Palestina: dichiarazione degli attivisti per un lavoro dignitoso contro l’apartheid
Come sindacalisti, attivisti e organizzatori di campagne del settore dell’abbigliamento impegnati contro l’ingiustizia, il razzismo e l’illegittimità del colonialismo, non accettiamo di stare in disparte e assistere inermi alla brutalità attuata dal colonialismo occupante. E’una questione di diritto alla terra e di autodeterminazione.
La colonizzazione della Palestina da parte di Israele è avvenuta, e continua ad avvenire, per mezzo dell’apartheid, della pulizia etnica e del genocidio.
PERCHÉ QUESTO TEMA RIGUARDA L’INDUSTRIA DELLA MODA?
Lo sfruttamento nel settore dell’abbigliamento affonda le proprie radici in pratiche affaristiche che si basano sul lavoro non pagato in tutto il Sud globale. Il che perpetua l’eredità coloniale che si fonda sulla costante estrazione di ricchezza da parte del capitale a spese delle comunità che non hanno la pelle bianca.
Le pratiche di sfruttamento attuate nell’industria dell’abbigliamento in Palestina illustrano chiaramente la dura realtà dei lavoratori sotto occupazione israeliana. Le industrie manifatturiere di Israele appaltano la produzione a Gaza dove i lavoratori sono pagati molto meno dei loro colleghi israeliani di pari qualifica. Le industrie manifatturiere israeliane approfittano dell’alto tasso di disoccupazione presente a Gaza, per costringere i lavoratori ad accettare qualsiasi salario e qualsiasi condizione di lavoro.
Il che mostra come nell’industria dell’abbigliamento la questione razziale sia intrinsecamente connessa al capitalismo e come esso operi attraverso metodi coloniali. Le imprese israeliane traggono profitti dal crollo dei salari dei palestinesi e dalla loro condizione di popolo sottomesso
L’attività tessile della Palestina, un tempo fiorente, è stata duramente colpita dalle pratiche messe in atto dall’occupazione. Fra le tante difficoltà citiamo i ritardi nelle consegne dovute agli innumerevoli posti di blocco nei territori occupati, mentre l’assedio in corso a Gaza impedisce l’approvvigionamento di semilavorati e la fornitura di energia elettrica.
Di conseguenza, per poter sopravvivere, i proprietari dei laboratori sono costretti a fare scelte pesanti, compresa la riduzione dei salari. A tutto vantaggio dei marchi committenti che traggono beneficio dalla colonizzazione della Palestina attraverso pratiche illegittime come:
- L’approvvigionamento di prodotti finiti presso laboratori situati nei territori sequestrati e occupati illegalmente;
- L’apertura di negozi a marchio proprio su territori sequestrati e occupati illegalmente;
- La stipula di contratti che danno legittimità alla nascita di nuovi insediamenti illegali nel territorio palestinese (vedi ad esempio la pagina del movimento BDS su PUMA)
Aderendo alle richieste di solidarietà internazionale lanciate dai Palestinesi di Gaza, e non solo, chiediamo:
- Un immediato cessato il fuoco e la fine dei bombardamenti di Gaza;
- Il ripristino immediato delle forniture a Gaza, dei beni essenziali e degli aiuti umanitari;
- La fine degli ordini di evacuazione degli ospedali di Gaza da parte di Israele;
- La cessazione dell’invasione di Gaza;
- La fine delle esportazioni di armi e di tecnologie militari, nonché del sostegno economico ad Israele da parte dell’Occidente;
- La fine dell’occupazione illegale della Palestina.
In risposta all’appello lanciato dai sindacati Palestinesi che chiedono di intraprendere un’azione internazionale contro le imprese che si rendono complici dell’assedio brutale e illegale di Israele, noi ci impegniamo a:
- Prendere posizione pubblica e agire contro le imprese della moda che profittano dell’occupazione israeliana in Palestina;
- Prendere posizione pubblica e agire contro la produzione, trasporto e gestione di vestiario destinato al personale Israeliano impegnato nell’occupazione della Palestina, in particolare divise per poliziotti e guardie carcerarie.
Salari in Bangladesh: ignorate le richieste dei lavoratori
Il governo del Bangladesh propone un nuovo salario minimo di 12.500 BDT (105 euro) al mese, ignorando le richieste disperate dei lavoratori.
Martedì 7 novembre, il ministero del Lavoro del Bangladesh ha proposto un nuovo salario minimo per i 4,4 milioni di lavoratori e lavoratrici tessili del Paese, pari a 12.500 BDT (105 euro). L'importo è di gran lunga inferiore alla richiesta sindacale di 23.000 BDT, un salario che gli studi confermano essere il minimo necessario per assestarsi al di sopra della soglia di povertà.
Il nuovo salario minimo condannerebbe ancora una volta i lavoratori a una lotta per la sopravvivenza: dovrebbero continuare a fare affidamento sui guadagni ottenuti con turni extra (oltre alle normali 48 ore settimanali), sui prestiti e sul fatto di saltare i pasti per risparmiare. I salari miseri sono anche il motivo principale per cui i genitori si trovano talvolta costretti a chiedere ai figli di lavorare.
Il processo di determinazione dei salari, estremamente poco trasparente e parziale, è stato portato a termine dopo settimane di disordini. I lavoratori di tutto il Paese hanno iniziato a protestare dopo che il mese scorso la BGMEA aveva proposto di aumentare il salario minimo ad appena 10.400 BDT. Almeno 3 lavoratori sono stati uccisi durante le proteste, mentre decine sono rimasti feriti a causa delle violenze da parte della polizia con gas lacrimogeni, proiettili di gomma e munizioni vere. Sono state avviate cause contro i lavoratori che hanno protestato, sollevando serie preoccupazioni per gli arresti repressivi. L'annuncio di ieri potrebbe scatenare ulteriori disordini nella capitale.
I proprietari delle fabbriche del Bangladesh affermano di non potersi permettere un salario minimo superiore a 12.500 BDT, e alcuni sostengono che questo salario potrebbe addirittura mettere fuori mercato alcuni sub-fornitori. Sono gli acquirenti - i marchi internazionali della moda - a dettare i prezzi nel settore. In linea di principio, i loro prezzi di acquisto dovrebbero sempre consentire ai proprietari delle fabbriche di pagare ai lavoratori un salario dignitoso. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, i prezzi pagati dai marchi sono appena sufficienti a pagare i salari minimi di povertà.
Nonostante i numerosi appelli della Clean Clothes Campaign affinché gli acquirenti internazionali appoggiassero esplicitamente la richiesta sindacale di un salario minimo di 23.000 BDT e assicurassero ai fornitori che avrebbero aumentato i loro prezzi in base all'aumento del costo del lavoro, tutti i marchi, tranne uno, si sono rifiutati di farlo*.
Molti marchi che si riforniscono in Bangladesh, tra cui H&M, Next, C&A, Uniqlo e M&S, si sono impegnati da tempo a rispettare il salario dignitoso. Tuttavia, nel momento più cruciale in cui avrebbero potuto usare la loro grande influenza per garantire che i loro lavoratori non vivano in povertà, non hanno agito, dimostrando l’inconsistenza dei loro impegni in materia di salario dignitoso.
Il Primo Ministro non ha ancora implementato il nuovo salario. Spetta ora a questi marchi garantire che i lavoratori della loro catena di fornitura guadagnino almeno 23.000 BDT, che non è ancora un salario dignitoso, ma il minimo indispensabile per sbarcare il lunario.
I sindacati del Bangladesh, proprio come cinque anni fa, hanno sollevato aspre critiche sull'integrità del processo di determinazione dei salari. Chiedono revisioni annuali, anziché una volta ogni cinque anni, e che il referente dei lavoratori nel comitato salariale sia scelto tra i sindacati più rappresentativi. In questa e nelle precedenti trattative, denunciano, questa norma è stata disattesa nominando un referente "favorevole" agli interessi dei datori di lavoro e del governo. Infine, fanno notare come la loro proposta di 23.000 BDT sia coerente con i criteri previsti dalla legge sul lavoro del Paese (il Bangladesh Labor Act) e dagli standard internazionali (la Convenzione 131 dell'OIL sulla determinazione del salario minimo), diversamente dalla proposta dei datori di lavoro.
* Patagonia è stato l'unico marchio a sostenere esplicitamente la richiesta sindacale di 23.000 Taka, ma non si è impegnata ad aumentare i prezzi che avrebbe pagato al suo fornitore. Altri marchi hanno appoggiato vagamente le richieste di aumento dei salari, ma si sono rifiutati di sostenere esplicitamente la richiesta sindacale di 23.000 Taka o di impegnarsi ad aumentare i prezzi di acquisto.
(2023) REPORT: I voli dannosi della fast fashion
Con migliaia di tonnellate di capi trasportati in aereo, la società madre di Zara, Inditex, e i negozi online come Shein stanno aggravando la crisi climatica
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Condanniamo la repressione contro i lavoratori che protestano per l'aumento dei salari in Bangladesh
La Clean Clothes Campaign (CCC) condanna fermamente la violenta repressione in Bangladesh dei lavoratori tessili che chiedono un aumento salariale a 23.000Tk (193 euro) e invita il governo del Paese a garantire immediatamente il rispetto del diritto dei lavoratori a manifestare. Siamo solidali con tutti coloro che piangono la scomparsa di Rasel Hawlader, operaio colpito da un proiettile durante una protesta.
Mentre pubblichiamo questa dichiarazione, è stato confermato che almeno un'altra persona ha perso la vita durante i disordini, anche se la sua identità e le circostanze sono ancora in attesa di chiarimenti. È chiaro che la repressione sta raggiungendo livelli senza precedenti. Mentre i lavoratori e le lavoratrici rischiano la vita per dare voce alle loro rivendicazioni, i marchi che si riforniscono in Bangladesh si rifiutano di sostenere le loro richieste nelle trattative salariali, legittimando così l'ambiente antidemocratico in cui avviene la revisione salariale.
Le proteste a Gazipur sono iniziate la settimana scorsa, dopo che la Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association (BGMEA) ha presentato la sua proposta di fissare il nuovo salario minimo nel settore dell'abbigliamento a 10.400Tk (87 euro), meno della metà della richiesta dei sindacati di 23.000Tk (193 euro). L'esigua proposta dei datori di lavoro dimostra ancora una volta quanto le legittime aspirazioni dei lavoratori e delle lavoratrici non vengano per nulla prese in considerazione, nonostante siano in linea con i criteri prescritti dalla Legge sul lavoro del Bangladesh e dalla Convenzione 131 dell'OIL in tema di salario minimo.
Le proteste di Gazipur si stanno diffondendo in altre aree del Bangladesh. L'uccisione di Rasel Hawlader testimonia la durezza della repressione nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici. Siamo preoccupati che si ripetano le pesanti ritorsioni già avvenute 5 anni fa proprio durante l'ultima revisione salariale.
Chiediamo al governo del Bangladesh di porre immediatamente fine alla violenza usata contro i lavoratori, che hanno il diritto di manifestare secondo la legge del Bangladesh, e di smettere di politicizzare le proteste salariali, riconoscendo invece le agitazioni come una reazione diretta all'oltraggiosa proposta della BGMEA, che semplicemente intrappolerebbe i lavoratori nella povertà per altri cinque anni, a prescindere dal panorama politico del Bangladesh.
Anche i marchi che si riforniscono nel Paese hanno un ruolo innegabile nei recenti sviluppi. La maggior parte si è rifiutata di rilasciare una dichiarazione pubblica a sostegno della richiesta dei sindacati di 23.000Tk, ignorando diverse sollecitazioni in tal senso da parte dei sindacati e della Clean Clothes Campaign. Nonostante i loro codici di condotta e gli impegni assunti nei confronti di meccanismi di determinazione di salari trasparenti e inclusivi, la maggior parte non è riuscita a garantire che la voce dei lavoratori fosse ascoltata durante le negoziazioni salariali.
Chiediamo quindi a tutti i marchi che si riforniscono in Bangladesh di condannare immediatamente la violenza usata contro i lavoratori che chiedono un salario minimo di 23.000Tk, di confermare il loro impegno per un prezzo equo, di chiedere che le rivendicazioni dei lavoratori e dei sindacati indipendenti siano ascoltate dal Comitato per i salari e di garantire che il diritto dei lavoratori alla libertà di associazione sia protetto.
Siamo solidali con gli amici e la famiglia di Rasel Hawlader e con i parenti del lavoratore la cui identità non è ancora stata confermata. Siamo solidali con tutti i lavoratori e le lavoratrici che mettono a rischio la propria vita nell'esercizio del proprio diritto alla libertà di associazione.
GenovaJeans: la nostra audizione in Consiglio Comunale
Stamattina (30 Ottobre) siamo stati auditi dalle COMMISSIONI IV - PROMOZIONE DELLA CITTA' e COMMISSIONE VI - SVILUPPO ECONOMICO del Comune di Genova, riunite in seduta congiunta per discutere dei costi e delle ricadute sulla città della iniziativa Genova Jeans, la kermesse dedicata al denim con un programma ambizioso ma del tutto privo di contenuti sociali (come se fosse possibile parlare di Jeans sostenibili senza dare voce alle istanze e alle proposte di chi li produce, dal campo al confezionamento, spesso per paghe da fame e in condizioni insicure) terminata lo scorso 8 ottobre.
Costi che, nonostante le ripetute richieste formali dei consiglieri di minoranza di avere accesso al bilancio preventivo, non sono mai stati resi noti. Fino ad oggi, quando l’assessore al Bilancio nonché Vice Sindaco Pietro Piciocchi, ha comunicato in aula VERBALMENTE i dati, provvisori. Li riportiamo qui, dai nostri appunti presi in aula:
- Costi a carico del Comune di Genova: ca. 620mila euro, suddivisi in:
- Strategia e coordinamento - 100mila euro
- Hub, talk, collettive - 140mila euro
- Accoglienza - 50mila euro
- Eventi edutainment - 100mila euro
- Allestimenti via del jeans e lab - 60mila euro
- Comunicazione e promozione - 170mila euro
- San Paolo: 50mila euro
- ICE: 300mila euro
Costo complessivo evento: ca. 1 milione di euro
EVENTO: Contro le pratiche commerciali sleali e il lavoro povero nella moda
Quando acquistiamo un abito, una borsa o l’ennesimo paio di scarpe a poco prezzo, ci chiediamo chi ne paghi le conseguenze? C’è da dire che anche comprando un prodotto di lusso non siamo sicuri che siano garantiti diritti, sicurezza e un salario giusto ai lavoratori che lo producono. Ciò avviene nel caso di produzioni internazionali ma anche il made in Italy non sfugge a certe logiche.
Ma quali sono le cause del generale impoverimento del settore moda? E quali le possibili soluzioni per una transizione giusta e inclusiva?
Ne parliamo con i protagonisti del mondo del lavoro, delle imprese, dell’attivismo e degli Enti Locali a partire da due recenti ricerche di Clean Clothes Campaign / Fair Trade Advocacy Office e di CNA Federmoda che affrontano il tema cruciale dei rapporti di potere nelle catene di fornitura in Italia.
Saluti introduttivi: Stefania Gasparini - Vicesindaca Comune Carpi
Intervengono: David Cambioli - Equo Garantito, Deborah Lucchetti - Fair/Campagna Abiti Puliti, Paolo Pernici - CNA Federmoda Toscana, Gaetano Aiello - Università di Firenze, Daniele Dieci - CGIL Modena, Cristina Cotorobai- attivista, content creator, Vincenzo Colla - Assessore Regione Emilia Romagna
Modera: Giulia Bosetti, giornalista RAI
Al termine aperitivo sostenibile
Vi aspettiamo il 4.10 alle 17:00 in Via San Rocco 1 - Carpi
PRENOTA IL TUO POSTO: https://www.eventbrite.com/e/biglietti-contro-le-pratiche-commerciali-sleali-e-il-lavoro-povero-nella-moda-722606133397
La Clean Clothes Campaign sostiene i sindacati del Bangladesh nella loro richiesta di aumento del salario minimo di 23.000Tk
Per la prima volta dopo cinque anni il governo del Bangladesh ha formato una commissione salariale per la revisione del salario minimo del settore tessile del Paese, che impiega circa 4 milioni di lavoratori e lavoratrici. L'attuale salario minimo di 8.000 taka (circa 74 dollari) era già insufficiente per una vita dignitosa quando è entrato in vigore nel 2019. Da allora, i lavoratori e le lavoratrici hanno dovuto sopportare l'ulteriore pressione della pandemia di Covid-19 e il conseguente rialzo dell’inflazione senza vedere il loro salario aumentare.
La nuova richiesta di un salario minimo di 23.000 taka (212 USD) è stata calcolata sulla base di un ampio studio sul costo della vita condotto dall'Istituto per gli studi sul lavoro del Bangladesh ed è stata sostenuta all'unanimità dai sindacati del Paese e dal sindacato globale IndustriALL. I partner della CCC in Bangladesh non hanno seggi nel Comitato salariale, e nemmeno altri sindacati indipendenti, ma organizzeranno azioni di campagna locali per dare voce a questa richiesta.
La revisione del salario minimo di quest'anno avviene in un momento difficile per il movimento per i diritti dei lavoratori del Bangladesh. Il recente omicidio del sindacalista Shahidul Islam ci ricorda l'ambiente incredibilmente repressivo in cui si svolgono le trattative salariali. In passato, le revisioni del salario minimo hanno portato a una quantità sconvolgente di disordini. Nel 2018 un lavoratore è stato ucciso, decine sono rimasti feriti e migliaia hanno perso il lavoro. La Clean Clothes Campaign è solidale con i sindacati del Bangladesh che lottano per un salario minimo più alto e più giusto. Esortiamo tutte le parti coinvolte a rispettare il diritto dei sindacati di condurre campagne pacifiche e collettive per le loro richieste salariali.
Note:
- Rapporto di gennaio 2023 sulla condizione del lavoro tessile in Bangladesh: https://femnet.de/images/downloads/textilbuendnis/Mind_the_Gap_Decent_Work_Report_on_RMG_workers_in_Bangladesh_26-6-23.pdf
- Fact sheet del rapporto: https://femnet.de/images/downloads/textilbuendnis/BILS_Policy_Brief_RMG_Wage.pdf
Sfruttamento mondiale: Adidas e Nike #PayYourWorkers
MAIL BOMBING AD ADIDAS
COMPILA IL FORM CON I TUOI DATI PER MANDARE SUBITO UNA MAIL AI VERTICI DELL'AZIENDA
In Australia e Nuova Zelanda si disputano i Mondiali di Calcio Femminile 2023.
ADIDAS ha lanciato la sua campagna con lo slogan "Play Until They Can't Look Away". Quando tutto il mondo vi guarda, giocate finché non riusciranno a distogliere lo sguardo.
"Vogliamo ispirare anche la prossima generazione a perseguire il proprio sogno e spingerle verso nuove possibilità" sono le parole d'ordine.
Davvero?? Per questo Adidas ha sottratto 11,7 milioni di dollari in salari non pagati alle lavoratrici cambogiane? Quando le lavoratrici hanno protestato e sono state arrestate, verso quali "possibilità" le stavate spingendo?
Adidas e i suoi fornitori derubano le lavoratrici anche quando le licenziano: alle operaie della fabbrica Hulu Garment in Cambogia, licenziate nel 2020, non sono mai stati pagati 1,1 milioni di dollari di indennità di licenziamento, come previsto dalla legge.
Lo schema è chiaro. Quando le lavoratrici si esprimono per migliorare le loro condizioni, subiscono intimidazioni, discriminazioni e ritorsioni. Quando si organizzano, adidas dà la priorità ai suoi profitti e antepone il profitto alle persone, ogni volta. Adidas ha derubato le lavoratrici, sta ancora rubando e continuerà a farlo a meno che non si sieda al tavolo per negoziare un accordo.
Lo slogan corretto sarebbe "PAY Until They Can't Look Away"...
MAIL BOMBING
A NIKE E MATALAN
COMPILA IL FORM CON I TUOI DATI PER MANDARE SUBITO UNA MAIL AI VERTICI DELLE DUE AZIENDE
Tra i principali sponsor tecnici dei Mondiali di calcio femminile c’è Nike. Milioni di dollari usati per pubblicizzare il proprio impegno a favore dello sport, sottratti alle lavoratrici che producono i loro capi.
Come le operaie della Hong Seng Knitting in Thailandia: quando la fabbrica è stata temporaneamente chiusa durante la pandemia, la legge imponeva di pagare alle lavoratrici parte del loro salario. Invece, sono state costrette ad accettare permessi non retribuiti, un furto salariale di oltre 800.000 dollari.
O come le lavoratrici della Ramatex, in Cambogia, di cui Nike è il principale cliente: 1284 persone licenziate senza una valida ragione e lasciate senza stipendio. Ora Nike e Ramatex, nonostante le leggi cambogiane sul lavoro e nonostante il Codice di Condotta della stessa Nike, si rifiutano di pagare a queste operaie ciò che è loro legalmente dovuto in termini di indennità di licenziamento e danni: 1,4 milioni di dollari.
