dignitosi”.
Gli organizzatori del Tribunale dell’Asia Floor Wage Alliance si sono detti preoccupati delle troppe parole fatte dai marchi e delle poche azioni concrete intraprese.

Una lavoratrice di 27 anni, mamma di un bambino di 2 anni, impiegata in una fabbrica di prodotti per Adidas ha detto: “Visto che le mie entrate non sono sufficienti a coprire i bisogni primari della mia famiglia, ho chiesto un prestito al proprietario. Gli devo 50 dollari al mese più 10 di interessi. Di solito sono in grado di pagargli solo i 10 di interessi e non inizio mai a restituirgli il prestito. Se mi ammalassi non avrei i soldi per le cure. Non so cosa potrebbe succedere se accadesse. Inoltre sono preoccupata di non avere soldi per mandare a scuola mio figlio.”

H&M e Gap si sono rifiutate di prendere parte alle udienze nonostante le testimonianze fossero concentrate in gran parte su violazioni avvenute presso i loro fornitori. I due marchi, infatti, sono i più grandi acquirenti del paese, in cima alla classifica dei buyer.

“Il tribunale ha riscontrato un abisso tra i discorsi delle imprese internazionali e la reale situazione presentata dai lavoratori” ha riferito Ms. Anannya Bhattacharjee, coordinatrice dell’ International Asia Floor Wage Alliance. “La questione salariale è un problema cruciale e bisogna affrontarlo come tale. Gli attori internazionali devono lavorare insieme e usare la proposta dell’Asia Floor Wage  per combattere le paghe da fame del settore tessile”.

Il Dr. Jeroen Merk, della Clean Clothes Campaign ha chiesto che “ i consumatori in tutto il mondo continuino a porsi domande sui diritti dei lavoratori che producono i loro vestiti e che i più grandi buyer della Cambogia, come H&M e Gap, rispondano alla domanda sul perché ancora non paghino un salario digiusto ai lavoratori del tessile costretti alla povertà”.


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(2012) Cambodian People's Tribunal

Il 'People’s Tribunal on for Minimum Living Wages and Decent Working Conditions for Garment Workers as a Fundamental Right' è un’iniziativa dell’International Asia Floor Wage Alliance e dell’Asia Floor Wage-Cambodia (AFW-C) due coalizioni di sindacati dei lavoratori del tessile e di associazioni per i diritti dei lavoratori.

Il tribunale esaminerà i casi di lavoratori, imprese multinazionali e altri stakeholder dinanzi a un gruppo di giudici indipendenti, nel tentativo di rendere pubbliche le preoccupazioni di coloro che lavorano nel settore tessile in Cambogia. I processi si svolgeranno il 5-6 Febbraio 2012 a Phnom Pehn e saranno supervisionati da un collegio di cinque giudici esperti. L’8 Febbraio saranno presentati i risultati alla stampa.

Il tribunale è stato istituito come reazione alle dannose condizioni di lavoro cui sono costretti i lavoratori del tessile, in particolare per quanto riguarda i loro salari. “Nonostante una crescita importante nel settore, l’indennità di salario minimo in Cambogia è di 66 dollari al mese ed è attualmente il valore più basso rispetto agli altri paesi confinanti. È stato stimato che tale somma corrisponde a circa la metà di quanto avrebbe bisogno un lavoratore per soddisfare i suoi bisogni primari” ha detto Tola Moeun responsabile del Labour Programs for the Community Legal Education Centre (CLEC).

I lavoratori a bassa retribuzione in Cambogia si stanno mobilitando contro i bassi salari, le repressioni sindacali e le cattive condizioni di lavoro. Le basse retribuzioni hanno inoltre causato malnutrizione e malattie tra i lavoratori danneggiando la loro salute e la loro produttività. “Sia Better Factories Cambodia che rappresentanti del governo hanno attribuito il fenomeno degli svenimenti di massa direttamente ai salari inadeguat”i, ha ricordato Ath Thorn, presidente della Cambodian Labor Confederation.

A testimonianza della natura globale del settore tessile, che raccoglie il 90% delle esportazioni della Cambogia, rappresentanti dei marchi internazionali e rivenditori sono stati invitati a prendere parte al procedimento.

La Campagna Abiti Puliti parteciperà senza indugi ed esorterà le imprese impegnate in Cambogia a considerare seriamente i risultati che il People Tribunal presenterà.

Aggiornamenti costanti sul tribunale sono disponibili su:

- http://twitter.com/afwcam

- http://www.facebook.com/pages/Asia-Floor-Wage-Cambodia/320157644669845?sk=info

- http://afwcam.wordpress.com/

 


(2012) Terza udienza di Somyot. Preoccupanti le sue condizioni di salute

Il 16 Gennaio Somyot Prueksakasemsuk è stato portato davanri alla Corte Provinciale di Nakornsawan per la terza udienza del processo che lo vede imputato per lesa maestà.

Più di 40 sostenitori e familiari, compreso un osservatore internazionale, John Maynard, presidente del Postal Workers Union of Australia e amico di vecchia data di Somyot, hanno assistito all’udienza.

L’unico testimone da ascoltare era l’ex segretaria dell’ufficio legale di Sunai, Miss Pranida Homhuan. L'avvocato ha chiesto a Pranida Homhuan cosa ne pensasse dei due articoli scritti da Jit Pollachan, alla base delle accuse  contro Somyot. Lei ha confermato che le era stato chiesto di riesaminare gli articoli, ma che secondo lei il loro contenuto non riguardassero il re. Questa dichiarazione è stata rilasciata all’avvocato difensore, il signor Suwit Thongnuan, sotto giuramento.

Somyot è arrivato in tribunale ammanettato e ha riferito agli osservatori che il regime carcerario di    Nakhonsawan era più severo di quello di Petchaboon e che lui era dovuto rimanere in infermeria per motivi di salute. Secondo Somyot non gli è stato permesso di comprare cibo adatto ai suoi problemi di salute per qualche tempo. Somyot ha richiesto di essere riportato al carcere di Bangkok piuttosto che affrontare il trasferimento alla prigione di Songkhala per la prossima udienza di un  testimone della difesa, per la sua sicurezza e la sua salute. Il giudice ha affermato che non aveva alcuna autorità per soddisfare tale richiesta.

Dopo l'udienza, l'avvocato difensore Mr. Suwit Thongnuan ha dichiarato di non capire perché Pranida Homhuan fosse stata chiamata come testimone in quanto non era emersa alcuna prova rilevante durante il suo  interrogatorio. Egli ha sostenuto inoltre che il trasferimento attraverso l’intera Thailandia per questa udienza non era giustificata e che ha contribuito a porre inutili pressioni sul suo cliente. Ha ribadito la sua preoccupazione per la sicurezza di Somyot alla prossima udienza  in quanto si terrà nella provincia di Songkhla, una regione dominata dal PAD (Alleanza popolare per la democrazia), che rappresenta una forte opposizione alla posizione politica di Somyot.

Sunai Jullapongsathorn, presidente del Foreign Affairs Committee of Thailand ha dichiarato di essere preoccupato per gli spostamenti di Somyot attraverso la Thailandia e che vorrebbe sostenere il  suo team legale nell’appello alla Corte penale per ottenere lo spostamento della prossima udienza a Bangkok.


(2012) REPORT - Grandi marchi sfruttano lavoratrici marocchine

ropa_limpiaSETEM, l’associazione referente per Campagna Abiti Puliti in Spagna, ha presentato la ricerca “La moda española en Tánger: trabajo y superviviencia de las obreras de la confección”, che analizza le condizioni precarie di vita e di lavoro che subiscono le lavoratrici nei laboratori tessili di Tangeri fornitori delle grandi marche internazionali. La ricerca è stata realizzata con la collaborazione della Asociación Attawassol sulla base dell’esperienza di 118 operaie.

Il rapporto rileva le dure condizioni di lavoro delle operaie marocchine del tessile: eccesso di ore lavorative, bassi salari, abusi verbali e fisici, arbitrarietà nelle assunzioni e nei licenziamenti, misure disciplinari sproporzionate e ostacoli all’azione sindacale. Gli straordinari sono obbligatori e generalmente non retribuiti. La giornata lavorativa supera le 12 ore, sei giorni a settimana per salari che non vanno oltre i 200 euro mensili e che, a volte, stanno anche al di sotto dei 100 euro mensili. Le operaie più giovani, spesso minori di 16 anni, sono considerate apprendiste e vengono fatte lavorare senza contratto le stesse ore delle altre, con una paga però di 0,36 centesimi di euro all’ora, tre volte meno delle colleghe.

In Marocco c’è una forte presenza di laboratori fornitori di Inditex (Zara, Bershka, Pull&Bear, Stradivarius, Oysho, Massimo Dutti). La maggior parte delle operaie intervistate che lavorano assemblando i vestiti di queste marche denuncia il mancato rispetto del limite orario (arrivando a lavorare 65 ore settimanali) e, sebbene in generale lo stipendio arrivi alla soglia del Salario Mínimo Interprofesional Garantizado (SMIG) del Marocco, appena 178,72 euro mensili, condizioni di vita di estrema povertà.

Molti dei laboratori fornitori di Inditex lavorano anche per Mango. Anche le operaie che lavorano in queste fabbriche rilevano che non si rispettano i limiti orari e che sono costrette a lavorare fino a 65 ore settimanali. Nel Rapporto Annuale 2010 relativo a Mango già si erano evidenziate situazioni non accettabili in alcuni fornitori di Tangeri ed era stato fissato un termine di  sei mesi per correggere questi problemi.

Inoltre sono state raccolte testimonianze di lavoratrici di laboratori fornitori di Mayoral, El Corte Ingles e Dolce&Gabbana con condizioni lavorative simili.

La dislocazione della produzione in paesi come il Marocco ha permesso di ampliare i profitti delle grandi marche del tessile. Secondo l’autore del rapporto, Albert Sales, “queste imprese hanno nelle proprie mani la capacità tanto di generare situazioni di sfruttamento, quanto di evitarle.” Molte hanno assunto codici di condotta e impegni, ma nonostante le misure di responsabilità sociale d’impresa, molte lavoratrici marocchine  continuano a vivere in condizioni di povertà a volte accompagnate da giornate lavorative estremamente lunghe.

I codici di condotta adottati dalle imprese della moda comprendono l’obbligato di effettuare controlli nei laboratori. Ma le metodologie con cui questi controlli vengono effettuati sono molto diverse tra loro e spesso non permettono di identificare i problemi reali. Questo accade perché quando ci sono i controlli, le fabbriche realizzano cambiamenti temporanei come aumentare la salubrità dello spazio di lavoro, rispettare gli orari di lavoro, far uscire i lavoratori senza contratto e nascondere le lavoratrici minorenni.

Una lavoratrice di una fabbrica fornitrice di una grande azienda tessile ha raccontato che “quando arrivavano gli ispettori senza preavviso, i supervisori nascondevano le lavoratrici minorenni sul tetto o in scatole di vestiti vuote”.

Che possono fare le grandi marche?
Se desiderano veramente essere responsabili riguardo all’impatto sociale delle loro attività economiche devono adottare pratiche di massima trasparenza. Una delle più importanti è pubblicare la lista dei fornitori e condividerla con le ONG, i sindacati e i collettivi locali dei lavoratori, per poter controbattere alle denunce sorte da questa e altre inchieste e iniziare processi di miglioramento. In questo senso, la Campagna Abiti Puliti spagnola ricorda che Mango già condivide la sua lista di fornitori con alcuni attori sociali; ciò permetterà di analizzare insieme i risultati di questa inchiesta e intraprendere azioni per risolvere questi problemi insieme ai rappresentanti dei lavoratori.

Per quanto riguarda le lacune dei processi di controllo, Campagna Abiti Puliti invita i marchi a inserirsi in iniziative multistakeholder come la Far Wear Foundation che includono nei processi di miglioramento i punti di vista dei lavoratori e delle loro organizzazioni.

La Campagna Abiti Puliti ricorda che questa inchiesta riguarda il Marocco, ma che le situazioni che vengono descritte possono essere riscontrate in molti altri paesi.

Leggi tutto il rapporto


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(2012) Nike paga 1 milione di dollari di straordinari

Il gruppo Nike si è impegnato a risarcire i suoi lavoratori indonesiani per straordinari non pagati. La sua filiale indonesiana pagherà 1 milione di dollari a circa 4500 lavoratori dell’impianto di PT Nikomas a Serang, Banten.

Il sindacato (Serikat Pekerja National) che si è occupato della trattativa, durata oltre 11 mesi, ha denunciato 593.468 ore di straordinari non pagati negli ultimi due anni. Ora spera che il caso diventi un precedente per le industrie di tutto il Paese.

Nike ha dichiarato di “apprezzare gli sforzi e le azioni sostenute in fabbrica per colmare le carenze nelle politiche destinate a proteggere i diritti dei lavoratori e che continuerà a monitorare e sostenere i loro sforzi per porre rimedio alla situazione”. Inoltre ha promesso di offrire programmi di formazione e di creare una task force per affrontare le rivendicazioni.

Tuttavia, nonostante l'accordo, il problema è destinato a rimanere un contenzioso tra le due parti. SPN, pur dichiarandosi soddisfatta per la soluzione, ritiene che ai lavoratori spetterebbe molto di più. “La pratica di costringere i lavoratori a fare straordinari non retribuiti esiste da almeno 18 anni a Nikomas, ma la legge indonesiana permette di valutare solo gli ultimi due anni” ha ricordato il sindacato.