Chiediamo a Nike di assumersi le sue responsabilità: #PayYourWorkers #RespectLabourRights
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Per i Mondiali di calcio femminile in Australia e Nuova Zelanda @adidaswomen ha lanciato la sua campagna con lo slogan "Play Until They Can't Look Away". Quando tutto il mondo vi guarda, giocate finché non riusciranno a distogliere lo sguardo.
"Vogliamo ispirare anche la prossima generazione a perseguire il proprio sogno e spingerle verso nuove possibilità" sono le parole d'ordine.
Davvero?? Per questo Adidas ha sottratto 11,7 milioni di dollari in salari non pagati alle lavoratrici cambogiane? Quando le lavoratrici hanno protestato e sono state arrestate, verso quali "possibilità" le stavate spingendo?
Adidas e i suoi fornitori derubano le lavoratrici anche quando le licenziano: alle operaie della fabbrica Hulu Garment in Cambogia, licenziate nel 2020, non sono mai stati pagati 1,1 milioni di dollari di indennità di licenziamento, come previsto dalla legge.
Lo schema è chiaro. Quando le lavoratrici si esprimono per migliorare le loro condizioni, subiscono intimidazioni, discriminazioni e ritorsioni. Quando si organizzano, adidas dà la priorità ai suoi profitti e antepone il profitto alle persone, ogni volta. Adidas ha derubato le lavoratrici, sta ancora rubando e continuerà a farlo a meno che non si sieda al tavolo per negoziare un accordo.
Lo slogan corretto sarebbe "PAY Until They Can't Look Away"...
#PayYourWorkers #RespectLabourRights
Tra i principali sponsor tecnici dei Mondiali di calcio femminile in Australia e Nuova Zelanda c’è @Nike. Milioni di dollari usati per pubblicizzare il proprio impegno a favore dello sport, sottratti alle lavoratrici che producono i loro capi.
Come le operaie della Hong Seng Knitting in Thailandia: quando la fabbrica è stata temporaneamente chiusa durante la pandemia, la legge imponeva di pagare alle lavoratrici parte del loro salario. Invece, sono state costrette ad accettare permessi non retribuiti, un furto salariale di oltre 800.000 dollari.
O come le lavoratrici della Ramatex, in Cambogia, di cui Nike è il principale cliente: 1284 persone licenziate senza una valida ragione e lasciate senza stipendio. Ora Nike e Ramatex, nonostante le leggi cambogiane sul lavoro e nonostante il Codice di Condotta della stessa Nike, si rifiutano di pagare a queste operaie ciò che è loro legalmente dovuto in termini di indennità di licenziamento e danni: 1,4 milioni di dollari.
Chiediamo a Nike di assumersi le sue responsabilità: #PayYourWorkers #RespectLabourRights
Sul salario minimo finalmente una proposta unitaria, ma 9 euro lordi non bastano
Finalmente le opposizioni hanno trovato la quadra sul salario minimo. Questa è una buona notizia. Nel merito l’accordo converge sui 9 euro lordi unitamente a diverse altre proposte, su cui val la pena soffermarsi.
Partiamo dalle note positive. Oltre alla premessa sempre più condivisa anche nel mondo sindacale che riconosce la necessità di intervenire per legge a riequilibrare un sistema di relazioni industriali evidentemente asimmetrico che ha portato negli anni ad un progressivo impoverimento dei lavoratori italiani, molto importante è l’estensione del trattamento economico complessivo previsto dai migliori CCNL a tutti i lavoratori, indipendentemente dallo status contrattuale e inclusi dunque gli autonomi e i parasubordinati, perché qualunque legge sul salario minimo deve costituire un rafforzamento della contrattazione collettiva, garanzia di istituti e diritti non solo monetari. Bene anche la previsione di istituire una Commissione composta da rappresentanti istituzionali e dalle parti sociali che avrebbe come compito principale quello di aggiornare periodicamente il trattamento economico minimo orario, a patto però che ciò non diventi un ostacolo all’effettivo e periodico aggiornamento del salario minimo rispetto all’indice dei prezzi al consumo, senza dimenticare anche l’adeguamento della composizione del paniere.
Decisamente non condivisibile invece è l’idea di sussidiare con contributi pubblici le imprese che non riescono ad adeguarsi al nuovo trattamento minimo. Questo è inaccettabile, visto che qui stiamo parlando di quel livello minimo che dovrebbe consentire ai lavoratori di vivere dignitosamente con la propria famiglia, mandando i figli a scuola, pagando affitto e utenze domestiche per una casa decente, oltre a procurare vestiario e cibo di qualità e quantità sufficiente, possibilmente non prodotto sottocosto sulla pelle di altri lavoratori, in genere migranti. Un salario che dovrebbe consentire a tutti i lavoratori di riparare l’auto o la lavatrice, se necessario, andare dal dentista o fare un esame diagnostico urgente, se i tempi biblici del (fu) Servizio Sanitario Nazionale rischiano di compromettere cure salvavita, di andare in ferie, al cinema, a un concerto. Di questo stiamo parlando, non di vezzi, sprechi o lussi. Se un’ impresa non è nelle condizioni di garantire questo livello salariale a tutti i suoi dipendenti e collaboratori, probabilmente le considerazioni da fare sono altre e più complessive sullo stato di salute dell’economia italiana.
Le imprese che non possono garantire questo livello minimo a tutti i dipendenti, o sono imprese nate e pasciute sullo sfruttamento endemico del lavoro povero, perciò disfunzionali al mantenimento di un tessuto produttivo sano, sostenibile e innovativo o sono fornitori di marchi committenti che accumulano ingenti profitti ed extra-profitti, alla base della inflazione fuori controllo i cui costi sono pagati, ancora una volta, da lavoratori e lavoratrici.
I soldi per pagare il salario minimo devono arrivare da qui, da una diversa distribuzione del valore accumulato lungo le catene di fornitura, per una grande operazione di giustizia distributiva, ovvero di restituzione dall’alto verso il basso (le PMI e i lavoratori). È qui, entro relazioni commerciali di filiera (nel privato e nel pubblico) fondate su pratiche e prezzi di acquisto equi, che si devono cercare le risorse per garantire un salario dignitoso a tutti quelli che lavorano mandando avanti l’economia italiana in tutti i settori, da quelli essenziali come la cura, fino al turismo e alla moda.
Veniamo adesso ai 9 euro lordi ma prima chiariamoci sulle parole.
Se si vuole assicurare il diritto di ogni lavoratore,”ad una retribuzione sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”, allora con 9 euro lordi non si va lontano.
Secondo i nostri calcoli pubblicati nel 2022, cifra oggi superata dalla fiammata inflattiva che in due anni ha ulteriormente eroso almeno del 15% salari da 30 anni in caduta libera (i peggiori d’Europa), il valore del salario che rispetti il dettato costituzionale dovrebbe essere di almeno 1.905 euro netti al mese, cioè 11 euro netti all’ora. Sono calcoli fondati su un metodo solido, semplice e comprensibile a chiunque, perché ancorato alla materialità del costo della vita, numeri che i lavoratori conoscono a menadito, lottando ogni giorno con il bilancio familiare in bilico.
La proposta
1. al lavoratore di ogni settore economico sia riconosciuto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative, salvo restando i trattamenti di miglior favore;
2. a ulteriore garanzia del riconoscimento di una giusta retribuzione, venga comunque introdotta una soglia minima inderogabile di 9 euro all’ora, per tutelare in modo particolare i settori più fragili e poveri del mondo del lavoro, nei quali è più debole il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali;
3. la giusta retribuzione così definita non riguardi solo i lavoratori subordinati, ma anche i rapporti di lavoro che presentino analoghe necessità di tutela nell’ambito della parasubordinazione e del lavoro autonomo;
4. conformemente anche a quanto previsto nella direttiva sul salario minimo, sia istituita una Commissione composta da rappresentanti istituzionali e delle parti sociali comparativamente più rappresentative che avrà come compito principale quello di aggiornare periodicamente il trattamento economico minimo orario;
5. sia disciplinata e quindi garantita l’effettività del diritto dei lavoratori a percepire un trattamento economico dignitoso;
6. sia riconosciuta per legge l’ultrattività dei contratti di lavoro scaduti o disdettati;
7. sia riconosciuto un periodo di tempo per adeguare i contratti alla nuova disciplina, e un beneficio economico a sostegno dei datori di lavoro per i quali questo adeguamento risulti più “oneroso”.
Lasciamo agli esperti i conti sul lordo necessario a garantire questa cifra che le persone devono capire al volo, senza avere necessariamente una laurea in economia per leggere le buste paga, quando ci sono. Per questo il salario minimo, a nostro avviso, deve essere un valore netto.
Quanti contratti collettivi, non solo quelli c.d. pirata siglati da organizzazioni di comodo, hanno minimi tabellari al di sotto di questa soglia?
Probabilmente molti anche se, e ciò è tremendamente importante, interviene il famoso trattamento economico complessivo e, ove possibile, la contrattazione integrativa a correggere paghe base a volte troppo basse. Per chi ne gode ovviamente, perché poi i contratti sappiamo che non valgono per tuttə e non basta siglarli, bisogna anche farli applicare. Per questo è fondamentale non ostacolare la libertà di associazione sindacale e rafforzare l’Ispettorato Nazionale del Lavoro per combattere la piaga dilagante del lavoro nero e dell’evasione contributiva e fiscale. Tuttavia tale necessario rafforzamento non sembra essere in testa all’agenda della Ministra del Lavoro Calderone. Nè la garanzia dell'esercizio dei diritti sindacali fondamentali, come dimostrano le stucchevoli azioni repressive esercitate nei confronti di sindacalisti e lavoratori stranieri sfruttati nella catena degli appalti made in Italy al servizio di Mondo Convenienza, da oltre 35 giorni in sciopero per chiedere il rispetto di diritti minimi, per citare un caso di attualità.
Per tutti gli altri e le altre, attualmente esclusi dalla platea dei beneficiari di rapporti di lavoro subordinato e che possono godere anche di contrattazione di secondo livello, 9 euro lordi, più o meno 7 euro e spicci, sono pari a circa 1.280 euro netti al mese*, troppo pochi per vivere con dignità, anche se al di sopra della soglia di povertà lavorativa stabilita dall’Istat per il 2022 pari a 11.155 euro. Per questo è cruciale sia l’estensione erga omnes del trattamento economico complessivo previsto dai migliori CCNL con istituti fondamentali come malattia, maternità TFR, 13ma e 14ma, sia aumentare la soglia del livello minimo.
Ma da dove nasce il valore di 9 euro lordi?
I parametri convenzionali situano la soglia di povertà al di sotto del 60% del salario mediano lordo oppure del 50% del salario medio lordo del paese di riferimento. Per l'Italia la media fra questi parametri corrisponde a circa 9 euro, considerando i dati INPS più recenti per chi ha continuità lavorativa.
Il problema è che in un paese con redditi da lavoro in picchiata libera da 30 anni come l’Italia, i valori medi o mediani rischiano di condannare milioni di lavoratori alla povertà. Questa è la critica che come Clean Clothes Campaign abbiamo sollevato a livello europeo in merito alla Direttiva sui salari adeguati con particolare riferimento ai Paesi dell’Europa Sud-Orientale. La garanzia di una esistenza libera e dignitosa per definizione non può essere subalterna alle logiche di mercato e deve invece rimanere ancorata ai bisogni reali dei lavoratori e delle loro famiglie. Per questo il costo della vita dovrebbe essere incluso tra i parametri chiave per attribuire il giusto valore al salario minimo, ciò che abbiamo provato a fare con la nostra proposta.
Un esercizio che suggeriamo ai partiti dell'opposizione di fare prima di depositare la proposta di legge unitaria che, nonostante le convinzioni in senso contrario della Ministra del Lavoro, è necessario che diventi presto oggetto di un genuino processo parlamentare.
*considerando una settimana di lavoro standard di 40 ore e 52 settimane all’anno (per chi ha continuità lavorativa) senza beneficio riduzione cuneo fiscale in vigore fino a dicembre 2023
Bangladesh: La Clean Clothes Campaign condanna l'uccisione del sindacalista Shahidul Islam
La Clean Clothes Campaign (CCC) ha appreso con sgomento la terribile notizia del brutale assassinio di Shahidul Islam, leader sindacale picchiato a morte per il suo attivismo per i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici a Tongi, Gazipur, Bangladesh. Membro della Bangladesh Garment and Industrial Workers Federation (BGIWF) per 25 anni, ha lottato per i diritti dei lavoratori come promotore sindacale ed è morto combattendo per le sue convinzioni. Desideriamo porgere le nostre sincere condoglianze alla sua famiglia, ai suoi amici e ai suoi compagni in lutto.
Il governo del Bangladesh dovrebbe indagare immediatamente e in modo imparziale sull'omicidio di Shahidul Islam e intraprendere azioni punitive contro gli autori di questo orrendo assassinio.
Shahidul, presidente del comitato distrettuale di Gazipur della BGIWF, e i suoi colleghi sono stati aggrediti dopo aver lasciato l'incontro con la direzione della fabbrica Prince Jacquard Sweaters Ltd promosso per aiutare i lavoratori a riscuotere le gratifiche e i salari dovuti. La dirigenza della fabbrica, infatti, si era rifiutata di adempiere ai propri doveri nonostante l'ufficio del vice commissario (DC) del distretto di Gazipur le avesse ordinato di pagare gli stipendi ai lavoratori e alle lavoratrici.
In base ai dati sulle importazioni, i marchi T.K. Maxx, Tessival, Global Fashion Icon, N.E Brands LCC, Suzy's Inc, RD Style e New Yorker sembrano rifornirsi dalla Prince Jacquard Sweaters Ltd. Stati Uniti, Canada, Italia, Spagna e Danimarca sono le principali aree di esportazione. La CCC sta raccogliendo in queste ore ulteriori dati sugli acquirenti dello stabilimento.
Quando hanno lasciato l'incontro, Shahidul e gli altri rappresentanti sindacali sono stati avvicinati da un gruppo che li ha aggrediti, prendendo ferocemente a pugni e a calci Shahidul e lasciandolo privo di sensi e gravemente ferito. È stato dichiarato morto in un ospedale vicino. Questa orrenda violenza rappresenta un'immensa perdita per il movimento sindacale del Bangladesh.
Gli altri rappresentanti hanno ricevuto cure mediche ma non sono stati ricoverati.
Kalpona Akter, presidente della BGIWF, ha dichiarato: "Shahidul ha convinto migliaia di lavoratori e lavoratrici ad aderire ai sindacati, mettendoli in grado di diventare solidi leader a livello di fabbrica. Nel corso della sua vita, ha aiutato migliaia di lavoratori a ricevere gli arretrati e le indennità di licenziamento ingiustamente negate dai loro datori di lavoro. Con i bisogni dei lavoratori sempre in mente, Shahidul e altri tre rappresentanti si sono incontrati la sera della sua morte per discutere una risoluzione pacifica di una disputa salariale e del bonus per la festa di Eid-ul-Azha. Il suo contributo al movimento sindacale è stato notevole e ci mancherà molto".
Non è la prima volta che la BGIWF è vittima di un attacco così fatale. Undici anni fa, nell'aprile 2012, un altro leader operaio, Aminul Islam, fu torturato e ucciso. Anche Aminul faceva parte della BGIWF, un attore chiave nel movimento del Paese per la promozione dei diritti dei lavoratori.
Gli omicidi dei sindacalisti servono a reprimere la libertà di associazione in Bangladesh. Temiamo che, proprio come l'uccisione di Aminul nel 2012, l'omicidio di Shahidul Islam contribuisca ad intimidire lavoratori e lavoratrici, rendendo ancora più difficile per i leader sindacali il compito di organizzarsi. I lavoratori e le lavoratrici del Bangladesh sono sistematicamente repressi dai datori di lavoro che utilizzano gruppi criminali e sindacati gialli per terrorizzare coloro che promuovono sindacati democratici indipendenti.
Ineke Zeldenrust, coordinatrice internazionale di Clean Clothes Campaign, ha dichiarato: "La rete CCC si unisce a tutti coloro che piangono la perdita di Shahidul Islam. Siamo anche solidali con la BGIWF, con tutti coloro che lottano per esercitare i loro diritti alla libertà di associazione e con i molti lavoratori e membri dei sindacati che continuano a mettere a rischio la propria vita per difendere i diritti e la sicurezza dei lavoratori nelle fabbriche di tutto il Bangladesh".
Shahidul lascia una moglie malata di cancro e due figli. Era l'unico a mantenere tutta la famiglia.
Note:
- Maggiori informazioni sull'omicidio di Aminul Islam nel 2012
- Guarda la Timeline del Rana Plaza per vedere la storia della lotta per la libertà di associazione in Bangladesh
- La CCC sta attualmente confermando e raccogliendo dati sugli altri acquirenti che si riforniscono dalla Prince Jacquard Sweaters Ltd.
Lunga vita alla solidarietà internazionale: i lavoratori della Falc Est hanno vinto la loro prima battaglia.
Dopo due settimane di sciopero, venerdì 16 giugno è stato raggiunto un accordo che soddisfa le richieste dei lavoratori e delle lavoratrici. Inizia una nuova fase delle relazioni industriali e la Clean Clothes Campaign continuerà a monitorare il caso e a sostenere i lavoratori.
Dopo due settimane di sciopero e interruzione della produzione presso lo stabilimento Falc East di Knjaževac, in Serbia, il 16 giugno è stato raggiunto un accordo tra il sindacato Sloga e la direzione dell'azienda. L'accordo prevede un aumento del 10% dei salari a partire dal 19 giugno, oltre a un aumento dei buoni pasto e all'impegno a discutere un aumento degli incentivi a partire da settembre.
Si tratta di un'importante vittoria per i dipendenti di Falc East, filiale dell'italiana Falc e fornitore di prestigiosi marchi globali del lusso tra cui Balenciaga, Gucci (Gruppo Kering), Burberry e Hogan (Gruppo TODs), che da tempo lamentavano salari da fame, ulteriormente colpiti dalla crisi e dall'inflazione.
Circa l'80% dei lavoratori della fabbrica Falc East riceveva salari molto bassi, vicini alla soglia di povertà statistica per la Serbia, appena un terzo di quello che dovrebbe essere il salario di sussistenza per il 2021, come calcolato dall'European Floor Wage.
L'accordo è stato raggiunto grazie alla grande mobilitazione dei lavoratori e delle lavoratrici guidati dal sindacato Sloga, che hanno avuto la forza e il coraggio di esporsi, rinunciando a 11 giorni di salario per dimostrare l'insostenibilità della loro condizione. La coraggiosa lotta salariale dei lavoratori di Knjaževac è stata supportata da numerose organizzazioni della Clean Clothes Campaign che, oltre a firmare una dichiarazione pubblica di sostegno, hanno contattato i marchi clienti di Falc East affinché intervenissero per garantire una soluzione positiva alla vertenza salariale. Come stabilito dal diritto internazionale e come sarà presto introdotto nella direttiva sulla due diligence di sostenibilità delle imprese nei prossimi mesi, i marchi del lusso hanno la responsabilità di garantire che i lavoratori che producono i loro beni ricevano un salario dignitoso, un diritto umano fondamentale. Anche attraverso l'adozione di pratiche commerciali eque, tra cui il pagamento di prezzi adeguati.
Per lavoratori e lavoratrici che lottano ogni giorno per arrivare a fine mese, scioperare per undici giorni non è una scelta semplice. Per questo motivo la Clean Clothes Campaign ha deciso di avviare una campagna di raccolta fondi per contribuire a coprire gli 11 giorni di mancato guadagno dei 600 lavoratori e lavoratrici in sciopero. La stessa richiesta è stata fatta ai marchi internazionali del lusso, i veri datori di lavoro dei lavoratori della Falc East.
Chi desidera contribuire può farlo attraverso questa piattaforma: https://www.donacije.rs/projekat/podrska-radnicima-knjazevac/ .
La coraggiosa lotta dei lavoratori della Falc East è un esempio per tutti i lavoratori in Serbia e in Europa. La Campagna Abiti Puliti continuerà a sostenere questa e tutte le altre lotte per condizioni di lavoro dignitose nell'industria della moda globale, a partire dalla rivendicazione di salari dignitosi.
Sosteniamo la lotta salariale dei lavoratori della Falc East a Knjaževac in Serbia
Le organizzazioni della rete Clean Clothes Campaign hanno firmato la seguente lettera aperta in solidarietà con i lavoratori e le lavoratrici in sciopero della fabbrica Falc East in Serbia.
Scriviamo come organizzazioni parte dalla rete globale della Clean Clothes Campaign in solidarietà con i lavoratori e le lavoratrici in sciopero della fabbrica Falc East e della TU Sloga di Knjaževac, in Serbia.
Tenendo conto del divario tra i salari percepiti dai lavoratori e il costo reale della vita in Serbia, crediamo che i lavoratori e le lavoratrici della Falc East chiedano il minimo per sopravvivere alla crisi che stanno affrontando.