In ogni caso, seppur la compensazione economica avrebbe potuto essere maggiore, la vittoria simbolica resta. E le altre aziende operanti nel Paese dovranno tenerne conto. Il sindacato ha già detto di voler pianificare azioni contro Adidas e Puma.

Tratto da BBC News


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(2011) Una vittoria dimezzata. Zara condannata per condizioni di schiavitù

zaraI pubblici ministeri brasiliani dicono di aver raggiunto un accordo con la catena spagnola Zara che riduce drasticamente l’ammenda inflittagli  dopo che gli investigatori avevano trovato condizioni di schiavitù nelle fabbriche che riforniscono il marchio. L’azienda ha accettato una multa di $ 1,8milioni. La multa originaria istituita dopo l’indagine di agosto ammontava a $10,7 milioni. Inoltre stabiliva che la società sarebbe stata responsabile per le condizioni di lavoro future negli stabilimenti dei suoi subappaltatori. L’accordo siglato chiede a Zara solo di rafforzare i controlli sui suoi fornitori. Il procuratore del Labor Department Luiz Fabre ha riferito che le autorità hanno preferito negoziare piuttosto che aspettare l’esito di un processo per velocizzare i tempi.


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(2011) Si è svolta la seconda udienza del processo

01Il 19 dicembre, Somyot Prueksakasemsuk è stato trasportato dalla prigione Sakeaw a Petchaboon per la seconda udienza del processo che lo vede imputato per lesa maestà. Il giorno prima oltre 50 Magliette Rosse si sono radunate davanti a quel tribunale, con in mano una foto di Somyot e la scritta " Free Somyot".

Alle 09:00 Somyot è stato portato davanti alla corte in abiti da prigioniero e incatenato, nonostante la Truth For Reconciliation Commission  avesse vietato l'uso di catene sui prigionieri e sospetti criminali, al fine di conformarsi con il principio sui diritti umani delle Nazioni Unite.

Somyot è apparso sorridente e con un aspetto migliore rispetto al primo processo a Sakeaw. Ha raccontato di essere stato trasferito da Sakeaw il 28 novembre scorso. Ha detto che le condizioni di Petchaboon sono abbastanza buone anche se la struttura è molto vecchia. "All’inizio non riuscivo a dormire bene perché il carcere era troppo affollato, i prigionieri sono aumentati da 200 a 2.000" Più tardi è stato trasferito in infermeria dopo aver comunicato che soffriva di gotta e ipertensione. Somyot ha detto che è molto difficile per lui adattarsi al nuovo ambiente del carcere e che non vuole trasferirsi a Songkha per l’udienza successiva. "Mi rifiuto di andare, il viaggio è molto lungo, e non sono certo che sarò al sicuro nel carcere Songkha. Alcuni prigionieri hanno dichiarato di poter uccidere uno che insulta la famiglia reale e per questo mi sento in pericolo. Questa è la ragione per cui non voglio andare a Songkha” ha dichiarato.

Per quanto riguarda il suo stato di salute, ha detto che si è preso cura di se stesso da solo esercitandosi quotidianamente. Alla domanda sul clima di Petchaboon, ha risposto "Abbastanza freddo, ma la mia famiglia mi ha portato dei maglioni, non vi  preoccupate". Ha raccontato ai giornalisti che, mentre era nel carcere di Petchaboon, molti delle Magliette Rosse sono venuti a fargli visita ogni giorno. Ha sorriso con piacere quando ha saputo che la mattina più di 50 Magliette Rosse si erano radunate davanti al tribunale con in mano una sua foto e la scritta “Free all the political prisoners” chiedendo di rilasciare Somyot e tutti i prigionieri politici. "Ben fatto, fate di più, non solo qui ma anche a Bangkok", ha detto con volto sorridente.

La signorina Benja Homwann, l'ex amministratore di Voice of Taksin è stata l’unico testimone dell'accusa del giorno. Più di 70 persone sono venute per osservare e confortare Somyot. Non solo sostenitori delle Magliette Rosse, ma anche membri di altre organizzazioni internazionali.

La Homwann ha dichiarato di aver svolto mansioni da impiegata, controllando la posta elettronica e salvando o stampando gli articoli che Somyot doveva vedere. Non ha mai saputo se Somyot si occupasse di tutti gli articolo o no.

Nel pomeriggio, interrogata dall’avvocato della difesa, Mr. Suwit Thongnuan, ha poi dichiarato che Somyot firma i suoi articoli di Voice of Taksin con il suo vero nome e che non le risulta abbia mai usato pseudonimi prima. Uno degli articoli che lei aveva preso dalla posta elettronica e stampato perché Somyot lo visionasse era “the 6th Octerber from the KOM  KWAM KID” firmato da un certo “Jit Pollachan”. La Homwann ha poi riferito che alcuni colleghi le hanno detto che quel Jit Pollachan fosse lo pseudonimo di Jakkapob Phenkhair.

Jakkapob Phenkhair è stato accusato di lesa maestà per il suo discorso sul sistema clientelare della Thailandia presso il Circolo della stampa estera nell’agosto del 2007. È scappato poi  in un altro paese prima del giro di vite contro le Magliette Rosse da parte dell'esercito nel mese di aprile 2009.

La testimone ha detto all'avvocato della difesa che non ha mai incontrato Phenkhair Jakkapop e che non lo ha mai visto venire in ufficio. Lei sa solo che Jit Pollachan ha inviato molti articoli per essere pubblicati sulla rivista "Voce di Taksin". "Ma io non so se Somyot abbia mai modificato gli articoli di Jit Pollachan o no, la mia responsabilità è quella di salvare e stampare perchè Somyot possa leggerli”.

Somyot sarà trasferito a Nakornsawan per la terza udienza e poi a Songkhla per la quarta. Suwit Thongnuan, il suo legale, ha chiesto al tribunale provinciale di trasferire Somyot in una prigione di Bangkok, visto che anche  il testimone risiede a Bangkok. La corte di Petchaboon ha rifiutato e ha detto che non hanno alcun diritto di presentare tale richiesta, l’ordine è arrivato dal giudice penale e non può essere cambiato.

L'avvocato ha confermato che Somyot si rifiuta di andare a Songkhla. "Questi spostamenti in tutte le province sembrano essere fatti a posta per tenerlo a lungo lontano, isolato dalla sua famiglia e dagli amici, per rendere difficile alla famiglia e all'avvocato fargli visita, e per mettere a rischio la sua sicurezza. "Chiederemo al tribunale penale di annullare tale udienza, noi lo boicotteremo. Se vorranno costringere Somyot ad andare, dovranno legarlo e portarcelo di forza”.