La fabbrica Falc East di Knjaževac è una delle filiali dell’italiana Falc Spa, che produce calzature per diversi marchi europei di lusso. Come rivelano i dati disponibili, la fabbrica di Knjaževac produce un milione di paia di scarpe all'anno generando enormi profitti, ma i lavoratori devono sopravvivere con salari da miseria.
Circa l'80% dei lavoratori e delle lavoratrici della fabbrica Falc East riceve un salario minimo, il che significa che il loro stipendio mensile è vicino alla soglia di povertà statistica per la Serbia, come definita dai calcoli dell'UE - SILC. Il salario minimo in Serbia è di 340 euro al mese, circa un terzo di quello che dovrebbe essere il salario dignitoso per il 2021, secondo quanto calcolato dallo Europe Floor Wage[1].
Quando i lavoratori della Falc East chiedono un aumento del 10% del salario netto, un modesto aumento degli incentivi e un aumento del ticket pasto inferiore a 50 centesimi, non chiedono altro che il minimo indispensabile.
Siamo organizzazioni della Clean Clothes Campaign, una rete globale di oltre 200 sindacati, organizzazioni per i diritti dei lavoratori e ONG che si dedicano al miglioramento delle condizioni di lavoro e all'emancipazione dei lavoratori dell'industria globale dell'abbigliamento. Insieme al sindacato Sloga, ai lavoratori e alle lavoratrici della Falc East valuteremo ulteriori azioni necessarie per sostenere la loro lotta per un salario dignitoso.
Solidarietà con i lavoratori della Falc East!
Firme (ordine alfabetico)
- achACT asbl, Belgium
- Buy Responsible Foundation, Poland
- Campagna Abiti Puliti, Italy
- Center for Alliance of Labor and Human Rights (CENTRAL), Cambodia
- Centre for the Politics of Emancipation, Serbia
- Center for Policies, Initiatives and Researches PLATFORMA, Moldova
- Clean Clothes Campaign, Turkey
- Collective for Social Interventions, Bulgaria
- Fair, Italy
- Gender Alliance for Development Center, Albania
- Gifu General Union, Japan
- Glasen Tekstilec, Macedonia
- Globalisation Monitor, Hong Kong
- Helsinki citizens’ Assembly Banja Luka, Bosnia and Herzegovina
- Hong Kong Retail, Commerce and Clothing Industry General Union, Hong Kong
- Hong Kong Women Workers' Association, Hong Kong
- Institute for Critique and Social Emancipation, Albania
- Korean House of International Solidarity, South Korea
- Kilusang Mayo Uno, Philippines
- Labour Action China, Hong Kong
- Labour Behind the Label, United Kingdom
- Mai Bine, Romania
- MADPET, Malaysia
- NaZemi, Czech Republic
- Novi Sindikat, Croatia
- Open Gate, North Macedonia
- Pro Ethical Trade, Finland
- Public Eye, Switzerland
- REDU, Romania
- Regional Industrial Trade Union, Croatia
- Roudou Soudan.Com NPO, Japan
- ROZA, Serbia
- Setem, Spain
- Schone Kleren Campagne, Netherlands
- Südwind, Austria
- Workers Hub for Change, Malaysia
- Zora, Association for Social, Cultural and Creative Development, Bosnia and Herzegovina
[1] Per maggiori informazioni sul benchmark calcolato dalla CCC: https://cleanclothes.org/file-repository/2022-july-background-paper-efw-update-final.pdf/view. Per la versione italiana si veda https://www.abitipuliti.org/report/2022-report-il-salario-dignitoso-e-un-diritto-universale/ .
Il Parlamento Europeo approva la Direttiva sulla Due Diligence di Sostenibilità delle Imprese
1 giugno 2023 - Oggi il Parlamento europeo ha approvato (366 voti a favore, 225 contrari, 38 astenuti) la propria posizione sulla Direttiva sulla Due Diligence di Sostenibilità delle Imprese (CSDDD). La Clean Clothes Campaign / Campagna Abiti Puliti chiede da anni che le aziende siano soggette ad obblighi di dovuta diligenza (due diligence) nei confronti delle proprie filiere, dunque ritiene che questo voto segni un passo importante nella direzione di affermare la responsabilità di impresa.
Un mese fa abbiamo commemorato il decimo anniversario del crollo dell'edificio Rana Plaza in Bangladesh, incidente che causò la morte di almeno 1.138 lavoratori e migliaia di feriti. Questa tragedia raccapricciante ha sconvolto la vita di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie. Ha portato l'attenzione mondiale sullo sfruttamento dilagante nell'industria dell'abbigliamento e sulla necessità di responsabilizzare le imprese. Nonostante le promesse di cambiamento, gli impegni volontari assunti dalle aziende non hanno apportato cambiamenti significativi nella vita dei lavoratori e delle lavoratrici dell'abbigliamento.
Negli ultimi anni, i lavoratori, i cittadini e la società civile di tutto il mondo hanno chiesto l’introduzione di normative che proteggessero i lavoratori e le lavoratrici, le comunità e l'ambiente in tutto il mondo e ritenessero le aziende responsabili dei propri impatti negativi.
Il testo approvato oggi dimostra che il Parlamento europeo valorizza il rispetto dei diritti umani e dell'ambiente in tutto il mondo. I membri del Parlamento europeo hanno in parte migliorato la proposta iniziale della Commissione europea e il successivo approccio generale del Consiglio su diversi elementi. Il testo richiede ora a un maggior numero di aziende di effettuare la due diligence lungo tutta la propria catena del valore, in conformità con gli standard internazionali delle Nazioni Unite e dell'OCSE. Le imprese dovranno prestare attenzione a una gamma più ampia di diritti umani e del lavoro, comprese le convenzioni dell'OIL sulla sicurezza e la salute sul lavoro e sulla violenza e le molestie nel mondo del lavoro, nonché il diritto a un salario di sussistenza. Alle aziende verrà chiesto di valutare come i loro modelli commerciali e le loro pratiche di prezzo possano causare danni, riconoscendo così il ruolo delle pratiche di acquisto sleali in molte violazioni. Le vittime di abusi aziendali vedranno inoltre eliminati alcuni degli ostacoli procedurali che devono affrontare per ottenere giustizia.
Ci rammarichiamo, tuttavia, che il Parlamento non abbia incluso la mappatura della catena del valore e la trasparenza tra gli obblighi di due diligence. Un processo completo di identificazione dei rischi dovrebbe includere la mappatura e la divulgazione dei singoli fornitori. Inoltre, nonostante gli innumerevoli rapporti sui fallimenti delle iniziative di audit sociale nel garantire il rispetto dei diritti umani, la relazione del Parlamento attribuisce ancora troppa importanza a tali iniziative. I meccanismi aziendali di reclamo avrebbero dovuto essere resi parte integrante della normativa. Ci preoccupano anche le limitazioni alla affermazione in giudizio della responsabilità civile, a partire dalla mancata inversione dell'onere della prova.
Milioni di lavoratori e lavoratrici dell'abbigliamento in tutto il mondo vedono attaccati ogni giorno i loro diritti alla libertà di associazione, alla salute e alla sicurezza sul lavoro e a salari dignitosi: è giunto il momento per l'UE di cambiare il modo in cui si fa impresa.
A seguito di questo voto, i negoziati tra le tre istituzioni dell'UE inizieranno a breve. Chiediamo ai co-legislatori di seguire l'esempio del Parlamento europeo e di incorporare questi miglioramenti chiave nella versione finale del testo legislativo.
Assemblea azionisti ADIDAS - Entra in azione
MAIL BOMBING AD ADIDAS
COMPILA IL FORM CON I TUOI DATI PER MANDARE SUBITO UNA MAIL AI VERTICI DELL'AZIENDA
Il giorno dell'Assemblea generale di adidas, 11 Maggio, terremo la nostra Giornata internazionale di azione. Faremo in modo che adidas e i suoi azionisti non possano evitare il nostro messaggio: Pay Your Workers, Respect Labour Rights.
Mentre coloro che investono in adidas votano sul futuro dell'azienda, noi condividiamo il nostro voto: per i diritti dei lavoratori e la libertà di organizzazione.
Io voto per... la fine dell'abuso dei sindacati, la fine del furto dei salari e dei diritti dei lavoratori, la fine del furto della liquidazione. Voto per l'accordo #PayYourWorkers.






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ATTIVATI
Durante l'Assemblea degli azionisti, @adidas dovrebbe dare voce alle lavoratrici derubate della sua catena di fornitura! Io voto per la fine del furto di salari! #PayYourWorkers, #RespectLabourRights
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Oggi gli azionisti di adidas si riuniscono per discutere i risultati finanziari dell'azienda e votare sui loro affari durante l'assemblea generale annuale (AGM).
A quanto dicono, "coltivare una cultura aziendale della diversità, dell'equità e dell'inclusione è una delle [loro] priorità ed è radicata nella [loro] strategia per le persone". Eppure…
Il fatturato di adidas nel 2022 è stato di 22,5 miliardi di euro, collocandosi tra i marchi europei con le migliori performance nel 2022 e al secondo posto tra i marchi sportivi più performanti al mondo.
Nel 2022, adidas ha restituito agli azionisti oltre 3,1 miliardi di euro attraverso dividendi e riacquisti di azioni. Inoltre, dopo il licenziamento dell'amministratore delegato Kasper Rorsted a novembre, adidas gli ha versato una buonuscita di 12 milioni di euro.
Nel frattempo, 500 lavoratori e lavoratrici cambogiani tessili, che cucivano prodotti adidas presso Hulu Garment, stanno lottando da tre anni per ottenere una indennità di 1 milione di euro. In Indonesia, migliaia di lavoratori di diverse fabbriche si sono visti negare milioni in indennità più di dieci anni fa, e adidas non è riuscita a porvi rimedio. E così per tante altre lavoratrici della sua catena di fornitura.
In occasione dell'assemblea generale di quest'anno, quando gli azionisti voteranno sulla direzione che prenderà l'azienda, chiediamo ad adidas e ai suoi azionisti di dare voce ai lavoratori e alle lavoratrici dell'abbigliamento: le persone che producono i loro profitti dovrebbero avere voce in capitolo sul futuro di questa azienda.
E, come consumatori, anche voi dovreste avere un voto.
Date il vostro voto ai lavoratori e alle lavoratrici tessili: Votate affinché adidas negozi con i sindacati e firmi l'accordo #PayYourWorkers
https://www.abitipuliti.org/payyourworkers/
(2023) REPORT: Una luce sulle pratiche commerciali sleali
Un nuovo rapporto pubblicato oggi dal Fair Trade Advocacy Office (FTAO) e basato su una ricerca sul campo condotta da Clean Clothes Campaign (CCC) dimostra chiaramente l'esistenza di pratiche commerciali sleali nell'industria europea dell'abbigliamento. Basato su interviste a fornitori, esperti e rappresentanti sindacali in sei Stati membri dell'UE - Bulgaria, Romania, Croazia, Repubblica Ceca, Italia e Germania - il rapporto "Fast Fashion Purchasing Practices in the EU. Business relations between fashion brands and suppliers" restituisce una panoramica chiara delle relazioni commerciali volatili, rischiose e squilibrate tra marchi e produttori.
La ricerca ha evidenziato una tendenza generale alla riduzione dei prezzi, all'accorciamento dei tempi di consegna, all'aumento dei cambi d'ordine, all'allungamento dei termini di pagamento e all'aumento dei costi "nascosti", come la produzione dei campioni iniziali, che vengono trasferiti ai produttori. Tutto ciò mette in difficoltà i fornitori, che non sono in grado di effettuare investimenti e pagare gli stipendi.
Il rapporto si concentra su due grandi cluster di produzione di abbigliamento in Europa: il sistema moda italiano e la produzione dell'Europa centro-orientale e sud-orientale. I marchi che si riforniscono dai produttori intervistati includono ASOS, Metro, MS Mode, Moncler e Otto Group. Presenti anche alcuni marchi di lusso, non citati esplicitamente su richiesta dei partecipanti alla ricerca.
I contratti scritti tra acquirenti e fornitori sono rari e, quando esistono, le loro condizioni sono fortemente sbilanciate a favore di marchi e distributori. "Il contratto con Moncler era come un libro, cioè proteggevano così tanto il loro marchio che se pensavano di aver perso un pezzo, potevi trovarti a offrire risarcimenti tali da andare in bancarotta", ha detto un intervistato. Un altro fornitore ha aggiunto: "Abbiamo voce in capitolo nelle trattative, ma spesso ci fanno pressione. Cerchiamo di resistere. Il processo di negoziazione è lungo e difficile".
La determinazione dei prezzi è fondamentale, ma di solito inizia con la stima del prezzo al dettaglio desiderato da parte del marchio o del distributore; i materiali, la manodopera e gli altri costi di produzione vengono presi in considerazione solo successivamente. Di conseguenza, la ricerca ha rilevato un divario tra quanto viene pagato ai fornitori per la manodopera e quanto sarebbe necessario per coprire i costi dei datori di lavoro, compresi i contributi previdenziali obbligatori e le tasse. In Italia, ad esempio, ciò significa 18 euro all'ora pagati ai fornitori contro i 24 euro all'ora del costo lordo per i datori di lavoro.
In alcuni casi, i fornitori accettano prezzi bassi solo per mantenere la relazione o per sopravvivere, a volte senza realizzare alcun profitto. Inoltre, quando i fornitori dipendono fortemente da un solo acquirente, il rischio di fallimento è molto alto. Un esempio è la fabbrica di Orljava in Croazia, costretta a chiudere quando il marchio tedesco Olymp ha ritirato gli ordini nel 2020.
La crisi di Covid-19 ha ulteriormente esacerbato gli impatti negativi degli squilibri di potere tra acquirenti e fornitori. Molti marchi hanno annullato o sospeso gli ordini lasciando lavoratori e lavoratrici senza reddito, soprattutto nei Paesi con reti di sicurezza sociale estremamente deboli.
Sono necessarie soluzioni urgenti per eliminare le pratiche commerciali sleali dalle catene di fornitura tessili. In particolare le organizzazioni, nella parte finale del rapporto "Fast Fashion Purchasing Practices in the EU", chiedono: il pagamento degli ordini entro 60 giorni; prezzi che coprano i costi di produzione e garantiscano salari dignitosi per i lavoratori; un indennizzo per i cambiamenti degli ordini; una chiara definizione dei termini di rischio e della proprietà dei beni. Le raccomandazioni includono anche un appello all'Unione Europea affinché adotti una direttiva che vieti le pratiche commerciali sleali nel settore dell'abbigliamento, come i ritardi nei pagamenti e i prezzi inferiori ai costi di produzione, garantisca un'applicazione efficace della normativa e fornisca indicazioni dettagliate su come i marchi e i distributori possano garantire e sostenere la libertà di associazione, la contrattazione collettiva e i salari dignitosi lungo le loro catene di fornitura.
Le questioni sollevate nel rapporto saranno discusse all'evento "Fair Fashion Day" (ibrido, link per registrarsi qui) che si terrà al Parlamento europeo il 25 aprile e sarà ospitato dalle europarlamentari Delara Burkhardt e Saskia Bricmont. Tra i relatori, Mario Iveković di Novi Sindikat, il sindacato che ha condotto la ricerca sul campo in Croazia.
Rana Plaza: 10 anni dopo
Dieci anni dal crollo del Rana Plaza: a che punto sono le condizioni di lavoro in Bangladesh?
Quest'anno ricorrono i dieci anni dal crollo del Rana Plaza, avvenuto il 24 aprile 2013, in cui persero la vita 1.138 persone. I lavoratori e le lavoratrici delle cinque fabbriche di abbigliamento presenti nell'edificio sapevano che la struttura non era sicura, visto che erano stati evacuati il giorno prima. Ma sotto la minaccia di perdere un mese di salario e senza avere un sindacato che li rappresentasse, sono stati costretti a entrare. Molte questioni che hanno contribuito a questo disastro evitabile, come la povertà dei salari e la repressione del diritto di organizzarsi rimangono irrisolte. Solo nel campo della sicurezza nelle fabbriche, dove sindacati e marchi si sono uniti in un programma vincolante, i progressi sono stati notevoli e duraturi.
Cosa è successo dal 2013?
Sicurezza in fabbrica: Dal 2013 la sicurezza in Bangladesh è migliorata notevolmente, grazie all'Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nell'industria tessile e dell'abbigliamento. L'Accordo ha avuto successo perché è legalmente applicabile, dà potere ai sindacati e ha al centro ispezioni indipendenti, formazione dei lavoratori e un meccanismo di reclamo.
Salari: Dal crollo del Rana Plaza, il salario minimo nel settore tessile in Bangladesh viene rivisto ogni cinque anni. Cinque anni fa il salario era stato fissato a 8.000 BDT (circa 75 USD), pari solo alla metà della richiesta unitaria dei lavoratori. Questo salario, che nel 2018 equivaleva a un salario di povertà, è ancora in vigore, nonostante l'inflazione e le diffuse proteste dei lavoratori.
Libertà di associazione: Nonostante un picco iniziale della nascita di nuovi sindacati nei primi anni dopo il crollo, la libertà di associazione è stata nuovamente sottoposta a forti pressioni, culminate in due massicce repressioni delle proteste salariali nel 2016-2017 e nel 2018-2019. Anche ora la libertà di associazione rimane a rischio.
Risarcimento in caso di infortunio sul lavoro: I sopravvissuti e le famiglie colpite dal disastro del Rana Plaza sono stati risarciti per la perdita di reddito e le spese mediche secondo gli standard dell'ILO. I fondi sono stati forniti dai marchi solo dopo due anni di intense campagne e non tutti i marchi che si rifornivano dalle fabbriche del Rana Plaza hanno pagato. Gli importi ricevuti dai lavoratori sono stati relativamente bassi, perché il risarcimento per la perdita di reddito si basava sui bassi livelli salariali del Bangladesh e non sono stati risarciti per il dolore e la sofferenza.
Cosa deve succedere ora?
Sicurezza nelle fabbriche: L'attuale mandato biennale dell'Accordo internazionale scadrà nell'ottobre 2023 e dovrà essere sostituito da un nuovo accordo con garanzie altrettanto forti. Sarà necessario il sostegno di tutti i 192 marchi che hanno firmato l'accordo e di quelli che non l'hanno firmato, come Levi's e IKEA.
Salari: Con l'imminente revisione del salario minimo, i sindacati chiedono che il processo includa un rappresentante sindacale che rappresenti i lavoratori tessili. Inoltre, i sindacati chiedono di triplicare l'attuale salario minimo, cosa che i marchi di abbigliamento che si riforniscono dalle fabbriche del Bangladesh potrebbero facilmente assicurare aumentando i prezzi di acquisto attualmente troppo bassi.
Libertà di associazione: Il governo del Bangladesh dovrebbe rivedere il diritto del lavoro per eliminare gli ostacoli alla registrazione dei sindacati. Il governo, i proprietari delle fabbriche e i marchi dovrebbero creare insieme un ambiente favorevole all'attività sindacale e alla contrattazione collettiva, che attualmente non esiste.
Risarcimento in caso di infortunio sul lavoro: La legislazione in Bangladesh e a livello globale dovrebbe cambiare in modo che tutti i sopravvissuti e le famiglie colpite possano accedere al risarcimento senza campagne o strutture ad hoc, nonché al risarcimento per il dolore e la sofferenza senza dover ricorrere al tribunale. L'attuale schema pilota per gli infortuni sul lavoro dovrebbe diventare legge e coprire anche tutti coloro che sono stati coinvolti in incidenti in fabbrica dal 2013.
cosa puoi fare tu
Firma la petizione
Dopo il Rana Plaza, decine di marchi hanno firmato l'Accordo vincolante per l'attuazione di un programma di sicurezza che ha impedito il ripetersi di disastri come quello.
L'Accordo ha reso i luoghi di lavoro più sicuri per 2,5 milioni di lavoratori e lavoratrici attraverso la ristrutturazione delle fabbriche e i programmi di formazione.
Oltre 40 tra i più grandi marchi della moda lo hanno sottoscritto: tra loro ASOS, H&M, Primark e Zara
12 marchi invece hanno deciso di anteporre i propri profitti alla vita dei lavoratori in Bangladesh e Pakistan, non firmando l'Accordo: Amazon, ASDA, Columbia Sportswear, Decathlon, Ikea, JC Penney, Kontoor Brands (Wrangler, Lee e Rock & Republic), Levi's, Target, Tom Tailor, URBN (Urban Outfitters, Anthropologie, Free People) e Walmart.
Unitevi a noi per dire a questa sporca dozzina che quando è troppo è troppo.
Il loro rifiuto di sostenere le ispezioni nelle fabbriche e i programmi per la sicurezza dei lavoratori non è accettabile
Twitta un messaggio
A 10 anni dal crollo del #RanaPlaza, questa "sporca dozzina" di marchi ancora non ha firmato l'Accordo che ha reso più sicure le fabbriche in Bangadesh, anteponendo i profitti alla vita delle lavoratrici. Firma la petizione ora: www.eko.org/Rana-Plaza #SigntheAccord
Fai un tweet
https://youtu.be/Eea9suCnWvc
Guarda l'evento
Il 20 Aprile a Roma, presso la Sala Di Vittorio in Corso d'Italia 25, si è tenuto l'evento "Mai più Rana Plaza" promosso in collaborazione con CGIL, CISL e UIL.