Phee Jung, amico di Somyot che è venuto dalla Svizzera ha detto "Tutta la comunità internazionale in Europa e in America è sconcertata per la legge thailandese, sconcertata per la libertà del giornalista, per la sua libertà di espressione. Tutte le azioni della polizia e dell’esercito ci ha sorpreso molto" Per quanto riguarda la legge sulla  lesa maestà e il caso di Somyot, ha detto "Somyot è solo un editore, quello che ha fatto è solo curare la rivista. Arrestare persone quando esprimono la loro opinione politica, si chiama violenza". Ha anche sottolineato che tutte le preoccupazioni dell'Unione Europea su questa legge suggeriscono al parlamento e al governo thailandese di rivedere la legge il più presto possibile.

La terza udienza si terrà il 16 febbraio 2012 al tribunale di Nakornsawan.


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(2011) La diretta della seconda udienza del processo a Somyot

In questa pagina trovate i contributi video arrivati dalla Thailandia e registrati a margine della seconda udienza del processo a Somyot Prueksakasemsuk per lesa maestà.

Le foto dalla Thailandia

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21 december 2011 at 8:30, around 50 Red shirts are gatering in front of Petchabun court asking for the freedom of Somyot

 

 

Interview of Joob (Somyot wife) in English (18/12/2011) Part 1

 

Interview of Joob (Somyot wife) in English (18/12/2011) Part 2

 


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(2011) That's It Sportswear: dopo un anno dall'incendio è ancora un posto insicuro

È trascorso un anno dall’incendio alla fabbrica di indumenti That’s It Sportswear in Bangladesh. L’evento avvenuto il 14 dicembre 2010 causò la morte di 29 lavoratori e il ferimento di molti altri, di cui 11 gravemente.

La fabbrica, appartenente al gruppo Hameem, riforniva marchi e rivenditori statunitensi, tra cui JC Penney, VF corporation, Gap, Philips Van Heusen, Abercrombie & Fitch, Carters, Kohls and Target.

Purtroppo i primi di dicembre 2011 altri due lavoratori sono morti e più di 15 sono rimasti feriti travolti da una calca in fuga dopo lo scoppio di una caldaia alla Eurotex. Questo episodio porta il numero dei lavoratori uccisi dal 2000 ad oggi in fabbriche di indumenti pericolose a quota 339. La maggior parte delle vittime stavano producendo vestiti per ben noti marchi internazionali quando sono morti.

È trascorso un anno e le aziende di sourcing di That’s It Sportswear hanno pagato il 97% delle compensazioni dovute ai familiari delle vittime per lo stress e la perdita subite. Tuttavia, ci sono ancora le richieste in sospeso per quanto riguarda le modalità di risarcimento per i lavoratori infortunati e l'urgenza di istituire un programma credibile per affrontare i gravi problemi di sicurezza che restano endemici nel settore dell'abbigliamento.

L’incendio alla That’s It Sportswear

L’incendio, che scoppio in ciò che era considerate un edificio moderno, fu causato, come spesso capita, da un corto circuito elettrico e da un cablaggio scadente.  E 'stato riferito che le adeguate esercitazioni antincendio non erano state effettuate, che le uscite erano bloccate, che il luogo di lavoro non era stato adeguatamente controllato e che l'azienda aveva solo un permesso per i piani inferiori.

Quando l'incendio è scoppiato al nono piano, i vigili del fuoco non erano in grado di intervenire, perché le loro scale non potevano andare oltre il quinto piano e gli elicotteri non erano in grado di atterrare perché il tetto era stato illegalmente trasformato in una mensa. Inoltre, ai lavoratori era stato di fatto negato il diritto alla libertà di associazione che avrebbe consentito loro di svolgere un ruolo per affrontare alcune di queste violazioni in anticipo rispetto alla tragedia. Molti di coloro che hanno cercato di fuggire dalle finestre è andato incontro alla morte.

Sicurezza e compensazione richieste

In risposta al disastro alla That’s It Sportswear, i sindacati del Bangladesh appartenenti al BNC e lo Unity Council hanno concordato una serie di richieste sulla base delle best practice esistenti e su una valutazione di ciò che l'industria potrebbe sostenere. Queste richieste hanno anche tenuto conto dell'assenza di un regime di compensazione adeguato e del principio che gli acquirenti, in generale, sono considerati maggiormente responsabili quando non dispongono di adeguati sistemi per il rilevamento e la risoluzione di carenze nella sicurezza dei lavoratori.

Queste esigenze hanno il sostegno delle ONG locali, l'International Textile, Garment and Leather Workers Federation (ITGLWF) e gruppi internazionali che si occupano di diritti del lavoro come la Clean Clothes Campaign, il Worker Rights Consortium, il Maquila Solidarity Network and l’ International Labor Rights Forum.

Mentre hanno insistito sulla importanza di fornire un adeguato indennizzo alle persone colpite, i sindacati e i gruppi per i diritti dei lavoratori hanno anche chiesto misure adeguate per controllare la sicurezza e rimediare a eventuali carenze in tutto il settore dell'abbigliamento. Le richieste in questo senso comprendono l'attuazione immediata di un programma di sicurezza che includa la revisione delle norme vigenti; controlli di sicurezza approfonditi, indipendenti, ben finanziati e pubblici di tutte le fabbriche multi-piano dei fornitori; la bonifica delle carenze di sicurezza individuate;  la formazione della dirigenza, del personale di  sicurezza  e dei lavoratori in materia di  salute e sicurezza; la creazione di meccanismi di dialogo tra sindacati e datori di lavoro e il funzionamento dei comitati di salute e sicurezza in ogni fabbrica.

Le richieste di risarcimento includono compensazioni per il dolore e la sofferenza e compensazioni per la perdita del reddito di sostentamento della famiglia. Le famiglie di ciascuno dei lavoratori deceduti dovrebbe ricevere 1,7 milioni taka (circa 17,000 euro). I lavoratori infortunati devono ricevere il pagamento delle spese mediche, l'indennizzo per il dolore e la sofferenza, più una maggiorazione a seconda della gravità delle lesioni. Questa compensazione dovrebbe essere fornita dai marchi (45%), dal proprietario della fabbrica (28%), dal Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association (BGMEA) (18%) e dal governo (9%). Oltre a fornire una quota del compenso, ai brands è stato chiesto di lavorare con il BGMEA e Hameem per assicurare che le esigenze dei lavoratori siano pienamente rispettate.

Le azioni dei brand

Siamo lieti di segnalare che la maggior parte delle marche che si riforniscono da Hameem ha  contribuito per la parte loro richiesta nei confronti delle famiglie dei lavoratori deceduti e ha lavorato con Hameem per determinare in che misura le richieste dei lavoratori siano state soddisfatte.

Tuttavia, non si sono preoccupate di risarcire i lavoratori infortunati e per quanto riguarda l’esigenza di un programma di sicurezza è molto preoccupante che, nonostante i loro impegni precedenti, nessuna di loro, ad eccezione di Gap, abbia risposto predisponendo un piano credibile per affrontare l'insicurezza intrinseca del settore.

Da parte sua, Hameem  ha pagato 274.000 USD, che include elementi di compensazione, i costi di sepoltura, spese mediche, il pagamento dei salari ai lavoratori inabili e l'educazione dei figli dei defunti. Tuttavia, ha contribuito solo per il 40% di quanto gli spettava pagare secondo le richieste di compensazione per i lavoratori deceduti e numerose altre richieste sono ancora in sospeso. BGMEA nel frattempo ha pagato solo il 20% della sua quota di risarcimento. Il governo ha coperto i costi di sepoltura, ma non ha fornito un risarcimento.

2 morti a Eurotex Ltd

Il 3 dicembre Jesmin Akter, 20 anni e assunta come aiutante, e Taslima Akter, 22 anni e  impiegata come operatrice, sono morte calpestate da una calca in fuga a causa del panico generato dall’esplosione di una caldaia al secondo piano della fabbrica Eurotex Ltd nell’ Old Dhaka. Altri 62 operai sono rimasti feriti, e l'8 dicembre 11 addetti sono stati trattenuti in ospedale. Diversi acquirenti internazionali avevano già individuato problemi in materia di rischi per la sicurezza in quella fabbrica, che al momento dell'incidente stava producendo per un certo numero di marchi di livello mondiale come Tommy Hilfiger (di proprietà della società statunitense Philips Van Heusen), Zara (di proprietà del società spagnola Inditex), Gap (US), e Groupe Dynamite Boutique Inc (Canada) - direttamente o tramite subappalto

Racconti di testimoni oculari affermano che il giorno dell'incidente i lavoratori verso le 1:15 pm avevano segnalato un problema con la caldaia al secondo piano. Da qui in poi non si sa bene cosa sia successo: alcuni testimoni riferiscono di aver visto uscire vapore dalla caldaia, altri dicono che hanno sentito un'esplosione. I lavoratori stavano lavorando dal secondo al sesto piano della fabbrica e come si è sparsa la voce che era scoppiato un incendio molti, presi dal panico, hanno iniziato a correre per  lasciare l'edificio. I lavoratori riferiscono che il sovraffollamento ha portato alla fuga sulle scale fino al primo piano, provocando il crollo di una ringhiera e la caduta di un  certo numero di lavoratori. I resoconti riportano che le porte tagliafuoco in fondo alle scale erano bloccate, contribuendo ad aumentare il panico e il sovraccarico delle scale. Un operaio ha riferito che in un primo momento i cancelli erano aperti, ma sono poi stati chiusi da un direttore di fabbrica, che stava esortando la gente a tornare al lavoro dicendo che non era successo niente. Questo testimone afferma che i ferimenti e i decessi si sono verificati proprio quando i lavoratori hanno iniziato a correre di nuovo su per le scale spingendo indietro chi stava scendendo.


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(2011) Somyot ha diritto alla cauzione

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Update: I video dei contributi video della seconda udienza

Il processo a Somyot Prueksakasemsuk per lesa maestà è iniziato il 21 novembre scorso. Ve ne abbiamo dato conto con una diretta twitter e attraverso la nostra pagina facebook. Il prossimo 19 dicembre ci sarà la seconda udienza.

Il problema, in questo momento, resta il diritto di Somyot alla cauzione, negatogli da una sentenza lo scorso primo novembre: è un diritto inalienabile garantito da diverse convenzioni internazionali ratificate dalla Thailandia, nonché dalla stessa costituzione del Paese. Il diritto alla cauzione può essere limitato solo in base a motivazioni gravi ed evidenti e in questo caso non è per nulla chiaro quali esse siano. 

La salute psicologica di Somyot è messa a dura prova, soprattutto per gli spostamenti continui che deve affrontare in tutta la Thaliandia verso le diverse corti processuali.

Vi chiediamo di sottoscrivere con forza la petizione rivolta al Primo Ministro thailandese per chiedere il rispetto dei diritti fondamentali di Somyot Prueksakasemsuk.

Presto vi forniremo nuovi aggiornamenti; nel frattempo potete riascoltare alcune interviste realizzate durante la prima udienza del processo.


(2011) I contributi dall'udienza del 21 novembre

 

Ascolta l'intervista a Khun Joob (moglie di Somyot) in inglese

Prima parte 

Seconda parte 

Intervista a Mr Karom Polpornklang (avvocato di Somyot)


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(2011) Free Somyot. Al via il processo

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Update: guarda i contributi video dalla Thailandia

Il 21 novembre, in Thailandia, inizierà il processo a Somyot Prueksakasemsuk per lesa maestà. Sottoscrivi la lettera al Primo Ministro thailandese per aiutarlo ad uscire di prigione.
Somyot, attivista per i diritti umani e giornalista, era stato arrestato lo scorso 30 Aprile poco dopo aver lanciato una campagna di raccolta firme proprio per l’abolizione del reato di lesa maestà e ora rischia fino a 30 anni di carcere. L’accusa si riferisce in particolare alla pubblicazione di due articoli sulla rivista Voice of Taksin, con i quali Somyot avrebbe gettato discredito sulla monarchia.

Come lo stesso Somyot aveva più volte denunciato, l’aumento vertiginoso di casi di accusa di lesa maestà, prevista dall’articolo 112 del codice penale thailandese, nei confronti di attivisti e giornalisti ha reso la situazione particolarmente allarmante nel Paese. La legge stabilisce che “chiunque diffami, insulti o minacci il Re, la Regina, l'erede o il Reggente, deve essere punito con la reclusione da tre a quindici anni”. Troppo spesso tale accusa sembra venire utilizzata per silenziare chi si batte in difesa di diritti fondamentali per le persone e per i lavoratori. Dal colpo di stato del 2006, i casi di lesa maestà sono cresciuti del 1000 per cento, contando più di 300 persone inquisite per questo reato.

Lo scorso 1 Novembre è stata rifiutata la richiesta di cauzione avanzata dal legale di Somyot, contraddicendo diverse convenzioni internazionali ratificate dalla Thailandia, nonché la stessa costituzione del Paese. Il diritto alla cauzione, infatti, può essere limitato solo in base a motivazioni gravi ed evidenti e in questo caso non è per nulla chiaro quali esse siano.

Sono ormai 6 mesi e mezzo che il giornalista è detenuto e, a quanto pare, non verrà rilasciato prima della sentenza prevista per il prossimo 4 maggio.  Il calendario stilato per l’audizione dei testimoni dell’accusa sembra costruito volutamente per caricare l’accusato di oneri eccessivi, mettendo in difficoltà non solo lui e la sua famiglia, ma anche gli osservatori e i giornalisti che vorranno essere presenti e partecipare, offuscando la possibilità che si celebri realmente un giusto processo. 