Fabbriche sicure ovunque nel mondo, dal Bangladesh all’Italia
Per capire cosa è cambiato a dieci anni dall’incendio e crollo dello stabilimento tessile Rana Plaza, indagare l’efficacia dell’Accordo Internazionale e insistere sulla centralità di investire sulla salute e sulla sicurezza nella catena di forniture globali e in Italia, quindi sugli strumenti per garantirla a livello nazionale e internazionale
MODERA
✅ LUCA LIVERANI, Giornalista Avvenire
RANA PLAZA +10 E L’ACCORDO INTERNAZIONALE: BILANCIO, RISULTATI E SFIDE
✅ REPON CHOWDHURY, Segretario Generale del Congresso del sindacato libero del Bangladesh (BFTUC) - in collegamento
✅ DEBORAH LUCCHETTI, Coordinatrice Campagna Abiti Puliti
LA SALUTE E SICUREZZA IN ITALIA
✅ GIULIO ROMANI, Segretario Confederale CISL
✅ IVANA VERONESE, Segretaria Confederale UIL
✅ GIANNI ROSAS, Direttore Ufficio OIL Italia e San Marino
✅ MICHELE MONTEMAGNO*, Punto di Contatto Nazionale
✅ PAOLO PENNESI, Direttore Generale Ispettorato Nazionale del Lavoro
RIFLESSIONI E PROPOSTE CONCLUSIVE
✅ FRANCESCA RE DAVID, Segretaria Confederale CGIL
* In attesa di conferma
Oltre 30 dei più importanti marchi della moda sostengono il programma di sicurezza per il Pakistan
Oggi, a un mese esatto dall'inizio del processo di sottoscrizione dell'Accordo per il Pakistan, un programma di sicurezza nato sul modello dell'innovativo Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nell'industria tessile e dell'abbigliamento in Bangladesh, si contano già 33 marchi firmatari per un totale di 300 fabbriche protette.
Tra i brand aderenti figurano H&M, Inditex (Zara), Primark, Asos, C&A, Next, PVH (Calvin Klein) e OVS
"Più di trenta marchi già firmatari dell'Accordo sul Bangladesh, inclusi quelli con i maggiori interessi commerciali in Pakistan, hanno firmato il nuovo accordo. Ci aspettiamo che tutti gli altri marchi che si riforniscono in Pakistan prendano la stessa decisione e annuncino presto la loro adesione" ha dichiarato Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti
La Clean Clothes Campaign esorta i marchi che finora non si sono assunti la responsabilità per i loro lavoratori in Bangladesh, come Levi's e IKEA, a cogliere questa nuova opportunità per fare il bene dei loro lavoratori in Pakistan. Un rapporto pubblicato nel luglio 2022 dalla Clean Clothes Campaign e dal Wales Institute of Social and Economic Research and Data (WISERD) dell'Università di Cardiff ha rivelato che l'85% dei lavoratori intervistati ha dichiarato di non avere accesso a scale di uscita di emergenza adeguate in caso di incendio. Un lavoratore su cinque ha riferito che il proprio posto di lavoro non prevedeva esercitazioni antincendio e non era a conoscenza delle vie di fuga e delle uscite di emergenza.
"Sappiamo che marchi come Levi's e IKEA non si sono assunti le loro responsabilità in passato, quando sono stati chiamati a firmare l'Accordo per il Bangladesh. Speriamo che ci ripensino ora che i lavoratori pakistani li esortano a fare la cosa giusta. Insieme ai sindacati e alle organizzazioni per i diritti umani, chiediamo a tutti i marchi che producono in Pakistan, come Levi's, IKEA, Amazon e Kontoor, di impegnarsi per fabbriche sicure. Solo un anno fa, quattro persone sono morte in una fabbrica fornitrice di Levi's in Pakistan" ha dichiarato Nasir Mansoor, segretario generale della National Trade Union Federation in Pakistan.
I sindacati pakistani hanno lavorato molti anni per ottenere un accordo sulla sicurezza per il settore tessile e dell'abbigliamento che tenesse in conto le richieste e le preoccupazioni dei lavoratori e delle lavoratrici. L'Accordo per il Pakistan consentirà finalmente di poter attivare meccanismi di reclamo e di effettuare ispezioni di sicurezza trasparenti e approfondite.
"Siamo felici che presto i lavoratori dell'abbigliamento e del tessile in Pakistan non dovranno più temere per la loro vita sul posto di lavoro. I lavoratori di altri Paesi non dovrebbero aspettare altri dieci anni per beneficiare di questo programma sulla sicurezza" ha dichiarato Zehra Khan, segretario generale della Home Based Women Workers Federation
Contesto
Il 14 dicembre 2022 il Pakistan è diventato il primo Paese, dopo il Bangladesh, in cui opererà il modello dell'Accordo internazionale. Questo programma si è dimostrato efficace nel rendere sicure le fabbriche di abbigliamento e tessili grazie al suo carattere vincolante, al peso ai sindacati, alla trasparenza e all'obbligo per i marchi di garantire che le fabbriche fornitrici siano in grado di effettuare gli interventi di riparazione previsti. Dal lancio dell'Accordo in Bangladesh (2013), oltre il 90% di tutti i rischi per la sicurezza riscontrati nelle fabbriche coperte sono stati risolti, rendendo le strutture più sicure per oltre 2 milioni di lavoratori e lavoratrici. Inoltre, 1,8 milioni di lavoratori hanno usufruito di corsi di formazione sulla sicurezza e oltre 1.700 reclami in materia di salute e sicurezza sono stati presentati.
L'elenco dei firmatari dell'Accordo sul Pakistan e ulteriori informazioni sono disponibili su: https://internationalaccord.org/signatories
Lettera della Befana a Giorgia Meloni
Quest'anno la lettera del 6 gennaio ha deciso di scriverla la Befana in persona. Pubblichiamo il testo integrale e le esprimiamo tutta la nostra solidarietà.
Cara Presidente del Consiglio,
le scrivo questa lettera perché sono disperata. E come me almeno altri tre milioni di lavoratori e lavoratrici poveri di questo Paese.
Faccio un lavoro usurante, tutto il giorno in giro a consegnare pacchi, dolci e caramelle con ritmi serrati e disumani, per garantire la gioia di grandi e piccini. Neve, gelo e tramontana: senza pause e riposi. Calzo da anni scarpe rotte e sulle spalle un vecchio scialle: con quello che guadagno e l’inflazione dilagante non posso permettermi molto di più. Quando si rompe la scopa i costi di manutenzione sono a carico mio e tra aumenti dei prezzi e scarsità di risorse è diventato sempre più difficile. Non le dico quanto sia pericoloso saltare da un camino all’altro, a rischio continuo di infortuni, senza malattia o indennità di alcun genere. Il salario? Qualche briciola e un po’ di mance.
Mentre confezionavo i doni da consegnare, ho seguito con molta apprensione la discussione sulla sua Legge di Bilancio: ma, a dir la verità, l’ho trovato un dibattito poco appassionante e a tratti grottesco. Ha scelto in un sol colpo di privilegiare i ricchi e le multinazionali, che spesso sono proprio quelli che mi sfruttano e lucrano sul mio lavoro. “Non disturbare chi vuole fare” le ho sentito dire. Ha tagliato il Reddito di Cittadinanza, misura fondamentale che pur mi ha garantito un po’ di sollievo in questi ultimi mesi, senza un piano alternativo. Ha promosso condoni e perdoni, mascherandoli da pacificazioni, togliendomi perfino il piacere di lasciare qualche pezzo di carbone a chi in fondo se lo è meritato.
Ho pensato sinceramente che fosse una cosa personale nei miei confronti. Forse una calza non ricevuta da bambina, un dono poco gradito, una promessa non mantenuta. Ma non spiegherebbe questo accanimento che dura da anni, da parte sua e di chi l’ha preceduta.
Eppure uno spiraglio nei mesi scorsi si era intravisto. Una debole, ma pur sempre importante, apertura al salario minimo. Invece avete avuto la brillante idea di affossarla con l’approvazione di due striminzite paginette (tecnicamente una mozione). In quelle poche righe ci avete raccontato che tutti i nostri problemi sono legati al costo del lavoro troppo elevato (chissà perché strizzando sempre l’occhio alla parte delle imprese), che la contrattazione collettiva va rafforzata, che bisogna contrastare i contratti pirata. Lo avete fatto? No.
Nel frattempo avete condannato all’invisibilità me e almeno il 13% della forza lavoro del nostro Paese, tre milioni di persone che non ricevono abbastanza soldi per vivere dignitosamente, sebbene abbiano un impiego. Una situazione che in questi anni di pandemia di Covid non ha fatto che peggiorare. Da marzo 2020 a oggi siamo 400 mila persone in più in questa condizione. Le retribuzioni reali medie non aumentano da più di vent’anni e, grazie a voi e all’inflazione fuori controllo, continueranno a perdere potere d’acquisto.
Ma davvero credete che bastino due paginette per fermare anni di lotta e rivendicazioni? Per archiviare un tema così delicato e complesso? La povertà lavorativa è un fenomeno sociale che va oltre la pura questione salariale e dipende da diversi fattori (individuali, familiari, istituzionali) e dalla configurazione delle catene globali del valore. Io giro il mondo col mio lavoro, si fidi.
Per essere affrontata e aggredita nelle sue cause strutturali, sono necessarie misure diverse e complementari di politica economica e fiscale, di natura legislativa e contrattuale, a livello sia nazionale che internazionale. Il tema del salario è una questione non unica ma urgente su cui intervenire per aggredire il problema della povertà lavorativa e della diseguaglianza in Italia.
Ci state spingendo alla disperazione, volete costringerci a stare al nostro posto senza fiatare, e a sopportare in silenzio le ingiustizie economiche e sociali che già subiamo, pena la perdita anche di quelle briciole di pane che ci lasciate di fianco al caminetto.
Eppure così invisibili non siamo: consegniamo i vostri pacchi e pacchetti, puliamo i vostri uffici e le vostre belle case, assistiamo i vostri anziani e le persone bisognose, serviamo nelle vostre mense, cuciamo e stiriamo i vostri abiti. Chissà cosa accadrebbe se domattina ci fermassimo tutte e tutti per un giorno. Se quelle calze che vi aspettate gonfie all’improvviso restassero vuote.
La povertà e le sue cause non sono una colpa, né una responsabilità individuale. Le soluzioni devono essere collettive perché la dignità o è di tutti o di nessuno.
Allora mi permetta di farle un dono. Non il carbone che sporca, puzza e inquina: non vorrei mai che lo prendeste come un suggerimento per investire ancora sulle energie fossili… Piuttosto un consiglio di lettura: Il salario dignitoso è un diritto universale, rapporto della Campagna Abiti Puliti che formula suggerimenti legislativi concreti per combattere la povertà lavorativa nel nostro Paese, quello delle eccellenze Made in Italy cui lei ha addirittura dedicato un Ministero.
Se vuole discuterne non esiti a contattarmi: come sa, basta una letterina.
In fede
La Befana
Finalmente nasce l'Accordo sulla sicurezza nel settore tessile per il Pakistan
L'estensione dell’accordo internazionale vincolante sulla salute e la sicurezza dei lavoratori salverà migliaia di vite nelle fabbriche tessili pachistane.
Il nuovo accordo si ispira a quello del Bangladesh, firmato dopo il crollo del Rana Plaza nel 2013, che ha di fatto trasformato l'industria tessile del Paese, mettendo finalmente in sicurezza, con interventi critici di ristrutturazione, oltre 1600 fabbriche e 2,5 milioni di lavoratori e lavoratrici.
Più di 250 operai sono morti nell'incendio della fabbrica Ali Enterprises di Karachi nel 2012, il peggior incendio nella storia dell'industria tessile globale. Come in Bangladesh, anche in Pakistan i sistemi di audit volontari non sono serviti a niente: gli infortuni e i decessi nelle fabbriche continuano. Ecco perché un Accordo vincolante è fondamentale per mettere in sicurezza l’industria tessile pachistana.
L'Accordo del Pakistan:
- è legalmente vincolante per i marchi;
- dopo aver effettuato ispezioni complete e trasparenti su salute e sicurezza per individuare i pericoli, impone piani di ristrutturazione con scadenze precise per eliminarli;
- garantisce che i fornitori abbiano le risorse per pagare i lavori di ristrutturazione;
- protegge tutti i lavoratori della catena di fornitura dei marchi;
- offre ai lavoratori una via confidenziale per far emergere problemi urgenti di sicurezza e salute e garantire una rapida azione correttiva;
- documenta le proprie attività attraverso una straordinaria trasparenza pubblica.
L'Accordo internazionale conta 187 marchi firmatari, di cui almeno la metà si rifornisce dal Pakistan, includendo così nel meccanismo centinaia di fabbriche e stabilimenti.
Dopo una campagna decennale per la sicurezza nelle fabbriche condotta insieme ai lavoratori e alle lavoratrici pachistane, i sindacati e le organizzazioni firmatarie dell'Accordo internazionale si dicono soddisfatte per l'annuncio di questa estensione.
Nasir Mansoor, Segretario Generale della Federazione Nazionale dei Sindacati del Pakistan, ha dichiarato: "Dopo anni di lotta per l'estensione dell'Accordo al Pakistan, i nostri lavoratori possono finalmente rientrare nei suoi meccanismi di monitoraggio e denuncia. Se un numero sufficiente di marchi firmerà, i lavoratori non dovranno temere per la propria vita quando si recano al lavoro e sapranno a chi rivolgersi quando la loro fabbrica non è sicura. La forza dell'Accordo sta nel fatto che i sindacati hanno lo stesso potere delle aziende nel processo decisionale".
Zehra Khan, Segretario generale della Federazione delle lavoratrici a domicilio, ha dichiarato: "Il programma dell'Accordo porterà ispezioni, corsi di formazione sulla sicurezza e un meccanismo di reclamo che coprirà tutte le questioni di salute e sicurezza, compresa la violenza di genere, per i lavoratori pachistani che producono per i marchi firmatari. Sarà necessario prestare particolare attenzione per garantire che le lavoratrici, che spesso non sono ufficialmente registrate e potrebbero lavorare da casa, abbiano lo stesso accesso a questo programma degli altri lavoratori".
"Siamo lieti che l'innovativo Accordo arrivi finalmente in Pakistan, dove è necessario come non mai. Tutti i marchi che si riforniscono in Pakistan aderiscano prontamente all’accordo", ha dichiarato Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti. "Sono dieci anni che i lavoratori e le lavoratrici del tessile in Pakistan attendono un risultato come questo. Ci auguriamo che in altri importanti Paesi produttori non si debba aspettare altrettanto a lungo".
Scott Nova, direttore esecutivo del Worker Rights Consortium, ha dichiarato: "I tratti distintivi dell'Accordo del Pakistan sono la responsabilità, l'applicabilità e la trasparenza. Con questo nuovo accordo, il Pakistan diventerà uno dei luoghi più sicuri al mondo per la produzione di abiti".
Dichiarazione della Clean Clothes Campaign sulla sospensione senza precedenti dei diritti del lavoro in Ucraina
La Clean Clothes Campaign dichiara la propria solidarietà ai lavoratori dell'abbigliamento e a tutti i lavoratori dell'Ucraina durante l'invasione russa. Condanniamo l'invasione dell'Ucraina da parte delle forze russe, come ogni atto di aggressione, invasione e guerra. Sosteniamo ogni iniziativa diplomatica e politica, istituzionale e dal basso che sia seria e genuina, volta al ritiro delle truppe russe dai territori occupati e a scongiurare l'escalation del conflitto che sta già colpendo gravemente la classe lavoratrice e le popolazioni civili in Europa e altrove. Protestiamo contro la sospensione delle tutele per i lavoratori e dei diritti sindacali, che colpisce in particolare le fabbriche di abbigliamento in quanto piccole e medie imprese. In condizioni di grave crisi economica e sociale, le nuove leggi minano i diritti fondamentali del lavoro.
La Clean Clothes Campaign ha dichiarato la propria solidarietà ai lavoratori dell'abbigliamento e a tutti i lavoratori dell'Ucraina durante l'invasione russa. (https://cleanclothes.org/news/2022/statement-of-solidarity-with-garment-workers-in ukraine).
Nel 2020, una ricerca della Clean Clothes Campaign ha rivelato che circa 200.000 lavoratori ucraini dell'abbigliamento guadagnano un quinto di quello che servirebbe loro per coprire i costi di vita base (un salario vivibile di base), che spesso non è nemmeno il salario minimo mensile netto di 126 euro (2019). Molti di questi lavoratori sono intimiditi e umiliati, costretti a fare straordinari, svengono in estate e congelano in inverno - per citare solo le violazioni più diffuse. (https://cleanclothes.org/file-repository/livingwage-europe-country-profiles-ukraine/view; https://cleanclothes.org/file-repository/exploitation-made.pdf/view chapter 4).
Non sono disponibili dati precisi sul numero di lavoratori dell'abbigliamento, a causa dell'elevato numero di lavoratori informali nel settore - dal 60 al 70% dei lavoratori dell'abbigliamento sono informali - a partire dal 2020. La situazione è peggiorata durante la pandemia, quando non sono stati pagati i salari e le assicurazioni sociali; molti lavoratori sono stati mandati in congedo forzato non retribuito o sono stati licenziati.
Nella primavera del 2022, la CCC ha condotto una ricerca informale sui marchi che si riforniscono dall'Ucraina, la maggior parte dei quali ha dichiarato di continuare a rifornirsi e di avere fabbriche in funzione. L'industria dell'abbigliamento si concentra nella parte occidentale del Paese ed è quindi meno colpita dal conflitto diretto. La CCC ha esortato i marchi a esercitare la due diligence e agire con responsabilità assicurando la continuata attuazione dei diritti umani sul lavoro.
I lavoratori hanno bisogno di protezione soprattutto durante la guerra e la conseguente crisi economica e sociale.
Nel 2020, i sindacati ucraini e la società civile hanno fruttuosamente respinto i tentativi di indebolire i diritti del lavoro e la contrattazione collettiva. Tuttavia, nel 2021 è stato nuovamente proposto un progetto di legge: utilizzando la copertura della legge marziale a seguito dell'invasione russa, il governo ha adottato nuovi provvedimenti che cercano nuovamente di minare la libertà di associazione e i diritti del lavoro. Queste leggi sono state osteggiate dai sindacati e dalle ONG per i diritti del lavoro in Ucraina e a livello internazionale dalla OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), dalla ITUC (International Trade Union Confederation) e da altre sigle sindacali globali.
Le leggi prevedono un'estrema liberalizzazione dei rapporti di lavoro, in particolare nelle piccole e medie imprese con meno di 250 dipendenti (PMI). La stragrande maggioranza delle fabbriche di abbigliamento sono PMI.
Le nuove leggi privano i lavoratori della possibilità di tutela legale e di protezione da parte dei sindacati in caso di abusi sul lavoro. Esse dunque aumenteranno drasticamente la dipendenza dei lavoratori dai loro datori di lavoro e includono le seguenti disposizioni chiave.
La legge 2136 adottata il 15.03.2022 prevede, fra le altre cose:
- la possibilità di estendere l'orario di lavoro settimanale standard da 40 a 60 ore;
- la rimozione degli ostacoli e dei benefici aggiuntivi al lavoro durante i giorni festivi, i fine settimana e le ferie;
- la fine del divieto per le donne di svolgere lavori fisicamente faticosi;
- l'eliminazione dell'obbligo di contratti di lavoro scritti;
- l'eccessiva flessibilità nel lavoro a tempo determinato e nei periodi di prova;
- la possibilità di trasferire i lavoratori ad altre mansioni e di modificare in altro modo i termini del contratto di lavoro senza il consenso dei lavoratori, di sospendere o risolvere l'intero contratto di lavoro anche durante le assenze per malattia o le ferie.
La legge 2421 adottata il 18.07.2022 prevede, fra le altre cose:
- la possibilità per i datori di lavoro di assumere con contratti a zero ore, creando così una riserva flessibile a loro disposizione in base a qualsiasi disposizione contrattuale che i lavoratori probabilmente accetteranno in quanto disperati per il reddito.
La legge 2434 adottata il 19.07.2022 prevede, fra le altre cose:
- licenziamento nelle PMI senza motivazione legale, ma con un piccolo indennizzo per chi perde il lavoro;
- ampliamento della facoltà dei datori di lavoro di licenziare i lavoratori.
La legge marziale ha vietato gli scioperi e le proteste dei lavoratori e, di conseguenza, sta limitando fortemente i diritti delle organizzazioni dei lavoratori a resistere all'imposizione e agli impatti negativi di queste nuove leggi. In effetti, le leggi sono state usate per ritorsioni contro i sindacalisti che, ad esempio, si sono visti espropriare le proprietà del sindacato. Queste leggi minano i diritti dei lavoratori in Ucraina.