Diverse organizzazioni internazionali da tempo chiedono alla Thailandia di abolire questo reato. Addirittura le Nazioni Unite hanno sottolineato il grave rischio di violazione dei diritti umani che si corre nell’applicare una norma così vaga, in cui non è nemmeno chiaro quali espressioni ledano l’immagine della monarchia e quali no. Le conseguenze per Somyot e per la libertà di espressione in Thailandia sono così serie che l’Unione Europea ha predisposto l’invio di osservatori che vigilino sul regolare svolgimento del processo.

Campagna Abiti Puliti, insieme ad un’alleanza globale di attivisti e giornalisti per i diritti umani, garantirà la diretta video del processo, con analisi legali, foto, video e interviste esclusive. Feed costanti saranno disponibili il 21 novembre e in tutte le date delle udienze su vimeo e su twitter. Tutto il materiale prodotto sarà poi disponibile sul sito Abiti Puliti.

Nel frattempo invieremo alle autorità thailandesi una lettera preparata con 8 organizzazioni internazionali e regionali, tra cui la International Federation for Human Rights (FIDH), Article 19 e la South-east Asia Press Alliance, per chiedere che:

-          Garantiscano immediatamente e incondizionatamente a Somyot Prueksakasemsuk il diritto alla cauzione, così come previsto dalle leggi thailandesi e dal diritto internazionale;

-          Facciano cadere le accuse contro Somyot Prueksakasemsuk;

-          Correggano la legge che tratta di lesa maestà in conformità con gli impegni internazionali assunti dal Paese in tema di diritti umani e come richiesto dal relatore per le Nazioni Unite sulla libertà di opinione ed espressione, facendo cadere tutte le accuse ai vari attivisti basate su quella norma;

-          Garantiscano in ogni circostanza a tutti i difensori dei diritti umani, soprattutto coloro che lavorano in difesa della libertà di espressione, la possibilità di svolgere le loro attività senza paura di rappresaglie e liberi da qualsiasi restrizione.

 

Chiediamo a tutti di supportarci in questa battaglia di civiltà, sottoscrivendo la lettera al Primo Ministro thailandese per invitare  il governo thailandese a farsi carico delle nostre richieste e per assicurare libertà a Somyot. Il vostro impegno è la nostra forza.


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(2011) Sabbiatura: anche Cavalli getta la spugna

Con una sintetica nota stampa, il Gruppo Roberto Cavalli ci informa di non utilizzare il processo di sabbiatura.

L'attenzione che in questi ultimi giorni i media hanno dedicato al tema non deve essere piaciuta al brand che si è affrettato a dichiarare la sua estraneità al processo sottolineando il fatto di averlo già comunicato da tempo. Fermo restando che non ci risulta nessuna comunicazione ufficiale prima di questa, salutiamo comunque con piacere la scelta di Cavalli e, come sempre, ci rendiamo disponibili a confrontarci con l'azienda sul percorso di monitoraggio della catena di fornitura. Senza una politica efficace di monitoraggio e confronto con le parti sociali è infatti difficile garantire la coerenza tra le dichiarazioni e le pratiche.


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(2011) Le Iene per Abiti Puliti

ienePer chi se lo fosse perso, ecco il fantastico servizio delle Iene sulla sabbiatura dei jeans. Toccanti interviste agli addetti al sandblasting e un tentativo di parlare con Dolce & Gabbana e Cavalli finito piuttosto male...

Guarda il video


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(2011) Continua la campagna contro i killer jeans

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Siamo a circa un anno dal lancio della campagna internazionale che ha spinto molte imprese a rivedere le loro politiche aziendali in relazione alla sabbiatura. Grazie a tutti voi, abbiamo registrato successi considerevoli ottenendo impegni specifici dai più grandi marchi della moda italiani e internazionali: Armani, Benetton, Bestseller, Burberry, C&A, Carrera Jeans, Charles Vögele, Esprit, Gucci, H&M, Levi-Strauss & Co., Mango, Metro , New Look, Pepe Jeans, Replay e Versace hanno via via annunciato la messa al bando del sandblasting dai loro stabilimenti. Per questo siamo fiduciosi rispetto alla reale possibilità di eliminare definitivamente i jeans sabbiati dal mercato.

Il percorso è ancora lungo e per essere credibile necessita di un'azione di monitoraggio che verifichi l'effettiva adozione di politiche aziendali di prevenzione del rischio in materia di salute e sicurezza lungo l'intera filiera produttiva. Senza dimenticare la necessità di risarcire i lavoratori che hanno contratto la malattia e di mettere in campo strategie che coinvolgono i sindacati locali e le ONG per sviluppare programmi di miglioramento con i lavoratori sul campo.

Inoltre ci sono ancora alcuni brand, come Dolce & Gabbana e Roberto Cavalli, che continuano a rifiutare il confronto con la Campagna Abiti Puliti. Un atteggiamento lontano dalla responsabilità di impresa che prevederebbe un immediata presa in carico del problema che riguarda migliaia di lavoratori a rischio.

Per questo la campagna non si arresta. Vi chiediamo di continuare a fare la vostra parte per sostenere la campagna internazionale per l’abolizione dei jeans sabbiati. Il vostro impegno è la nostra forza.

Firmate qui per richiamare Dolce & Gabbana alle sue responsabilità

e qui per tutte le altre aziende

 


(2011) REPORT - Quanti punti ha ottenuto il tuo marchio preferito?

report_uk«Nel contesto di crisi globale che stiamo attraversando, spesso sono i più deboli a pagare il conto più salato. E l’industria della moda è un ottimo esempio di questa tendenza». È questa la conclusione principale cui sono giunti Anna McMullen and Sam Maher redigendo la quinta edizione del  report Let’s Clean Up Fashion 2011. The state of pay behind the UK high street.


«Nonostante il settore registri ancora enormi profitti, I salari di milioni di donne e uomini impiegati crollano costantemente. Questo vuol dire che migliaia di persone lottano quotidianamente per sopravvivere, per vestirsi, per avere un riparo. Questo stato di cose è ancora più deludente perché la maggior parte di questi rivenditori si sono impegnati a garantire un salario di sussistenza per i lavoratori delle loro catene di fornitura. Infatti, sono in corso molti progetti in tal senso da diversi anni ma, come la situazione reale sul terreno mostra, tali impegni non stanno fornendo i risultati sperati. Certo è che la ricerca disperata da parte dei brand di prezzi sempre più bassi per produrre, favorisce la nascita di un circolo vizioso, in cui gli stessi governi e lavoratori spesso sono disposti ad accettare violazioni dei propri diritti pur di non allontanare le imprese e continuare a lavorare.