Pertanto, la Clean Clothes Campaign esorta i marchi internazionali a:
- assicurarsi di non avallare o incoraggiare un indebolimento delle tutele del lavoro, in violazione degli standard dell'ILO, comprese le proposte di aumento dell'orario di lavoro e di riduzione dei diritti dei lavoratori;
- garantire che i termini e le condizioni esistenti, conformi agli standard dell'ILO e ai codici di condotta dei marchi, compresi i termini contrattuali e gli standard di lavoro, siano mantenuti e che le tutele del lavoro (compreso l'orario di lavoro massimo) non siano ridotte, indipendentemente dalla retroattività prevista dalle leggi;
- garantire che i lavoratori coinvolti in proteste pacifiche o in attività di libertà di associazione siano tenuti indenni dalla detenzione arbitraria prevista dalla legge marziale;
- garantire che i salari riflettano l'aumento del costo della vita, in particolare del cibo e dell'alloggio.
- Impegnarsi per un approvvigionamento stabile e per relazioni a lungo termine con i fornitori ucraini, al fine di ridurre l'impatto delle pratiche di acquisto a breve termine.
Maggiori informazioni:
- https://www.opendemocracy.net/en/odr/ukraine-suspends-labour-law-war-russia/ •
- https://www.opendemocracy.net/en/odr/ukraine-draft-law-5371-workers-rights-war-russia/
- Dichiarazione dell’ITUC: https://www.ituc-csi.org/parliament-turns-against-Ukrainian-workers?lang=en
- Campagna LabourStart: https://www.labourstartcampaigns.net/show_campaign.cgi?c=5149
- Dichiarazione di Education International: https://www.ei-ie.org/en/item/26761:ukraine-trade-unions-strongly-oppose-new-law-that undermines-labour-rights-collective-bargaining-and-democracy
- Dichiarazione di SOCIAL MOVEMENT: https://rev.org.ua/statement-on-temporary-ban-of-some-ukrainian-parties/
I Mondiali dello sfruttamento
MAIL BOMBING AD ADIDAS
COMPILA IL FORM CON I TUOI DATI PER MANDARE SUBITO UNA MAIL AI VERTICI DELL'AZIENDA
I Mondiali FIFA sono costruiti sullo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici. Ora tocca ad Adidas, alla FIFA e ad altri pagare il prezzo del loro sfruttamento.
Gli operai e le operaie che producono kit, scarpini e palloni da calcio per Adidas aspettano milioni di dollari in indennità e salari non pagati. Se adidas è disposta a spendere 800 milioni di dollari per sponsorizzare la FIFA, perché non può spendere 10 centesimi in più per ciascun prodotto per porre fine al furto salariale nella sua catena di fornitura?
Agisci per i lavoratori e le lavoratrici di Adidas durante i Mondiali di calcio. Invia subito una e-mail ad adidas
ATTIVATI
La @FIFAWorldCup è costruita sullo sfruttamento dei lavoratori. Gli stadi, i palloni, le maglie sono stati realizzati da lavoratori sottopagati e vittime di abusi. Non solo la FIFA, ma anche @adidas deve risarcire subito i suoi lavoratori. https://www.abitipuliti.org/payyourworkers/ #PayYourWorkers
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.@adidas è disposta a spendere 800 milioni di dollari per sponsorizzare la @FIFAWorldCup ma si rifiuta di pagare i suoi fornitori #10CentsMore per #EndWageTheft nelle loro catene di fornitura. Entra in azione! https://www.abitipuliti.org/payyourworkers/ #PayYourWorkers
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I Mondiali FIFA sono costruiti sullo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici.
Gli stadi, i palloni, le scarpe e le maglie sono stati realizzati con un lavoro massacrante e sottopagato. I lavoratori, provenienti soprattutto dal Sud e dal Sud-Est asiatico, sono stati derubati dei loro salari e del loro diritto di organizzazione. Hanno patito la fame, rischiato la salute o addirittura sono morti per costruire le infrastrutture in Qatar. Hanno dovuto affrontare salari non pagati, licenziamenti di massa e lo smantellamento dei sindacati.
Sosteniamo l'appello dei sindacati e delle organizzazioni per i diritti dei lavoratori di tutto il mondo affinché la FIFA avvii un fondo di compensazione per i lavoratori migranti in Qatar. Ma non basta! Anche i marchi come @adidas devono contribuire a un fondo che garantisca ai lavoratori e alle lavoratrici che hanno cucito le loro maglie da calcio di recuperare i salari trattenuti e la liquidazione.
Un torneo che avrebbe dovuto essere giocato sul campo, si è trasformato in una gara a chi spreme di più i propri lavoratori. Ora tocca ad adidas, alla FIFA e ad altri pagare il prezzo del loro sfruttamento: risarcite subito i vostri lavoratori.
Durante questi Mondiali di sfruttamento, facciamo sentire la nostra voce e diciamo ad adidas: #PayYourWorkers #RespectLabourRights.
Inviate un'e-mail ad adidas: https://www.abitipuliti.org/payyourworkers/
Il Pakistan ha bisogno di un Accordo sulla sicurezza ora
Nelle fabbriche pakistane fornitrici dei grandi marchi si verificano regolarmente incidenti e violazioni mortali in materia di sicurezza come emerge da una recente ricerca della Clean Clothes Campaign. È necessario estendere immediatamente al Pakistan l'Accordo internazionale sulla salute e la sicurezza nell'industria tessile e dell'abbigliamento, come chiedono i sindacati dei lavoratori e delle lavoratrici tessili del Paese fin dal 2018. Tutti i marchi che non hanno ancora firmato l'Accordo, tra cui Levi's, Gap e Kontoor (Lee, Wrangler), devono farlo immediatamente per proteggere i lavoratori delle loro filiere.
Le violazioni riportate in questo documento sono solo un'istantanea di quanto accade nelle fabbriche pakistane. A causa della mancanza di controlli efficaci e della scarsa attenzione riservata dai media, molti incidenti, anche mortali, restano inosservati e nascosti.
Solo negli ultimi 20 mesi ci sono stati oltre 35 incidenti nelle fabbriche fornitrici sia di marchi firmatari dell’Accordo per il Bangladesh che di brand che ancora non lo hanno sottoscritto. La maggior parte dei problemi a livello di fabbrica menzionati in questa ricerca avrebbero potuto essere facilmente individuati e risolti se fosse esistito un programma come l'Accordo internazionale, che è giuridicamente vincolante. Nato nel 2013 come risposta diretta al crollo del Rana Plaza in Bangladesh, non è ancora mai stato esteso al Pakistan, nonostante solo un anno prima si fosse verificato proprio qui l'incendio più mortale mai avvenuto in una fabbrica di abbigliamento in tutto il mondo (incendio alla Ali Enterprise, oltre 250 morti).
A distanza di dieci anni, finalmente ci si sta avvicinando all'avvio di un programma pakistano nell'ambito dell'Accordo internazionale. Tuttavia, restano da superare due grandi ostacoli. Innanzitutto, il lancio del programma non è ancora ufficiale e questo getta i lavoratori in una situazione di enorme incertezza. In secondo luogo, sebbene vi sia consenso tra le parti interessate sul fatto che non possa essere una copia esatta di quello del Bangladesh, i parametri del nuovo accordo devono ancora essere decisi.
La Clean Clothes Campaign chiede che tali parametri siano definiti in base alle esigenze dei lavoratori e dei loro rappresentanti sindacali. Una coalizione di sindacati pakistani e di organizzazioni per i diritti dei lavoratori ha già formulato una proposta di come dovrebbe essere riformulato l’Accordo nazionale pakistano perché sia efficace in questo specifico contesto. Essa esorta tutte le parti interessate a tenere conto delle esigenze dei lavoratori pakistani nella formulazione dei contenuti del programma e nell'avvio delle operazioni all'inizio del prossimo anno.
Nasir Mansoor, Segretario generale della Federazione nazionale dei sindacati pakistani, afferma: "Gli incidenti di fabbrica evidenziati dai lavoratori in Pakistan dimostrano quanto sia urgente l'espansione dell’Accordo. I lavoratori meritano di sentirsi sicuri e protetti quando si recano al lavoro, e l'Accordo dovrebbe iniziare le sue attività entro la fine dell'anno. L'Accordo del Pakistan dovrebbe proteggere i lavoratori delle fabbriche di abbigliamento, degli stabilimenti tessili e dei piccoli luoghi di lavoro informali. Comprendiamo che ispezionare tutte le unità richiederà tempo, ma tutti i lavoratori dovrebbero avere il diritto di presentare reclami se sono in pericolo fin dall'inizio del programma".
Zehra Khan, Segretario generale della Home Based Women Workers Federation in Pakistan, afferma: "Per noi sindacati uno dei principi più importanti dell'Accordo è la condivisione paritaria del potere. Secondo l'Accordo del Pakistan, i lavoratori e le aziende dovrebbero avere la stessa quantità di potere. In questo modo possiamo confidare che l'organizzazione sia veramente indipendente e che renda i luoghi di lavoro sicuri in modo credibile e trasparente per tutti i lavoratori della filiera dell'abbigliamento".
Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti in Italia, afferma: "Con la legislazione sulla due diligence stabilita in diversi Paesi europei e in via di sviluppo in molti altri, i marchi non possono più permettersi di rimandare. Sanno che viene fatto del male ai lavoratori della loro catena di fornitura, e ogni giorno in cui l'Accordo non è ancora operativo è un altro giorno in cui le vite dei lavoratori sono a rischio."
I marchi del lusso nascondono deliberatamente le origini dei loro prodotti in pelle
Una nuova analisi mostra cattive pratiche di divulgazione tra marchi come Armani e Versace Una nuova analisi mostra cattive pratiche di divulgazione tra marchi come Armani e Versace
Amsterdam, 3 novembre 2022 - Marchi di lusso come Armani, Versace, Michael Kors e Coach non forniscono informazioni chiave sull'origine dei loro prodotti in pelle. Secondo uno studio effettuato da SOMO, che 35 marchi di lusso sui 44 presi in esame non pubblicano gli elenchi dei fornitori presso i quali si riforniscono di pellame per tutti i loro articoli, come giacche, pantaloni, scarpe, cinture, guanti e borse. Ciò desta inevitabili preoccupazioni, in quanto l'industria mondiale della pelletteria è notoriamente associata ad abusi dei diritti dei lavoratori e inquinamento ambientale.
Solo una manciata di marchi di lusso fornisce alcune informazioni sull'origine dei loro prodotti in pelle. Tra questi ci sono Bally, Zegna e Fendi. Ma la strada da fare è ancora molto tanta. Le informazioni fornite da queste aziende sono ben lungi dall'essere complete. Nel frattempo, la maggior parte dei marchi non pubblica affatto un elenco di fornitori, non raggiungendo nemmeno quanto previsto dagli standard più elementari.
Martje Theuws di SOMO dichiara: “La nostra analisi mostra che le aziende che operano nel lusso sono rimaste decisamente indietro. Questo è scioccante. Se un'azienda conosce i propri fornitori e la propria filiera, non c'è motivo per non pubblicare un elenco di fornitori. Se invece un'azienda non conosce la propria filiera, ciò solleva seri interrogativi sulla due diligence dell’azienda”.
L'importanza degli elenchi dei fornitori
Gli elenchi dei fornitori rappresentano uno strumento consolidato nel settore dell'abbigliamento, che consente a diversi gruppi - lavoratori, investitori e consumatori - di risalire all'origine delle merci. La divulgazione di informazioni sulla catena di fornitura è considerata un passo importante sulla lunga strada per garantire condizioni di lavoro dignitose.
Sul totale delle 100 aziende analizzate da SOMO, 44 delle quali sono marchi di lusso, calzature e altre aziende operanti nel settore della pelletteria, meno di un terzo (29 su 100) pubblica un elenco di fornitori. Solo 17 aziende forniscono informazioni su impianti di trasformazione e fornitori di materie prime . Le società di beni di lusso hanno ottenuto risultati inferiori alla media. Solo il 20% dei marchi di lusso (9 su 44) ha divulgato i nomi dei propri fornitori.
Pessime condizioni di lavoro
I lavoratori dell'industria globale del settore pelletteria spesso devono affrontare condizioni di lavoro dure e abusive. Stipendi inadeguati, orari di lavoro estenuanti e precariato sono condizioni segnalate spesso nei paesi con produzione a basso salario. Le sostanze chimiche impiegate nella lavorazione della pelle possono essere tossiche e, per i lavoratori che non sono dotati di adeguate protezioni, l'esposizione può portare a gravi problemi di salute. Situazioni occupazionali problematiche sono state riscontrate anche in Europa, dove i lavoratori -migranti, in particolare- possono imbattersi in lavori caratterizzati da condizioni davvero pessime.
Pochissime informazioni divulgate dai marchi
Nessuna azienda del nostro campione divulga informazioni sui salari che guadagnano i lavoratori nei loro centri di fornitura. Solo 4 delle 29 aziende che pubblicano un albo fornitori riportano in tali elenchi informazioni sugli indicatori relativi alla libertà di associazione e contrattazione collettiva. Nel segmento del lusso, solo Zegna fornisce informazioni relative a questi temi.
"Queste aziende pubblicano informazioni e rapporti, alcuni dei quali restituiscono un’immagine molto positiva della loro responsabilità aziendale, ma la mancata pubblicazione degli elenchi completi dei fornitori è una questione spinosa. Informazioni sporadiche sui problemi della catena di fornitura non consentono controlli adeguati. Un simile approccio può nascondere tanto quanto rivela”, osserva Martje Theuws.
Le iniziative volontarie non impongono la trasparenza
Più del 50% dei marchi di lusso presi in esame (24 su 44) partecipa a iniziative volontarie multi-stakeholder o a schemi di certificazione.
Martje Theuws afferma: “L'analisi di SOMO mostra che questo tipo di iniziative volontarie non garantisce la divulgazione della catena di fornitura perché non impone la trasparenza ai propri membri. Pertanto, è fondamentale che la prossima legislazione sulla responsabilità aziendale a livello europeo e negli Stati membri dell'UE includa l'obbligo per le aziende di divulgare pubblicamente le informazioni sulla filiera.”[1]
Indagine sulle informazioni pubbliche di 100 aziende
Per questa analisi, SOMO ha selezionato 100 aziende nei segmenti dei beni di lusso e delle calzature nel settore pelletteria. Inoltre, è stato incluso un certo numero di rivenditori online. Tra queste 100 aziende figurano alcuni dei maggiori operatori in termini di dimensioni aziendali, fatturato e quota di mercato. Per la sua analisi, SOMO ha utilizzato informazioni provenienti da una serie di fonti pubbliche, tra cui i siti web aziendali e l’Open Apparel Registry. Oltre al nostro rapporto, stiamo lavorando alla pubblicazione di un documento di discussione sul tipo di informazioni che le aziende dovrebbero divulgare per quanto concerne la catena di fornitura.
SOMO ha chiesto ad Armani, Coach, Michael Kors e Versace di rispondere alle preoccupazioni per la mancata pubblicazione di un elenco di fornitori. Le aziende non hanno risposto.
[1] Diversi paesi europei (ad es. Germania e Paesi Bassi) stanno preparando o attuando la legislazione sulla responsabilità aziendale. Inoltre, l'Unione Europea sta elaborando una legislazione sulla due diligence. Per ulteriori informazioni su questi sviluppi legislativi, consultare il sito web:https://corporatejustice.org/publications/map-corporate-accountability-legislative-progress-in-europe/
Per saperne di più:
- Accendiamo i riflettori sulla pelle. Analisi: pratiche di divulgazione della catena di fornitura di 100 aziende del settore della pelletteria
- Panoramica delle 100 aziende indagate
- Accendiamo i riflettori sulla pelle. Documento di discussione sulla trasparenza nella filiera della pelletteria
Adidas: Settimana di mobilitazione globale
Adidas leader mondiale nello sport?
Sicuramente nel furto di salari, nelle violazioni dei diritti del lavoro e nelle molestie.
Adidas leader mondiale nello sport?
Sicuramente nel furto di salari, nelle violazioni dei diritti del lavoro e nelle molestie.
MAIL BOMBING AD ADIDAS
COMPILA IL FORM CON I TUOI DATI PER MANDARE SUBITO UNA MAIL AI VERTICI DELL'AZIENDA
La campagna Pay Your Workers, sostenuta da 260 organizzazioni in tutto il mondo, tra cui decine di sindacati che rappresentano i lavoratori e le lavoratrici tessili nei paesi di produzione, scende in piazza in una settimana di mobilitazione globale, dal 24 al 30 ottobre 2022, per chiedere ad Adidas di rispettare i diritti dei lavoratori nella sua catena di fornitura.
La maggior parte della produzione di Adidas avviene in Paesi in cui i sistemi di protezione sociale sono inadeguati, se non addirittura inesistenti. Questo per i lavoratori e le lavoratrici, ad esempio, ha significato rimanere senza stipendio quando la propria fabbrica ha chiuso i battenti.
Nonostante nel 2021 Adidas abbia registrato un utile netto di oltre 2,3 miliardi di dollari, il marchio si rifiuta di pagare alle lavoratrici di otto fabbriche sue fornitrici in Cambogia 11,7 milioni di dollari di salari che spettano loro per i primi 14 mesi della pandemia, pari a 387 dollari per ciascuna
Anche le lavoratrici che ormai non producono più articoli per Adidas aspettano i loro soldi. Per esempio le operaie della fabbrica Hulu Garment in Cambogia, licenziate all'inizio della pandemia aspettano ancora 3,6 milioni di dollari. Nel maggio del 2022, 5.600 lavoratori di un altro fornitore Adidas in Cambogia hanno scioperato per i salari non pagati e la fabbrica ha reagito facendo arrestare i leader sindacali.
Questo furto salariale e delle indennità di licenziamento si estende ben oltre la Cambogia, lungo tutta la catena di fornitura globale di Adidas.
In Italia le iniziative partono da Bologna dove dal 24 ottobre per 15 giorni gli splendidi manifesti del collettivo femminista Cheap campeggiano sulle bacheche pubbliche della città con un messaggio forte e chiaro per il grande gruppo tedesco che continua ad ignorare le richieste della nostra campagna. Poi sarà la volta di Milano, Torino, Genova, Firenze, Fidenza, Parma e Roma dove sono previsti eventi e flashmob di piazza. A queste azioni fisiche, si affianca la tempesta digitale attraverso azioni online di mailbombing e pressione sui social media.
Contemporaneamente ci saranno manifestazioni in almeno altre 20 città nel mondo, tra cui Berlino, Los Angeles e Dacca.
Adidas ha la grande opportunità - e l'obbligo - di agire per rispettare gli impegni assunti nei confronti delle lavoratrici dell'abbigliamento e delle calzature, partecipando alle trattative con i rappresentanti sindacali e firmando un accordo giuridicamente vincolante per garantire il risanamento dei furti salariali e il rispetto dei diritti dei lavoratori.
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Se “Nothing is impossibile”, perché @adidas non riesce a pagare le sue lavoratrici e a garantire loro la libertà di associazione? #PayYourWorkers #RespectLabourRights
.@adidas ha rubato circa 11,7 milioni di dollari alle lavoratrici cambogiane durante la pandemia. https://www.abitipuliti.org/news/adidas-settimana-di-mobilitazione-globale/ #PayYourWorkers #RespectLabourRights
.@adidas, smettete di ignorare le richieste dei sindacati dei lavoratori e delle lavoratrici tessili #PayYourWorkers #RespectLabourRights
Adidas nel 2021: fa utili per 1,6 miliardi di euro ma non paga 11,7 milioni di dollari alle lavoratrici in Cambogia. Equità ora! @adidas #PayYourWorkers #EndWageTheft! https://www.abitipuliti.org/news/adidas-settimana-di-mobilitazione-globale
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Adidas afferma di avere il potere di cambiare la vita attraverso lo sport. Ma un modo ancora più rapido per cambiare la vita delle donne e delle generazioni future è quello di restituirgli i salari rubati durante la pandemia. Adidas deve alle lavoratrici della Cambogia una cifra stimata in 11,7 milioni di dollari. Persone che già percepivano un salario di povertà e sono state lasciate nell'indigenza durante una pandemia globale. Chiediamo ad @adidas di accettare l'invito dei sindacati a negoziare un accordo vincolante che garantisca alle sue lavoratrici il pagamento dell'intero salario, la liquidazione in caso di perdita del posto di lavoro e il diritto alla libertà di associazione e alla contrattazione collettiva.
Per saperne di più:
https://www.abitipuliti.org/payyourworkers/
#PayYourWorkers #RespectLabourRights #AdidasSteals #10CentsMore #EndWageTheft #adidas #adidasrunning #adidasfootball
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LA SETTIMANA DI MOBILITAZIONE IN ITALIA
MILANO
Foto di Zoe Vincenti





















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PARMA E FIDENZA














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SAVONA






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TRENTO
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EVENTO: Parliamo di soldi?