Per questo è fondamentale che i brand si impegnino a pagare ai propri fornitori un prezzo sufficiente a garantire salari dignitosi a tutti i lavoratori. Facendolo fornirebbero un messaggio chiaro sull’importanza dei diritti al di là dei profitti».

Come risulta dal report, molte imprese suggeriscono che siano i lavoratori stessi a definire il salario minimo di sopravvivenza. Ma in molti casi i lavoratori già lo fanno; in Bangladesh, Cambogia, Lesotho e moltissimi altri luoghi si sono susseguite in questi anni manifestazioni che chiedevano aumenti salariali. Il risultato? Quando va bene vengono ignorati;  altre volte perdono il posto, vengono  arrestati e malmenati. Le aziende devono fare di più per garantire il rispetto dei diritti sindacali nel tentativo di fornire un salario di sussistenza per i lavoratori tessili. Finché questi diritti continuano ad essere violati da parte dei governi, dei datori di lavoro e dei marchi, i lavoratori saranno messi a tacere e sarà lasciata aperta la strada a uno sfruttamento sempre più selvaggio.

Il report, come sempre, fotografa egregiamente la situazione dei principali brand monitorati, fornendo un profilo dettagliato su ciascuno di loro e attribuendo un grado numerico per identificare velocemente lo stato di sviluppo dei loro progetti. Il confronto con i report degli anni passati è tutt’altro che incoraggiante: pur rilevando i progressi fatti da alcuni dei marchi coinvolti, la maggior parte di loro procede troppo lentamente.

«Nel 2011 il salario dignitoso nell’industria tessile resta un sogno lontano per molti lavoratori che producono i nostri abiti. È ora che i brand e i rivenditori smettano di parlare e inizino ad agire seriamente sui temi che contano davvero».


somyot

(2011) Chi è Somyot Pruksakasemsuk

Il 30 aprile 2011 Somyot Pruksakasemsuk è stato arrestato per la seconda volta in 12 mesi  a causa della sua attività di giornalista.

È solo uno dei numerosi attivisti rinchiusi nella Bangkok Remand Prison per le loro attività democratiche svolte per le elezioni thailandesi di luglio. Loro sono convinti che le accuse siano state utilizzate per impedire ai gruppi di opposizione di partecipare liberamente alle consultazioni.

 

 

Ecco un'intervista a Somyot realizzata nel gennaio 2011

Il Thai National Human Rights Committee e Amnesty International si stanno occupando del “caso Somyot” e molti amici e colleghi hanno già inviato lettere al primo ministro thailandese chiedendone il rilascio. Attivati anche tu!

Somyot in questo momento sta lavorando come bibliotecario alla prigione di Bangkok. Puoi mandargli per posta o  via email una pubblicazione o un’opera  creativa, tua o di chiunque.  Può essere un racconto, una fotografia o qualsiasi cosa pensi possa offrire un momento di distrazione per i detenuti della prigione.

Mandagli qualcosa a questo indirizzo mail thelibrarianofbangkokprison@yahoo.co.uk o via posta a

The Librarian
Somyot Pruksakasemsuk
Bangkok Remand Prison
33 Ngamvongvan Road,
Ladyao, Jatujak
Bangkok 10900

Fonte The Librarian of Bangkok Prison


charleshector2

(2011) Charles Hector costretto ad un accordo con l'azienda elettronica

charleshector2Siamo sgomenti per l’esito dell’importante processo a carico del difensore dei diritti umani, avvocato e blogger Charles Hector. L’accordo che ha concluso il procedimento non rende giustizia al ruolo legittimo di attivisti per i diritti dei lavoratori, difensori dei diritti umani e bloggers che esprimono preoccupazioni per gli abusi aziendali.

Nel Febbraio 2011 Charles Hector è stato citato in giudizio dall’azienda di elettronica di proprietà giapponese Asahi Kosei, in Selangor, Malaysia, per aver pubblicato on-line informazioni riguardanti la violazione dei diritti di 31 migranti birmani impiegati presso quell’impresa. Asahi Kosei ha chiesto un risarcimento di $ 3,3 milioni, oltre a pubbliche scuse, sostenendo che  i 31 lavoratori birmani non fossero sotto la sua responsabilità essendogli stati prestati da un ‘outsourcing agent’.

Il 25 agosto Charles Hector ha dovuto accettare un accordo con Asahi Kosei che prevede la pubblicazione di una mezza pagina di scuse su due quotidiani malesi e il pagamento di una cifra simbolica per spese e danni. Le scuse saranno pubblicate entro tre settimane dai giornali The Star e Nanyang Siang Pau.

Nonostante l’accordo, Asahi Konei ha poco di cui essere orgogliosa. Oltre all’ingiusto trattamento dei lavoratori migranti birmani, ci sono prove che non stia garantendo ai lavoratori le astensioni a cui hanno diritto, comprese le ferie annuali e il congedo di maternità.

La posizione dei lavoratori “outsourced”, in particolare dei migranti, in Malaysia è molto precaria. I fornitori malesi, i loro clienti internazionali e il governo malese devono rispettare e proteggere i diritti dei lavoratori, in particolare quelli dei gruppi più vulnerabili, e mostrare il dovuto impegno nell’affrontare e risolvere le questioni dei diritti dei lavoratori. Nel caso in questione tutte le parti non sono riuscite a mostrare responsabilità.

Per approfondimenti: http://goodelectronics.org/news-en/human-rights-defender-made-to-accept-settlement-with-electronics-company/ e www.indefenceofcharleshector.blogspot.com (anche per dettagli su come supportare la raccolta fondi per le spese legali di Charles Hector)


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(2011) Charles Hector costretto ad un accordo con l'azienda elettronica

charleshector2Siamo sgomenti per l’esito dell’importante processo a carico del difensore dei diritti umani, avvocato e blogger Charles Hector. L’accordo che ha concluso il procedimento non rende giustizia al ruolo legittimo di attivisti per i diritti dei lavoratori, difensori dei diritti umani e bloggers che esprimono preoccupazioni per gli abusi aziendali.

Nel Febbraio 2011 Charles Hector è stato citato in giudizio dall’azienda di elettronica di proprietà giapponese Asahi Kosei, in Selangor, Malaysia, per aver pubblicato on-line informazioni riguardanti la violazione dei diritti di 31 migranti birmani impiegati presso quell’impresa. Asahi Kosei ha chiesto un risarcimento di $ 3,3 milioni, oltre a pubbliche scuse, sostenendo che  i 31 lavoratori birmani non fossero sotto la sua responsabilità essendogli stati prestati da un ‘outsourcing agent’.

Il 25 agosto Charles Hector ha dovuto accettare un accordo con Asahi Kosei che prevede la pubblicazione di una mezza pagina di scuse su due quotidiani malesi e il pagamento di una cifra simbolica per spese e danni. Le scuse saranno pubblicate entro tre settimane dai giornali The Star e Nanyang Siang Pau.