16.09.2022
h. 15 - 18:30
Teatro Affratellamento
Via Giampaolo Orsini 73
Firenze
Streaming su Facebook - Clicca qui
Per partecipare iscriversi qui
Dobbiamo parlare di soldi.
Più precisamente, dobbiamo parlare dei soldi che le lavoratrici e i lavoratori tessili non hanno
ricevuto negli ultimi due anni pur avendone diritto, e di quelli che invece dovrebbero ricevere per
poter affrontare la crisi pandemica.
Dall’inizio della pandemia, i grandi brand della moda da un lato hanno diluito i pagamenti ai loro fornitori, dall’altro hanno rinegoziato ancora più al ribasso i prezzi di acquisto: il risultato è che milioni di persone sono finite in miseria e indebitamento. A livello globale, la Clean Clothes Campaign stima che i lavoratori tessili abbiano perso più di 11 miliardi di dollari in salari non pagati, licenziamenti improvvisi e assenza di ammortizzatori sociali, solo nel primo anno della pandemia.
Per questo motivo è nata la campagna Pay Your Workers, lanciata da Abiti Puliti insieme ad altre decine di organizzazioni che nel mondo difendono i diritti dei lavoratori. Vogliamo che i brand saldino i loro debiti, ma vogliamo anche che situazioni del genere non si verifichino più: deve esserci un fondo globale che aiuti finanziariamente i lavoratori in caso di crisi aziendali nei paesi di produzione tessile istituito attraverso un accordo vincolante.
Come
costringiamo
i marchi a
pagare quanto
dovuto?
Il 16 settembre 2022 abbiamo organizzato un grande evento alla Società Ricreativa L’Affratellamento di Ricorboli a Firenze per discutere di questo enorme problema e trovare momenti di attivazione collettiva per aiutare le lavoratrici e i lavoratori tessili nel mondo ad ottenere ciò che spetta loro di diritto.
Vieni anche tu! Il programma prevede interventi di:
Alessandro Mostaccio, Movimento Consumatori
Deborah Lucchetti, Fair / Campagna Abiti Puliti
Gianni Rosas, ILO Italia
Jeff Nonato, FilcamsCGIL / UNI Europa Commerce
Kalpona Akter, Bangladesh Center for Workers Solidarity (BCWS)
Marina Spadafora, Fashion Revolution Italia
Simone Siliani, Fondazione Finanza Etica
Modera: Diletta Bellotti, ricercatrice e attivista
(2022) REPORT: Il salario dignitoso è un diritto universale
IL SALARIO DIGNITOSO È UN DIRITTO UNIVERSALE
Una proposta per l'Italia, a partire dal settore moda
La Campagna Abiti Puliti lancia il nuovo rapporto “Il salario dignitoso è un diritto universale. Una proposta per l’Italia, a partire dal settore moda”.
La povertà lavorativa è un fenomeno sociale complesso, che va oltre la pura questione salariale e dipende da diversi fattori (individuali, familiari, istituzionali) e dalla configurazione delle catene globali del valore. Per essere affrontata e aggredita nelle sue cause strutturali, sono necessarie misure diverse e complementari di politica economica e fiscale, di natura legislativa e contrattuale, a livello sia nazionale che internazionale.
Elaborando i dati OCSE relativi al periodo 2000-2020 emerge come le retribuzioni abbiano subito una contrazione in termini reali nel periodo considerato, determinando un’erosione del potere di acquisto dei lavoratori. Ulteriore preoccupazione è determinata da una dinamica inflattiva tra fine 2021 e inizio 2022 particolarmente sostenuta, spinta dai prezzi dei beni energetici e in misura minore da quella dei beni alimentari. Nel 2019, Eurostat rilevava per l’Italia un tasso di rischio di povertà lavorativa per i lavoratori di età compresa tra 18-64 anni dell'11,8% ovvero 2,8 punti percentuali al di sopra della media UE-27.
In questo rapporto affrontiamo nello specifico il tema del salario quale prima, ma non unica, questione urgente su cui intervenire per aggredire il problema della povertà lavorativa e della diseguaglianza in Italia, a partire dalle filiere della moda.
In particolare, sulla scia della proposta di salario dignitoso nel settore TAC avanzata dall’European Production Focus Group relativamente ai paesi dell’Europa centrale, orientale e sudorientale, a sua volta ispirata all’iniziativa del 2009 dell’Asian Floor Wage Alliance per il continente asiatico, abbiamo calcolato un valore del salario minimo dignitoso pari a €1.905 netti mensili (ipotizzando una settimana lavorativa standard di quaranta ore settimanali, tale salario equivale a €11 netti all’ora).
Il concetto di salario minimo dignitoso a cui ci riferiamo, diritto umano riconosciuto nel diritto internazionale e nella nostra Costituzione, è definito come il valore della retribuzione base netta in grado di garantire al lavoratore e alla sua famiglia il soddisfacimento dei bisogni primari e condizioni di vita dignitose. Si differenzia dal salario minimo legale perché non si basa su valori di mercato. Sono considerati bisogni primari il cibo, il vestiario, i trasporti (abbonamenti ai trasporti pubblici), l’alloggio (spese per l’affitto o rate del mutuo, manutenzione ordinaria della casa), utenze domestiche (elettricità, riscaldamento, acqua, raccolta rifiuti, telefono, internet), istruzione, cultura e tempo libero, spese mediche ordinarie, vacanze (un viaggio della durata di una settimana per tutta la famiglia all’interno del proprio paese).
Il calcolo del salario dignitoso si basa su una metodologia piuttosto semplice, in modo da essere replicabile e aggiornabile nel tempo. L’idea centrale è quella di suddividere la spesa complessiva delle famiglie in due grandi componenti: spesa per generi alimentari e altre spese. Una volta definito il valore monetario della spesa alimentare familiare e assumendo che questa rappresenti una certa quota percentuale della spesa complessiva, otteniamo il valore del salario dignitoso come somma della spesa alimentare e della spesa non alimentare a livello familiare.
“Il pagamento di salari dignitosi a tutti i lavoratori della filiera, diritto umano e sociale fondamentale, rappresenta un passo determinante poiché obbligherebbe le imprese a produrre meno e meglio, con impatti potenzialmente positivi sul benessere dei lavoratori, sull’ambiente e sulla stessa economia. Si potrebbe così finalmente virare verso un nuovo modello di organizzazione di impresa più sostenibile, democratico e basato su un ripensamento dei tempi di vita e di lavoro” dichiara Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti
È noto che la povertà lavorativa sia un fenomeno complesso e multidimensionale e richieda pertanto una molteplicità di strumenti e di misure, di carattere economico, legislativo, contrattuale e culturale. Per questo, a corredo del salario dignitoso di base e per incentivare rapporti di lavoro stabili, sicuri e duraturi, nel rapporto auspichiamo l’attuazione di altre misure che potrebbero essere sperimentate a partire dal settore TAC per poi essere estese all’intera economia: l’introduzione di strumenti di integrazione e sostegno dei redditi da lavoro più bassi, il c.d in-work benefit e l’avvio di un percorso pluriennale e graduale di riduzione collettiva degli orari di lavoro, a parità di salario dignitoso di base, in un’ottica di netto miglioramento della qualità della vita per i lavoratori.
Le raccomandazioni alle istituzioni politiche e alle imprese dettagliate nel rapporto sono volte ad affrontare in maniera sistemica e strutturale il problema della povertà lavorativa nonché della urgente transizione verso una industria della moda sostenibile, che potrà dirsi tale solo se inclusiva, equa e democratica.
rapporto completo (ITA)
Sommario (ITA)
Full report (ENG)
SUMMARY (ENG)
EVENTO: Il salario dignitoso è un diritto universale
15 giugno | ore 11.00
Agenzia DIRE | Corso Italia 38/A, Roma
RSVP: priscilla.robledo@faircoop.it
max 40 posti
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La povertà lavorativa è una vera e propria piaga nazionale. Oggi più di un lavoratore su 10 può essere considerato povero mentre le statistiche ufficiali ci ricordano continuamente che l’Italia è maglia nera in Europa per bassi salari, perdita di potere d'acquisto dei lavoratori, precarietà e insicurezza sul lavoro. Di fronte all’ennesima grave crisi generata da una guerra orrenda e insostenibile, subito dopo quella prodotta dalla pandemia che ha gettato nella spirale della povertà oltre un milione di persone, sempre più lavoratori rischiano di essere poveri, grazie all’effetto combinato del blocco dei salari, dell’esplosione della precarietà e del costo della vita, oltre all’assenza di politiche strutturali a sostegno dei redditi.
Da sempre la Campagna Abiti Puliti, rete internazionale di attivisti, ong e sindacati, si occupa di difesa dei diritti umani e del lavoro nelle filiere globali della moda. Uno dei suoi obiettivi prioritari è il riconoscimento di un salario di base che permetta ai lavoratori e alle lavoratrici di vivere dignitosamente e così di ripartire più equamente il valore prodotto.
Nel rapporto che presentiamo viene applicata al nostro Paese la proposta dell’Europe Floor Wage a sua volta mutuata dal lavoro dell’Asia Floor Wage Alliance, un metodo di calcolo del salario dignitoso di base transfrontaliero per l’Europa. Il benchmark è stato calcolato per il comparto moda ma è estendibile agli altri settori produttivi.
Il concetto di salario dignitoso di base che proponiamo trova il suo fondamento nei diritti umani. Un concetto non subalterno alle logiche di mercato bensì ancorato ai bisogni reali dei lavoratori e delle loro famiglie, quindi al costo della vita.
Il rapporto intende essere uno strumento al servizio dei lavoratori, delle parti sociali e del legislatore, perché attui politiche e misure efficaci ad effettiva protezione dei lavoratori più vulnerabili, nonché volte all’eliminazione della povertà lavorativa e alla riduzione delle crescenti diseguaglianze in una prospettiva di genere.
Programma
All'evento seguirà un buffet
Saluti introduttivi
Simone Siliani
Direttore Fondazione Finanza Etica
Nicola Perrone
Direttore Agenzia DIRE
Saluti istituzionali*
Andrea Orlando
Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali*
Le proposte della Campagna Abiti Puliti sul Salario Dignitoso di base: un benchmark per l’Italia a partire dall’approccio metodologico della Clean Clothes Campaign per l’Europa
Deborah Lucchetti
Coordinatrice nazionale Campagna Abiti Puliti
I progetti di legge sul salario minimo legale in Italia. Sintesi ed evoluzione del confronto parlamentare
On. Susy Matrisciano
Senatrice e Presidente della XI Commissione permanente Lavoro pubblico e privato e presidenza sociale
Il lavoro povero in Italia: evidenza e riflessioni del Gruppo di Lavoro Ministeriale
Michele Raitano
Docente di Politica Economica, Sapienza Università di Roma e Membro del gruppo di esperti sul lavoro povero istituito dal Ministro del Lavoro
Salario decente e contrasto alla povertà
Chiara Saraceno
Sociologa e presidente del comitato scientifico di valutazione del Reddito di Cittadinanza (RdC)
Il ruolo delle Organizzazioni Sindacali sul salario dignitoso nel Sistema Moda
Sonia Paoloni
Segretaria Nazionale Filctem-CGIL
Corrispondere salari dignitosi è possibile
Matteo Ward
Imprenditore e attivista, co-founder di WRÅD
*in attesa di conferma
ADIDAS paghi subito le lavoratrici della Hulu Garment
I lavoratori tessili in Cambogia che hanno prodotto indumenti per Adidas, tra gli altri, sono stati privati di circa 109 milioni di dollari di salari solo nell'aprile/maggio 2021 (secondo una ricognizione dei sindacati in 114 fabbriche). In 8 di queste fabbriche più di 30.000 lavoratori e lavoratrici stanno ancora aspettando gli stipendi arretrati da marzo a maggio per un totale di 11,7 milioni di dollari (o 387 dollari pro capite). In particolare nella fabbrica Hulu Garment, l'intera forza lavoro è stata truffata per costringerli a dimettersi all'inizio della pandemia e devono avere 3,6 milioni di dollari.
I casi di furti salariali e di licenziamenti non retribuiti, aumentati massicciamente durante la pandemia, non sono un fenomeno nuovo. "Prima licenziati, poi derubati: lo dimostrano numerosi casi prima della pandemia. Aziende come Adidas lo fanno da decenni", dichiara Vivien Tauchmann, coordinatrice della campagna #PayYourWorkers.
La Clean Clothes Campaign Germany (Kampagne für Saubere Kleidung) parteciperà all'assemblea generale annuale di Adidas il 12 maggio come parte della campagna Pay Your Workers per chiedere all’azienda di assumersi le sue responsabilità mitigando in modo decisivo l'impatto della pandemia sui lavoratori della sua catena di fornitura.
Il problema è sistemico e quindi necessita di risorse adeguate e accordi vincolanti. Per questo, insieme a numerosi sindacati dei paesi produttori, chiediamo ad Adidas di firmare un accordo vincolante sui salari, sul trattamento di fine rapporto e sulla libertà di associazione per garantire che i lavoratori e le lavoratrici della sua catena di fornitura non siano mai più privati del loro pieno salario e del TFR.
Per i lavoratori e le loro famiglie è una questione di sopravvivenza. Per Adidas invece non è certo un problema economico: nonostante la pandemia, il fatturato del gruppo in un anno è aumentato del 15%, passando da 18.435 miliardi di dollari nel 2020 a 21.234 miliardi di dollari l’anno dopo, e solo nel primo trimestre del 2021, il gigante degli articoli sportivi ha guadagnato 650 milioni di dollari di profitti. E un ruolo decisivo nel generare guadagni è sicuramente stato giocato dall’impegno pubblico, ad esempio attraverso aiuti per la pandemia finanziati dalle tasse (come bonus a breve termine e rimborsi per i contributi), e dal lavoro dei suoi dipendenti, anche nel Sud del mondo. Gli azionisti e la direzione di Adidas Group dovrebbero quindi adempiere alla loro responsabilità sociale e investire una quota decisiva dei profitti in misure salariali e di sicurezza sociale per chi cuce i suoi abiti.
Ci aspettiamo e chiediamo anche, sulla scia della Call to Action dell'ILO e dell'impegno pubblico di Adidas per la legislazione europea sulla due diligence, che l'azienda assuma un ruolo di primo piano.
ATTIVATI
AIUTACI A DIFFONDERE LA CAMPAGNA PAY YOUR WORKERS
Rubare il trattamento di fine rapporto e i salari dei lavoratori non è una novità. @adidas ha fatto questo ai lavoratori per decenni e ha continuato durante la pandemia. I lavoratori in Cambogia aspettano milioni di salari non pagati 👀➡️ bit.ly/3tSq9Gh & bit.ly/372UpFa. #adidas 📢 #PayYourWorkers!
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.@adidas Avete monitorato quante delle vostre fabbriche fornitrici hanno chiuso o licenziato lavoratori durante la pandemia? #PayYourWorkers #RespectLabourRights
.@adidas Negozierete con i sindacati per firmare un accordo vincolante per porre fine al furto salariale nella vostra catena di fornitura? #PayYourWorkers #RespectLabourRights
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Unisciti a noi per chiedere ad @Adidas cosa stanno facendo per #PayYourWorkers e #RespectLabourRights nella loro catena di fornitura!
La Clean Clothes Campaign Germany (Kampagne für Saubere Kleidung) partecipa oggi all'assemblea generale annuale di Adidas. Abbiamo alcune domande per loro.
Cosa chiediamo:
Avete monitorato quante delle vostre fabbriche fornitrici hanno chiuso o licenziato lavoratori durante la pandemia?
Negozierete con i sindacati per firmare un accordo vincolante per porre fine al furto salariale nella vostra catena di fornitura?
Quanto denaro avete fornito alla Call to Action COVID-19 dell'ILO per l'industria dell'abbigliamento?
Aiutaci a fare queste domande sui loro social media!
Rana Plaza: a nove anni dal crollo
A nove anni dal crollo del Rana Plaza i marchi dell'abbigliamento continuano a mettere a rischio la vita delle lavoratrici
Nove anni fa, il 24 aprile 2013, crollava l'edificio Rana Plaza in Bangladesh uccidendo 1.138 persone: una tragedia annunciata ed evitabile. Oggi il nostro pensiero va a tutti coloro che hanno dovuto vivere quei momenti terribili e alle famiglie di quanti non sono sopravvissuti. Nove anni dopo, la lotta per le fabbriche sicure continua: purtroppo, infatti, alcuni marchi della moda continuano a rifiutarsi di mettere la sicurezza dei loro lavoratori e lavoratrici al primo posto. Per questo, il network della Clean Clothes Campaign chiede a tutte le aziende che non l'hanno ancora fatto di firmare immediatamente l'Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nel settore tessile e dell'abbigliamento.

Diversi marchi molto noti, come Levi's e IKEA, non hanno mai aderito all’Accordo Internazionale, un meccanismo di sicurezza creato in risposta al crollo giunto alla sua terza edizione. 171 brand che si riforniscono dal Bangladesh lo hanno invece sottoscritto, compresi i giganti della fast fashion come H&M, Inditex (Zara) e Fast Retailing (UNIQLO). La nostra inchiesta mostra come, rifiutandosi di aderire al programma e di sostenerne i costi, ma continuando a rifornirsi nelle fabbriche che vengono migliorate grazie ad esso, Levi's e IKEA non facciano altro che approfittare dei progressi senza impegnarsi finanziariamente e politicamente.
IKEA
Ad esempio è il caso di una fabbrica fornitrice di IKEA dal 2007, dove la prima ispezione dopo il crollo di Rana Plaza ha evidenziato diverse violazioni della sicurezza trascurate dal sistema di monitoraggio dell’azienda: la mancanza di porte ignifughe, la presenza di serrature su alcune delle porte di uscita, le crepe nei muri. Nel 2008 il programma ispettivo di IKEA aveva identificato esplicitamente i cablaggi elettrici difettosi come un rischio per la salute e la sicurezza; tuttavia l'ispezione del 2014 dell’Accordo non aveva riscontrato alcuna soluzione in merito. Molti di questi problemi sono stati invece risolti negli anni successivi, grazie al lavoro dell’Accordo internazionale e senza che IKEA contribuisse in alcun modo.
LEVI'S
O ancora è il caso di una fabbrica da cui si riforniva Levi’s dal 2011, dove gli ingegneri avevano trovato colonne portanti dell’edificio corrosi e l'impianto elettrico in pessimo stato, senza evidenze di regolari ispezioni. Tutti questi problemi sono stati risolti nei tre anni successivi senza che Levi’s contribuisse al programma di risanamento.
COSA CHIEDIAMO ALLE AZIENDE
Per garantire che il lavoro sulla sicurezza possa continuare, è vitale che tutti i marchi che si riforniscono in Bangladesh firmino l'Accordo il più presto possibile. Tra questi, oltre a Ikea e Levi’s, ci sono giganti come Gap, Target, VF Corporation (The North Face) e Canadian Tire. E marchi, come Auchan e Walmart, che hanno deciso di non assumersi le proprie responsabilità pur essendo tra gli acquirenti di una delle fabbriche tessili del Rana Plaza al momento del crollo. Le fabbriche da cui tutti questi marchi si riforniscono continuano ad avere molti degli stessi rischi per la sicurezza da sempre presenti nel settore anche prima della tragedia del Rana Plaza.
Affinché il lavoro dell'Accordo continui ad avere successo, è cruciale che l'implementazione sul campo sia fatta in modo efficiente e nell'interesse dei lavoratori innanzitutto. Esortiamo tutte le parti interessate a garantire che il lavoro dell'Accordo possa essere svolto come previsto, per permettere a chi lavora di sentirsi realmente al sicuro.
cosa puoi fare tu
Chiedi a Ikea e Levi's di firmare l'Accordo
9 anni nel crollo del #RanaPlaza sono morti 1.138 lavoratori. I marchi dell'abbigliamento e del tessile si sono impegnati a rendere l'industria più sicura. Ma non tutti: @Levis & @IKEA si rifiutano di firmare il @SafetyAccord ranaplazaneveragain.org/#act #ProtectProgress
Sappiamo che gli accordi vincolanti per la sicurezza funzionano. Sappiamo anche che i programmi di controllo dei marchi stessi INVECE NO. Eppure @IKEA & @Levis pensano ancora di poter fare meglio da soli che firmando il @SafetyAccord. #SignTheAccord! ranaplazaneveragain.org/#act
.@Levis & @IKEA, state mettendo a rischio i vostri lavoratori! Mentre più di 170 marchi hanno firmato il nuovo @SafetyAccord, voi vi rifiutate di rendere sicure le vostre fabbriche. I lavoratori non dovrebbero rischiare la vita. #SignTheAccord ranaplazaneveragain.org/#act
Le lavoratrici che cuciono le sue tende e gli asciugamani dovrebbero essere sicure quanto quelle che cuciono i suoi vestiti. Allora perché @IKEA non segue l'esempio di oltre 170 aziende di abbigliamento e firma il @SafetyAccord? Digli di agire ora: ranaplazaneveragain.org/#act
Nelle sue pubblicità @IKEA ci dice che ogni casa dovrebbe essere un paradiso.