Nonostante l’accordo, Asahi Konei ha poco di cui essere orgogliosa. Oltre all’ingiusto trattamento dei lavoratori migranti birmani, ci sono prove che non stia garantendo ai lavoratori le astensioni a cui hanno diritto, comprese le ferie annuali e il congedo di maternità.

La posizione dei lavoratori “outsourced”, in particolare dei migranti, in Malaysia è molto precaria. I fornitori malesi, i loro clienti internazionali e il governo malese devono rispettare e proteggere i diritti dei lavoratori, in particolare quelli dei gruppi più vulnerabili, e mostrare il dovuto impegno nell’affrontare e risolvere le questioni dei diritti dei lavoratori. Nel caso in questione tutte le parti non sono riuscite a mostrare responsabilità.

Per approfondimenti: http://goodelectronics.org/news-en/human-rights-defender-made-to-accept-settlement-with-electronics-company/ e www.indefenceofcharleshector.blogspot.com (anche per dettagli su come supportare la raccolta fondi per le spese legali di Charles Hector)


bacheca_Armani

(2011) Un'altra vittoria: Armani abbandona il sandblasting

bacheca_ArmaniLa campagna per l'abolizione del sandblasting portata avanti dalla Clean Clothes Campaign ha  conseguito un nuovo e importante risultato ottenendo l'impegno ufficiale della nota azienda tessile Armani ad annunciare la messa al bando della tecnica del sandblasting per la produzione dei suoi jeans. L'azienda ne ha dato comunicazione attraverso la sua pagina ufficiale facebook e subito è stata sommersa di commenti positivi.

Negli scorsi mesi gli attivisti di Abiti Puliti avevano chiesto al brand, attraverso post su Facebook e una petizione su Change.org, di prendere una posizione esplicita contro il sandblasting annunciandone l'abolizione dalla sua catena di fornitura.

Dall’inizio della campagna nel 2010 produttori come Benetton, Bestseller, Burberry, C&A, Carrera Jeans, Charles Vögele, Esprit, Gucci, H&M, Levi-Strauss & Co., Mango, Metro , New Look, Pepe Jeans, Replay e recentemente Versace hanno via via annunciato la messa al bando del sandblasting dai loro stabilimenti. La Clean Clothes Campaign saluta con piacere la decisione di Armani di unirsi agli altri marchi e si impegna a supportare l'azienda nel percorso di eliminazione della tecnica e di monitoraggio della catena di fornitori.


giugno

(2011) Alla larga da quei jeans

giugnoAgosto 2011 - Diritti dei lavoratori negati, poco rispetto per l'ambiente, chimica nei tessuti. L'etica scolorita delle maggiori griffe. Pubblichiamo l'inchiesta condotta da Altroconsumo con un intervista a Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti sulla campagna per l'abolizione della sabbiatura dei jeans.

Scarica il dossier

 


dolce_gabbana

(2011) Anche Dolce & Gabbana sceglie la strada della censura

dolce_gabbanaLa casa di moda italiana Dolce & Gabbana ha cancellato dalla sua bacheca Facebook i messaggi lasciati da alcuni attivisti che chiedevano all'azienda di mettere al bando il sandblasting, la tecnica usata per dare ai jeans un look "usurato e logoro" particolarmente pericolosa per i lavoratori. La stessa cosa aveva fatto qualche tempo fa anche Versace, salvo poi tornare sui suoi passi e decidere saggiamente di aderire alla abolizione della sabbiatura.

Più di 30mila attivisti europei e americani hanno già sottoscritto la petizione lanciata sul Change.org per chiedere un'azione concreta all'azienda. Ci aspettiamo una reazione immediata da parte del brand per cancellare definitivamente questa pratica mortale dalla sua filiera di produzione.


dandg

(2011) Fermiamo i jeans che uccidono di Dolce & Gabbana e Armani

dandgLa situazione

La sabbiatura, utilizzata per dare ai jeans un look usato e “logoro”, è nota per essere letale per gli operatori del tessile in paesi come il Bangladesh e la Turchia, dove tale tecnica viene eseguita manualemente.

La sabbia viene sparata con compressori ad alta pressione sui jeans, diffondendo polveri nell’ambiente ed esponendo i lavoratori alla silice e quindi al rischio di ammalarsi di silicosi. Alla fine, i lavoratori muoiono perché non riescono più a respirare.

 

La soluzione

Dolce & Gabbana e Armani devono seguire i passi fatti dagli altri marchi tra cui Versace, Levi’s, H&M, C&A e Gucci e mettere al bando pubblicamente il sandblasting nella loro catena di fornitura.

Abbiamo appena ottenuto che Versace abolisse il sandblasting grazie al vostro grande sforzo, ora facciamo in modo che Dolce & Gabbana e Armani siano i prossimi!

 

Cosa puoi fare tu

Lascia un messaggio sulla bacheca della pagina Facebook di Dolce & Gabbana (la prima o la seconda) e su quella di Armani chiedendogli di eliminare il sandblasting dalla loro produzione. Ricordati che dovrai cliccare “mi piace” sulla fan page per lasciare un commento, ma che potrai in qualsiasi momento cliccare su “non mi piace più” per annullare la preferenza.

Puoi scrivere un tuo messaggio o, per comodità, copiare e incollare questo:

Killing workers isn’t sexy. Please ban sandblasting because there is no need for someone to die to make good looking jeans. http://www.change.org/petitions/dolce-gabbana-stop-the-killer-jeans

(Uccidere i lavoratori non è sexy. Per favore abolite il sandblasting perché non c’è nessun bisogno che qualcuno muoia per fabbricare jeans alla moda. http://www.change.org/petitions/dolce-gabbana-stop-the-killer-jeans)

 

 


somyot2

(2011) Somyot davanti alla corte per lesa maestà. Prossima udienza il 12 settembre

somyot2Lunedì scorso 25 luglio, dopo 84 giorni di detenzione, Somyot Pruksakasemsuk è stato condotto dinnanzi al tribunale penale per ascoltare le accuse che gli vengono rivolte dal pubblico ministero. Tali accuse si riferiscono a degli articoli scritti sotto il nome di Jitra Polchan e pubblicati sul magazine “Voice of Thaksin” nel febbraio e marzo 2010. Somyot è stato un redattore di questa rivista finché non è stata chiusa lo scorso anno. Somyot è stato accusato per la pubblicazione e la distribuzione della rivista contenete gli articoli, presumibilmente in violazione della norma di lesa maestà.

La corte ha fissato per lunedì 12 settembre 2011 l’audizione pre-processuale. Secondo casi passati di accuse di lesa maestà, Somyot rischia 6 anni di carcere se si dichiara colpevole e 12 se si dichiara non colpevole. Il suo avvocato presenterà un’altra richiesta di cauzione la prossima settimana.