Ma che dire delle fabbriche dove le lavoratrici cuciono i suoi asciugamani e le sue tende? Quelle possono essere un inferno? Chiedi a IKEA di firmare il @SafetyAccord ranaplazaneveragain.org/#act
Non puoi continuare a ignorare le tue lavoratrici, @Levis! Grazie a loro fai profitti, il minimo che tu possa fare è tenerli al sicuro. Firma ora il @SafetyAccord e assicurati che non debbano temere per la loro vita. 📨Invia un'e-mail a Levi's: ranaplazaneveragain.org/#act
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9 anni fa crollava l'edificio #RanaPlaza in Bangladesh. Oggi il nostro pensiero va a tutti coloro che hanno dovuto vivere questa tragedia evitabile e alle famiglie delle 1.138 persone uccise.
In questo anniversario ci fermiamo per ricordare, ma continuiamo anche la nostra battaglia per avere fabbriche più sicure. Usiamo questa giornata per chiedere ai marchi, come @levis & @ikea, che a nove anni dal crollo non hanno ancora mai fatto un passo per firmare l'Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nel settore tessile e dell'abbigliamento creato in risposta a quella tragedia, di assumersi le loro responsabilità. O per richiamare quelli che, nonostante si rifornissero al Rana Plaza, pensano di non dover contribuire alla sicurezza delle lavoratrici, come @Auchan_France. Vai su ranaplazaneveragain.org/#act per inviare un'e-mail ai brand che si sono rifiutati di firmare l'Accordo Internazionale.
#RanaPlazaNeverAgain
Le lavoratrici che cuciono tende e asciugamani dovrebbero essere al sicuro come quelle che cuciono i nostri vestiti. Ecco perché chiediamo a IKEA di firmare l'Accordo internazionale per la sicurezza e la salute.
Sappiamo che gli accordi vincolanti con un monitoraggio indipendente funzionano. Sappiamo anche che i programmi dei marchi che controllano se stessi NON funzionano.
L’Accordo ha lo scopo di rendere le fabbriche più sicure per le lavoratrici in Bangladesh e presto anche in altri Paesi. Eppure @IKEA pensa ancora di poter fare meglio da sola e continua a fare riferimento al suo programma IWAY, invece di firmare l'Accordo, come hanno già fatto oltre 170 aziende della moda. #IKEA, è ora che tu agisca. #SignTheAccord!
Levi's sta mettendo a rischio le sue lavoratrici. Mentre più di 170 marchi hanno firmato il nuovo Accordo internazionale sulla salute e la sicurezza, Levi's si rifiuta di rendere sicure le sue fabbriche. L'Accordo Internazionale è un programma vincolante attraverso il quale i marchi possono essere ritenuti responsabili per la sicurezza delle fabbriche, prima di tutto in Bangladesh, ma presto anche in altri Paesi.
È ora di dirlo a @Levis: Non potete continuare a ignorare le vostre lavoratrici! Grazie a loro fate profitti, il minimo che possiate fare è tenerle al sicuro. Non dovrebbero rischiare la vita per produrre i vostri jeans.
Chiedi a @Levis di #ProtectProgress e #SignTheAccord ora e assicurarsi che le lavoratrici non debbano temere per la loro vita sul posto di lavoro.
Manda un messaggio ai brand o lascia un commento commemorativo
La Strategia Europea per il Settore Tessile Circolare e Sostenibile
Il 30 marzo la Commissione europea ha pubblicato la propria Strategia per il Settore Tessile Circolare e Sostenibile. Essa contiene una serie di proposte che mirano a rendere i prodotti tessili circolanti sul mercato dell'Unione europea (UE) più durevoli e quindi più rispettosi dell'ambiente, circolari ed efficienti dal punto di vista energetico per tutto il loro ciclo di vita, dalla fase di progettazione all'uso quotidiano, al riuso e alla fine del ciclo di vita.
Prospettive ambiziose, ma nulla viene detto nella Strategia con riferimento agli aspetti sociali e gli impatti avversi sulle condizioni di lavoro nelle filiere tessili. La mancanza di considerazione dei diritti umani in questa Strategia è estremamente deludente: una quantità impressionante di prodotti tessili viene prodotta e venduta ogni anno, mettendo una pressione indicibile non solo sull'ambiente ma anche sulle persone.
Proprio alla luce della proposta sulla due diligence di sostenibilità aziendale, la strategia tessile dell'UE avrebbe potuto essere il luogo per una maggiore ambizione per il settore tessile e dell'abbigliamento. Invece di proporre un modo per affrontare le sfide e le specificità del settore - la preminenza delle PMI, l'importanza del salario minimo e del reddito minimo - la Strategia Tessile dell'UE fa semplicemente riferimento alle iniziative politiche in corso.
Milioni di lavoratori, la spina dorsale di questa industria tessile e dell'abbigliamento globale, hanno bisogno di più dalla Commissione europea. Puoi leggere la Strategia qui e il nostro commento (in inglese) qui.
Due Diligence: a che punto siamo
Il 23 febbraio la Commissione europea ha pubblicato una proposta di Direttiva sulla Due Diligence di sostenibilità aziendale: se approvata, questa direttiva imporrebbe alle aziende con operazioni globali di verificare che i propri fornitori rispettano i diritti umani dei propri lavoratori e lavoratrici e, in caso di abusi, di cooperare con i fornitori per risolverli. E’ un passo molto importante che ha il potenziale di migliorare in modo sistematico le filiere. Da un lato vorremmo che anche i legislatori di altre parti del mondo seguissero l’iniziativa dell’UE, dall’altro la proposta di direttiva va migliorata. Ora il procedimento prevede un passaggio al Parlamento europeo e al Consiglio: noi lavoreremo per ottenere modifiche sostanziali al testo. La Campagna Abiti Puliti chiede da anni l’introduzione di norme vincolanti sulla due diligence di filiera
- leggi alcuni approfondimenti qui e qui
- Leggi il testo della proposta qui
- il nostro commento alla proposta qui
Anonymous people on the silk road
La Campagna Abiti Puliti sostiene il progetto di ricerca indipendente Anonymous people on the silk road: l'obiettivo dei promotori è quello di creare una serie di articoli e rapporti incentrati sullo sfruttamento dei lavoratori cinesi a Prato, in Italia e potenzialmente in tutta Europa.
Chiunque volesse contribuire può donare qui
Il progetto
Siamo un gruppo di giornalisti residenti in Europa che sta lavorando assieme da più di un anno per svelare una moderna forma di schiavitù: l'uso di manodopera cinese a basso costo nelle industrie di moda italiane.
Il nostro progetto vuole svelare le storie di quanti hanno attraversato il globo intero, spesso in condizioni disumane, solo per lavorare senza alcun diritto, nemmeno quello di un’identità.
Il lavoro segue il solco di precedenti indagini condotte sulle violazioni dei diritti umani e sulla tratta internazionale di esseri umani. Quello che vogliamo mostrare è l'impatto che questo sistema disumano ha non solo su quanti ne sono soggetti, ma anche su tutta la catena del pronto moda italiano e più in generale sul mercato interno dell’Unione Europea, il tutto alla luce della partnership siglata dall’Italia per la Nuova Via della Seta e della tentacolare attività della mafia cinese sul suolo italiano.
Cosa vogliamo fare
Il nostro gruppo è composto da giornalisti professionisti con base in Grecia, Polonia e Italia.
Il nostro obiettivo è quello di creare una serie di articoli e rapporti incentrati sullo sfruttamento dei lavoratori cinesi a Prato, in Italia e potenzialmente in tutta Europa.
Questo progetto si propone di ripercorrere le rotte commerciali e le storie dei cinesi "anonimi" Wu Ming che lasciano la loro terra d'origine per l'Europa solo per lavorare come manovali a basso costo nelle catene di produzione del fast fashion nei maggiori distretti commerciali d'Italia.
Partendo dunque dalle loro storie individuali e dalle potenziali violazioni del diritto internazionale, la nostra ricerca si espanderà per discutere l'impatto di questa forza lavoro sull'economia locale, anche nel contesto dell'iniziativa Belt and Road, il mastodontico piano di sviluppo internazionale lanciato dal governo cinese.
Cercheremo dunque di capire, attraverso il materiale raccolto sul campo tra cui interviste a politici e esperti di criminalità organizzata e di moda, lavoratori cinesi, nonché uomini d'affari italiani e cinesi, la gravità dello sfruttamento in atto. Tali violazioni dei diritti umani sono in gran parte sconosciute a tutti coloro che in tutto il mondo stanno acquistando l'abbigliamento Made in Italy.
Chi siamo
Siamo giornalisti professionisti esperti nel lavorare in reportage collaborativi, e siamo già stati pubblicati in importanti pubblicazioni nazionali e internazionali. Abbiamo scelto di rimanere anonimi fino alla fine di questo progetto data la sua sensibilità e i potenziali rischi connessi alla nostra sicurezza.
La metà di noi parla la lingua cinese e diversi membri del team hanno scritto di crisi internazionali e diritti umani per oltre un decennio.
Perché ora
L'infiltrazione del governo cinese nell'economia italiana è stata ampiamente discussa negli ultimi anni. Panorama, una delle principali riviste investigative italiane, ha anche scritto sui legami tra le mafie cinesi e italiane che coinvolgono la tratta di esseri umani e il riciclaggio di denaro.
Tuttavia, tali storie hanno appena scalfito la superficie. Non hanno posto domande difficili, come ad esempio se le autorità italiane stiano effettivamente adottando misure per affrontare la situazione. La nostra indagine mira a scavare più a fondo partendo dalla nostra ricerca preliminare. Parte di ciò significa comprendere meglio l'identità di coloro che arrivano in Europa con grandi rischi finanziari e personali
Due Diligence: un passo avanti, ma strada ancora lunga
La Campagna Abiti Puliti accoglie con cautela la proposta sulla due diligence aziendale sostenibile che la Commissione Europea (CE) ha pubblicato ieri dopo diversi mesi di ritardo. Sebbene crediamo che l'introduzione generale di un obbligo vincolante per le aziende di effettuare la due diligence sui diritti umani e sull'ambiente sia un importante passo avanti, la proposta resta al di sotto delle nostre raccomandazioni su alcuni aspetti chiave. Chiediamo al Parlamento europeo e al Consiglio dell'Unione europea, chiamati ora a negoziare un testo finale, di accogliere le nostre proposte con l’obiettivo di migliorare concretamente le condizioni dei lavoratori e degli altri titolari di diritti.
Bene l'inclusione esplicita della libertà di associazione e di contrattazione collettiva, del salario vivibile e della salute e sicurezza dei luoghi di lavoro tra gli impatti sui diritti umani che le aziende dovranno affrontare.
Così come consideriamo positivo, anche se con serie riserve, la possibilità di ritenere le aziende responsabili dei danni ai diritti umani nelle loro catene di valore. Esortiamo il Parlamento europeo e il Consiglio a rafforzare ulteriormente la responsabilità delle imprese e l'accesso delle vittime alla giustizia. Alle aziende non deve essere permesso di trasferire la loro responsabilità lungo la catena del valore attraverso i contratti o di sfuggire alla piena responsabilità in qualsiasi altro modo. Chiediamo inoltre che vengano smantellate le barriere che le vittime affrontano nelle controversie transnazionali
"L'incendio mortale della Ali Enterprises in Pakistan è un tragico esempio di ciò che è in gioco: la società di revisione italiana R.I.N.A. aveva certificato come sicura una fabbrica di indumenti solo poche settimane prima dell'incendio in cui morirono oltre 250 persone. Con una direttiva efficace, le famiglie delle vittime avrebbero potuto ottenere giustizia, anche nei confronti dell’Auditor R.I.N.A. Invece al momento c’è il vuoto pneumatico intorno alle vittime. Persino una interrogazione parlamentare depositata a dicembre nei confronti del Ministero dei Trasporti (che indirettamente controlla RINA) non ha ancora ricevuto risposta e, a distanza di un decennio, le famiglie delle vittime devono ancora lottare per avere piena giustizia”, ha dichiarato Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti.
Tra gli aspetti negativi della proposta, invece, segnaliamo innanzitutto la scelta di applicare la direttiva solo ad aziende di grandi dimensioni, con più di 150 milioni di fatturato e 500 dipendenti, che diventano 40 milioni di fatturato e 250 dipendenti se attive nei settori ad alto rischio - come il tessile, l'abbigliamento e le calzature - ma con un'ulteriore limitazione al solo “impatto negativo grave”. Un’indicazione in contrasto con i principali standard internazionali accreditati, quali i Principi Guida delle Nazioni Unite su Imprese e Diritti umani. La Campagna Abiti Puliti chiede che tutte le imprese, indipendentemente dalla loro dimensione o struttura aziendale, siano coperte dalla legislazione.
"Con riferimento al settore tessile, queste soglie minime sono molto deludenti e costituiscono una scappatoia per le numerosissime piccole e medie imprese attive in questo settore. I dirigenti delle imprese di moda che alimentano le catene globali di fornitura, potranno continuare ad operare senza una reale responsabilità per le violazioni dei diritti umani che avvengono ordinariamente nelle fabbriche in tutto il mondo. È una pessima notizia per molti dei lavoratori e lavoratrici che producono abbigliamento, calzature e accessori venduti nei negozi europei", ha detto Neva Nahtigal della Clean Clothes Campaign.
Un'altra area chiave in cui i co-legislatori dell'UE hanno bisogno di mettere fermamente al centro i titolari di diritti è l'applicazione delle regole proposte al di là dei fornitori diretti. La Clean Clothes Campaign ha sempre sottolineato che i sistemi di lavoro semi-formali e informali, così come il subappalto non ufficiale e il lavoro a domicilio devono essere presi in considerazione in tutte le misure di regolamentazione.
"La proposta ha aperto un buon percorso che dovrà essere rafforzato per assicurare che tutti i lavoratori siano protetti. Molti dei più gravi abusi dei diritti umani, tra cui il lavoro forzato e il furto di salario, si verificano più in basso nella catena del valore" ha detto Muriel Treibich di Clean Clothes Campaign, notando anche l'impegno per una nuova iniziativa legislativa che vieta l'immissione sul mercato dell'UE di prodotti realizzati con lavoro forzato, annunciato lo stesso giorno nella "Comunicazione sul lavoro dignitoso a livello mondiale per una transizione globale giusta e una ripresa sostenibile".
"Con questa proposta, l'Unione Europea ha un'occasione irripetibile per regolamentare la condotta delle aziende che hanno causato o sono collegate a violazioni dei diritti umani in tutto il mondo, proteggendo molti milioni di persone che fabbricano i prodotti che noi cittadini europei usiamo quotidianamente. Tra le altre cose, i legislatori devono garantire che le aziende adattino le loro pratiche di acquisto. Questo non è possibile senza la mappatura della catena del valore e la tracciabilità che, insieme alla trasparenza, devono diventare uno dei fondamenti obbligatori della due diligence in generale", ha detto Muriel Treibich.
La Campagna Abiti Puliti invita il Parlamento europeo e il Consiglio dell'Unione europea a cogliere questa opportunità e ad adottare una legislazione che risponda adeguatamente alle sfide fondamentali e alle disuguaglianze strutturali delle catene del valore di oggi.
Note:
- Le Raccomandazioni della rete globale della Campagna Abiti Puliti sulla due diligence dei diritti umani sono contenute nel position paper "Fashioning Justice" che riassume anche alcune delle questioni chiave dell'industria dell'abbigliamento. È disponibile all'indirizzo: https://www.abitipuliti.org/news/quel-giorno-in-cui-i-diritti-iniziarono-a-fare-tendenza/
- Il nostro recente paper, co-pubblicato con Public Eye, SOMO e ECCHR: ELEMENTI CHIAVE PER UNA LEGGE SULLA HUMAN RIGHTS DUE DILIGENCE. DAI PRINCIPI ALLA PRATICA: UN APPROFONDIMENTO che fornisce indicazioni specifiche su cosa dovrebbero contenere le leggi sulla due diligence per evitare greenwashing. Il documento integrale è disponibile all'indirizzo: https://cleanclothes.org/file-repository/2022_publiceye_respecting-rights_report.pdf/view
qui una traduzione riassuntiva in italiano: https://docs.google.com/document/d/1M7CVNQJ7ZiaoDoCOADeqb9Zo7NOc3XSwQV90e4cduLw/edit
Nike paghi subito le lavoratrici Ramatex
MAIL BOMBING
A NIKE E MATALAN
COMPILA IL FORM CON I TUOI DATI PER MANDARE SUBITO UNA MAIL AI VERTICI DELLE DUE AZIENDE
Più di 1.200 lavoratrici dell'abbigliamento in Cambogia hanno perso il loro lavoro nel luglio 2020 quando la fabbrica Violet Apparel, di proprietà della società Ramatex, ha improvvisamente chiuso. Nike è il più grande acquirente di Ramatex.
Le lavoratrici chiedono un risarcimento, così come i loro bonus legalmente dovuti e i salari non pagati. Ramatex è un'azienda di grande successo che possiede fabbriche in tutto il sud-est asiatico, ma si è rifiutata di pagare la liquidazione e i salari arretrati che gli sono dovuti.
Senza Nike, non ci sarebbe Ramatex. Ecco perché esortiamo Nike ad assumersi la responsabilità di garantire che questi lavoratori siano pagati. Anche il marchio britannico Matalan è legato alla fabbrica, e quindi invitiamo anche loro ad agire.
Nike nega ogni responsabilità. Sostengono che non si rifornivano dalla fabbrica Violet Apparel al momento della chiusura. Questa è sia una bugia che irrilevante. Nike è il più grande acquirente di Ramatex, e quindi deve assumersi la sua responsabilità. Inoltre, abbiamo foto e testimonianze delle lavoratrici che dimostrano che l'affermazione di Nike di aver lasciato Violet nel 2006 è falsa. Nike è l'azienda che ha più potere su Ramatex e che deve garantire che le lavoratrici siano pagate
Con la Campagna #PayYourWorkers chiediamo a Nike di:
- Pagare ai lavoratori che producono i loro abiti il salario intero che gli spetta per tutta la durata della pandemia;
- Assicurarsi che i lavoratori non restino mai più senza un soldo se la loro fabbrica fallisce, sottoscrivendo un fondo di garanzia di fine rapporto;
- Tutelare il diritto dei lavoratori ad organizzarsi e a negoziare collettivamente.
ATTIVATI
AIUTACI A DIFFONDERE LA CAMPAGNA PAY YOUR WORKERS
#InternationalWomensDay Sosteniamo le lavoratrici della fabbrica Ramatex in Cambogia che hanno perso il loro lavoro e sono rimaste senza niente dopo anni di produzione per @nike & @matalan. Entra in azione su https://www.abitipuliti.org/payyourworkers/ e dì a questi marchi #PayYourWorkers
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Le donne che producevano i vestiti per @Nike & @Matalan per molti anni sono rimaste senza reddito né compenso proprio nei primi mesi della pandemia. Da allora lottano per i loro diritti. Aggiungi la tua voce alla loro: https://www.abitipuliti.org/payyourworkers/ #PayYourWorkers #IWD2022
Nell'ultimo trimestre del 2021, @Nike ha avuto un fatturato di 11,4 MILIARDI di dollari e un utile netto di 1,3 MILIARDI di dollari. I lavoratori in Cambogia aspettano 1,4 MILIONI di dollari in risarcimenti e danni: noccioline per Nike. #PayYourWorkers https://www.abitipuliti.org/payyourworkers/
USA TESTO E IMMAGINI SU FACEBOOK E INSTAGRAM
SCRIVILO A NIKE!
In occasione dell'#InternationalWomensDay stiamo sosteniamo le lavoratrici della fabbrica Ramatex in Cambogia che hanno perso il loro lavoro e sono rimaste senza niente dopo anni di produzione di vestiti per @nike e @matalan. Le donne che hanno lavorato per questi marchi per molti anni sono state lasciate senza reddito o compenso proprio nei primi mesi della pandemia. Da allora stanno lottando per i loro diritti. Aggiungi la tua voce alla loro e sostieni la loro lotta. Scopri come entra in azione su: https://www.abitipuliti.org/payyourworkers/
#IWD2022 #PayYourWorkers #RespectLabourRights #NikeWomen
Victoria's Secret paghi subito tutte le lavoratrici e i lavoratori
La fabbrica Brilliant Alliance Thai Global ha chiuso nel marzo 2021, lasciando senza lavoro 1.388 lavoratrici, che cucivano lingerie per Victoria's Secret, Torrid e Lane Bryant. Il 10 marzo, le lavoratrici sono arrivate alla fabbrica per il loro turno regolare ma l’hanno trovata definitivamente chiusa. Molte di loro avevano cucito prodotti di Victoria's Secret per 15 anni - inizialmente quando la fabbrica si chiamava Body Fashion e poi continuando dopo il cambio in Brilliant Alliance.
Il governo thailandese ha stabilito quello stesso mese che l'azienda aveva violato il diritto del lavoro thailandese e ha ordinato di pagare l'equivalente di 7,81 milioni di dollari in risarcimento alle lavoratrici entro 30 giorni. Più di sei mesi dopo, Brilliant Alliance non ha pagato un centesimo.
Con la Campagna #PayYourWorkers chiediamo a Victoria's Secret di:
- Pagare ai lavoratori che producono i loro abiti il salario intero che gli spetta per tutta la durata della pandemia;
- Assicurarsi che i lavoratori non restino mai più senza un soldo se la loro fabbrica fallisce, sottoscrivendo un fondo di garanzia di fine rapporto;
- Tutelare il diritto dei lavoratori ad organizzarsi e a negoziare collettivamente.
FIRME RACCOLTE:
ATTIVATI
Per 15 anni, le lavoratrici di Brilliant Alliance hanno prodotto reggiseni per @VictoriasSecret. Sei mesi fa, sono state licenziate senza preavviso o liquidazione quando la loro fabbrica ha chiuso. Victoria's Secret, #PayYourWorkers payyourworkers.org/bat #VSForTheHolidays
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.@VictoriasSecret @lanebryant @torrid dite di sostenere le donne, ma le lavoratrici in Thailandia che hanno cucito la vostra lingerie aspettano SETTE MILIONI DI DOLLARI dopo la chiusura della loro fabbrica payyourworkers.org/bat #VSVoices #CreateYourLane #FeelTheFit
.@VictoriasSecret dice di voler ascoltare #VSVoices - ma questo non include le lavoratrici che hanno cucito la lingerie che vendono. payyourworkers.org/bat #PayYourWorkers #VSForTheHolidays
Ali Enterprises - RINA: presentata interrogazione parlamentare
Tragedia nella fabbrica tessile pakistana Ali Enterprise: la società italiana RINA spa aveva rilasciato da poco la certificazione SA8000 per la sicurezza sul lavoro. Un’interrogazione parlamentare riapre la questione.
Il punto di vista della Campagna Abiti Puliti
22 dicembre 2021 - La Campagna Abiti Puliti è soddisfatta per l’iniziativa dei senatori Gianni Pietro Girotto, presidente della X Commissione Attività Produttive del Senato, Iunio Valerio Romano, Sergio Vaccaro e Sergio Puglia, che lo scorso 21 dicembre hanno depositato un’interrogazione parlamentare rivolta al Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili (MIMS) con riferimento all’attività della società di audit e certificazione RINA SPA (Atto di Sindacato Ispettivo del Senato n. 4-06394).
Oggetto della richiesta di chiarimenti è la nota vicenda dell’incendio della fabbrica pakistana Ali Enterprise che nel 2012 costò la vita ad oltre 250 persone, fra cui 12 lavoratori minorenni. In quell’occasione, la società RI&CA, su mandato di RINA, aveva effettuato un audit presso la fabbrica appena quattro settimane prima dell’incendio, rilasciando la certificazione sociale SA8000 che attesta tra le altre cose la conformità della struttura in termini di sicurezza.
RINA è una società per azioni al 70% di proprietà del Registro Navale Italiano, nel cui Consiglio di Amministrazione siedono due membri del Ministero. Il MIMS è quindi almeno politicamente responsabile delle azioni della sua controllata RINA, che si definisce il "terzo attore internazionale nel campo della responsabilità sociale delle aziende" e che nel 2019 ha dichiarato ricavi netti pari a 476 milioni di Euro.
Nel caso specifico la Ali Enterprise certificata come sicura da RINA aveva un piano ammezzato in legno costruito illegalmente, chiaramente visibile da uno degli ingressi ma non menzionato nel rapporto di ispezione e non isolato dal magazzino dove è scoppiato l’incendio; presentava al piano terra un accumulo di materiali infiammabili, non adeguatamente separati; aveva un sistema di allarme antincendio non funzionante e l’unico estintore presente non funzionava; aveva una sola uscita di sicurezza per 1.000 lavoratori, mentre le altre erano sbarrate; infine, non aveva la scala di sicurezza esterna. Un’accurata simulazione, condotta dalla società Forensic Architecture e commissionata dallo European Center for Constitutional and Human Rights, ha dimostrato che se tali mancanze e infrazioni fossero state identificate nell’audit e corrette per tempo al fine di ottenere la certificazione SA8000, l’incendio non avrebbe causato quel numero di morti e feriti.
Per richiamare RINA alle sue responsabilità l’associazione delle famiglie delle vittime, insieme ad altre realtà della società civile e sindacali, l’11 settembre 2018 ha presentato un reclamo al Punto di Contatto Nazionale (PCN) dell’OCSE presso il Ministero dello sviluppo economico che ha dato inizio a una procedura di mediazione. Tuttavia dopo diversi mesi di negoziazione, RINA si è rifiutata di firmare un accordo e si è sempre dichiarata non responsabile per quanto accaduto.
“Il controsenso è evidente” ha dichiarato Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti e parte ricorrente insieme all’associazione delle famiglie delle vittime e a diverse altre organizzazioni della società civile; “se l’audit avesse rilevato le deficienze strutturali della fabbrica, la Ali Enterprise avrebbe dovuto porvi rimedio per ottenere la certificazione, con la probabile conseguenza che 250 persone avrebbero potuto lavorare in sicurezza anziché morire bruciate vive. RINA è sempre in tempo a dimostrare che intende cambiare pagina, per esempio dando seguito alle richieste delle vittime, in parte riprese nelle raccomandazioni finali del PCN italiano nei confronti dell’azienda ”.
Il comportamento disinvolto della società RINA nel concedere certificazioni sociali è stato più volte oggetto di scandali e inchieste pubbliche. Ma il diniego di ogni responsabilità e la completa sottrazione alla giustizia da parte di una azienda che opera a livello mondiale nel settore della pubblica fede e che è collegata al Ministero dei Trasporti mina la credibilità degli apparati di controllo pubblico italiani. “Tragedie come quella oggetto dell’interrogazione semplicemente non dovrebbero mai essere avvenute né dovrebbero ripetersi in futuro.” ha dichiarato il senatore Girotto. “Lo scopo della mia interrogazione pertanto è duplice: per il passato, fare chiarezza sulle responsabilità, e per il futuro, una volta individuato chi deve rispondere di quanto avvenuto, compiere tutte le necessarie operazioni per ridurre al minimo possibile i rischi di incidenti sul lavoro. Non voglio nemmeno entrare nell’aspetto etico e morale di quanto in oggetto, talmente è evidente, semplicemente ho fatto e farò tutto quanto in mio potere per trasformare le parole in coerenti fatti concreti.”
La palla passa ora al Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili. Che tipo di controlli o azioni positive eserciterà il Ministro Giovannini per richiamare RINA alle proprie responsabilità, a partire dalle raccomandazioni espresse dal PCN in seno al Ministero dello Sviluppo Economico al termine della mediazione conclusa a fine 2020? Come il Ministro intende assicurarsi che siano svolte le funzioni di vigilanza sull’operato delle sue partecipate in materia di condotta responsabile e, in particolare, come intende farlo anche in futuro nei riguardi di RINA S.p.A?
Come affermare le responsabilità delle società di audit sociale quando i loro report non evidenziano i problemi (e poi accadono incidenti)?
Campagna Abiti Puliti, insieme al network internazionale della Clean Clothes Campaign e ad altre realtà e organizzazioni impegnate nella tutela dei diritti umani, conduce da tempo un’attività di sensibilizzazione sull’industria dell’audit sociale, sottolineando la tolleranza delle società di certificazione rispetto a condizioni inaccettabili e abusanti nelle fabbriche di cui si avvalgono i brand internazionali. È ora che l'industria dell'audit sociale sia chiamata a rispondere delle affermazioni false o negligenti che nascondono la verità degli abusi contro i lavoratori.
Nell’ambito di questo lavoro abbiamo collaborato con il Business and Human Rights Resource Center alla produzione di uno studio sulle responsabilità giuridiche degli auditors, conducendo un'analisi legale sui procedimenti civili e penali presentati fino ad oggi contro le società di audit sociale, e i sistemi di certificazione associati, per esplorare potenziali strategie di contenzioso.
Qui l’executive summary in italiano del rapporto, che si può leggere in forma integrale (in inglese) qui. Nel rapporto sono contenute anche alcune proposte di riforma del diritto contrattuale e della procedura civile necessarie per permettere alle vittime di abusi di difendersi in giudizio e ottenere il risarcimento dei danni contro le società di audit sociale per le carenze dei loro audit.
Ecco i punti chiave dello studio:
- Fare causa alle società di audit sociale è, finora, una strategia poco battuta:
Le due cause legali intraprese contro le società di audit sociale fino ad oggi non sono state vittoriose. Al fine di assicurare la responsabilità legale delle società di audit sociale è necessario dunque procedere a riforme del diritto contrattuale e della procedura civile. - Le azioni da parte dei consumatori (es. class action) contro i sistemi di certificazione possono far emergere la pratica del "fair washing" di tali pratiche, ma non permettono l'accesso a un rimedio legale per i lavoratori o le comunità colpite né un risarcimento a loro favore.
- Le imprese di auditing sociale devono essere soggette alla legislazione obbligatoria sui diritti umani e la due diligence ambientale (mHREDD).
- Gli audit e le certificazioni sociali non equivalgono alla due diligence sui diritti umani: la due diligence sui diritti umani è fondamentalmente diversa dall'auditing sociale nel suo approccio, scopo e ambizione. Nuove leggi e regolamenti, quali ad esempio la direttiva europea attualmente in corso di discussione, non devono equiparare gli audit sociali alla due diligence sui diritti umani, o vederli come un sostituto plausibile.
Diamoci una regolata! Dal non profit nasce la campagna Impresa2030
Per una direttiva europea che imponga alle imprese il rispetto dei diritti e dell’ambiente
Prende il via oggi, 21 ottobre, Impresa2030, Diamoci una regolata, la campagna nazionale per una direttiva europea che imponga alle imprese di tutelare i diritti umani e dell'ambiente, prevendendo qualsiasi abuso collegato direttamente alle proprie attività economiche o a quelle dei propri fornitori.
La Commissione Europea sta già lavorando al testo della Direttiva che verrà presentato entro la fine dell'anno al Parlamento europeo e al Consiglio dell'UE e le organizzazioni promotrici spingono affinché i Ministri e gli Europarlamentari italiani sostengano una proposta forte ed efficace, senza cedere alla pressione di quei settori industriali che si oppongono a obblighi e responsabilità chiare. Proprio in quest’ottica sono numerose le campagne gemelle nate o in fase di avvio in una decina di altri Stati membri dell’Unione Europea.
Impresa2030, Diamoci una regolata è promossa da un network di organizzazioni già impegnate nella difesa dei diritti umani nella propria azione quotidiana, esse sono: ActionAid Italia, Equo Garantito, Fair, Focsiv, Fondazione Finanza Etica, Human Rights International Corner (HRIC), Mani Tese, Oxfam Italia, Save the Children e WeWorld.
"Le imprese multinazionali si trovano oggi ad operare in tutto il mondo in un contesto di sostanziale impunità - dichiara Giosuè De Salvo (Mani Tese), portavoce della campagna - Molte di loro sono coinvolte in devastazioni ambientali, violazioni sistematiche dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, espulsioni di popoli indigeni e sfruttamento del lavoro minorile".
Tre i dati più significativi, si citano: i 16 milioni di persone sottoposte a forme moderne di schiavitù lungo le filiere produttive globali; i 287 difensori dei diritti umani uccisi, nel solo 2020, perché impegnati nella difesa dell’ambiente e dei popoli indigeni da iniziative economiche ad alto impatto; le prime 20 imprese energetiche del mondo che hanno emesso da sole il 35% dei gas climalteranti dal 1965 ad oggi.
Proprio alla luce di questi dati, arriverà la proposta di direttiva della Commissione Europea. Si tratterà di una norma di due diligence (dovuta diligenza), che imporrà alle imprese di adottare politiche e pratiche efficaci nel garantire che i diritti umani e gli ecosistemi non siano violati né dalle operazioni da loro direttamente intraprese, né all’interno delle catene di fornitura di cui si avvalgono a livello globale.
"Quando la Commissione avrà elaborato la direttiva, sarà importante evitare che nel corso della negoziazione tra Stati Membri e Parlamento Europeo, il testo di partenza risulti indebolito - dichiara Martina Rogato (HRIC), portavoce della campagna - "Per questo, come organizzazioni della società civile abbiamo lanciato questa campagna, e con essa un appello, rivolto a decisori politici italiani ed europei, cui chiediamo di farsi portatori di una nuova cultura di impresa, che metta al primo posto i diritti delle persone e dell’ambiente, subordinando a questi i profitti".
La campagna richiede - come previsto dai Principi Guida ONU su Imprese e Diritti Umani - che la direttiva contempli tre assi fondamentali: il dovere degli Stati di proteggere dagli abusi e dalle violazioni; la responsabilità delle imprese, di far rispettare i diritti umani in tutti i passaggi della propria filiera; l’accesso alla giustizia da parte delle vittime di violazioni.
L’attività dei prossimi mesi sarà dedicata alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica e dei mass media, all’attivazione delle altre associazioni e dei cittadini e delle cittadine e alla pressione verso le istituzioni a cui spetteranno le decisioni finali.
"Fair da 15 anni è impegnata in campagne per la giustizia sociale, in particolare nella difesa dei diritti delle lavoratrici tessili attraverso il coordinamento della Campagna Abiti Puliti, coalizione italiana del network internazionale della Clean Clothes Campaign. Le violazioni strutturali che affliggono i lavoratori tessili lungo catene di fornitura opache e frammentate ci spingono ad affermare che non c'è tempo da perdere, il sistema impresa a livello mondiale è chiaramente responsabile della grave condizione in cui versano i diritti umani, del lavoro e dell'ambiente nel mondo. Le nostre aziende hanno il potere economico di fare la differenza sulle sorti del mondo. Quasi il 90% dei cittadini europei è d'accordo con noi sulla necessità di una legislazione forte a tutela delle persone e dell'ambiente, l'Europa deve ascoltarli", dichiara Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti
WEBINAR: Per chi è il tuo femminismo? Discriminazione di genere nell'industria globale della moda
Vestiti e scarpe in bella mostra nei negozi sono passati per le mani di molte donne prima che i consumatori li possano acquistare. La maggior parte di queste donne viene sfruttata in un ambiente di lavoro ostile.
Attraverso costose campagne pubblicitarie, i marchi di moda cercano di convincere i consumatori e la società in generale che producono e vendono "in modo sostenibile", e alcuni hanno anche iniziato a usare la parola d'ordine "femminismo" come slogan sulle loro camicie.
Tuttavia, la realtà delle donne lavoratrici nelle fabbriche di abbigliamento di tutto il mondo non corrisponde affatto a questa immagine. Vi invitiamo a sentire dalle donne stesse cosa significa lavorare nel settore dell'abbigliamento, cosa significa affrontare la discriminazione e le molestie nelle fabbriche ma anche come le donne si organizzano per cambiare la situazione.
Webinar
21.10.2021
17.00 - 19.30 CEST
Registrati all'evento
Dopo la registrazione, riceverai un'email di conferma contenente informazioni sulla partecipazione all'incontro
Lingua
L'evento si terrà in inglese e fornirà una traduzione simultanea in italiano.
--- Speakers ---
Vivien Tauchmann
a designer, researcher and educator, exploring socio-political relations through kinaesthetic approaches.
Sofia Ashraf
a digital content creator, rapper and writer . Brought up in an austere and orthodox Muslim household in Tamil Nadu (India), Sofia’s objective is to help girls like her fight moral policing to heed their true calling
ReSew
a sewing cooperative located in Kiev, Ukraine. They are united by their love for sewing, design, as well as social and environmental activism. They like to
reflect subjects such as discrimination and working conditions.
Parvathi Madappa
a social worker dedicated to
garment workers and their families. She has been working with Cividep India for the past 6 years. Cividep engages directly with workers in India’s most significant export sectors and supports workers with trainings about their rights.
Emina Abrahamsdotter
an expert on gender. Working at FLER (Foundation for local economic development) in Bosnia Herzegovina, she will report on gender based violence in the fashion industry of
Southeast Europe.
Marie-Pascale Gafinen
she will capture the event in a live
illustration. Her graphic documentations are to spark
attention, communicate messages, motivate and make
the invisible tangible.
Anannya Bhattacharjee
Moderatrice
Asia Floor Wage Alliance
Nike paghi subito tutti i lavoratori e le lavoratrici
Oggi 6 ottobre, gli azionisti di Nike si riuniscono per l'Assemblea generale annuale. Mentre milioni di lavoratori e lavoratrici sono rimasti senza lavoro, stipendio e indennità di licenziamento, discuteranno di profitti e successi.
A settembre Nike ha dichiarato 12,2 miliardi di dollari di ricavi per il suo primo trimestre conclusosi il 31 agosto 2021, in crescita del 16% rispetto al 2020. Il patrimonio netto personale del co-fondatore di Nike Phil Knight è stimato in 50,7 miliardi di dollari.
Si tratta di profitti enormi che le danno la forza economica per intervenire nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici. Nike deve darsi una mossa. Ha il potere e i soldi per farlo!
Con la Campagna #PayYourWorkers chiediamo a Nike di:
- Pagare ai lavoratori che producono i loro abiti il salario intero che gli spetta per tutta la durata della pandemia;
- Assicurarsi che i lavoratori non restino mai più senza un soldo se la loro fabbrica fallisce, sottoscrivendo un fondo di garanzia di fine rapporto;
- Tutelare il diritto dei lavoratori ad organizzarsi e a negoziare collettivamente.
FIRME RACCOLTE:
ATTIVATI
Mentre @Nike guadagnava miliardi, le sue lavoratrici venivano licenziate senza stipendi e indennità. Alle operaie della Violet Apparel spettano poco più di 343174 dollari. Meno dell'1% (0,02%) di quanto Nike ha guadagnato nell'ultimo trimestre. #PayYourWorkers.
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1200 lavoratrici in Cambogia hanno perso il lavoro quando la fabbrica Violet Apparel, fornitrice di @nike, improvvisamente ha chiuso nel 2020. Non sono le uniche: migliaia di lavoratrici della catena di fornitura di Nike hanno subito privazioni dei salari. Nike, #PayYourWorkers
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Tante idee e suggerimenti per
le tue azioni offiline
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Trasparenza e salari dignitosi: nuovi dati sui marchi della moda
Nuovi dati su Fashion Checker mostrano quanto la trasparenza sia fondamentale per chiedere ai marchi di impegnarsi per non lasciare nell’indigenza le proprie lavoratrici durante la pandemia
Molti marchi fanno promesse e affermazioni sul rispetto dei diritti delle lavoratrici e sul pagamento dei salari dignitosi, ma senza trasparenza rimangono parole che è difficile verificare e con cui spingerli ad assumersi le proprie responsabilità.
“I brand devono smetterla di nascondere le loro catene di fornitura. I loro vestiti sono realizzati da persone reali, quelle colpite più duramente dalla pandemia. Quando si verificano violazioni dei diritti, le lavoratrici devono sapere come e dove trovare rimedio. E i consumatori meritano di sapere come e dove vengono prodotti i vestiti che acquistano” dichiara Paul Roeland, coordinatore della campagna sulla trasparenza per la Clean Clothes Campaign.
I dati aggiornati di Fashion Checker, raccolti in collaborazione con Fashion Revolution, parlano chiaro e svelano una verità inquietante. Un numero troppo elevato di marchi non sta ancora facendo nulla o molto poco sulla trasparenza. 159 brand (60%) ricevono una valutazione di 1 o 2 stelle, non rispettando per nulla il Transparency Pledge, cioè le cinque richieste minime formulate da sindacati e organizzazioni della società civile internazionale per cominciare a mettere in chiaro le catene di fornitura. Finalmente anche alcuni marchi del lusso italiani cominciano a fare i primi passi mettendo in chiaro alcune informazioni sulla propria filiera. Solo 46 marchi su 264 (17%), comunque, ricevono cinque stelle, rivelando informazioni aggiuntive e fondamentali sulla loro catena di fornitura, come ad esempio l’esistenza o meno di un sindacato sul posto di lavoro.
Per quanto riguarda il pagamento dei salari dignitosi, la situazione non è certo migliore. La crisi pandemica ha mostrato chiaramente quanto le paghe già misere prima del Covid-19, la abbiano aggravata ulteriormente, non permettendo alle lavoratrici ad esempio, di poter contare su un minimo di risparmi per fare fronte ai periodi chiusura. Diversi report lanciati negli ultimi mesi hanno mostrato come ancora oggi i loro salari spesso non raggiungano nemmeno il livello minimo legale o i livelli pre-pandemia. Sulle loro spalle è stato di fatto scaricato tutto il costo della crisi. Solo 5 marchi, tra quelli analizzati, dichiarano di corrispondere un salario dignitoso almeno ad alcuni dei lavoratori impiegati nella loro filiera.
“Ogni mese devo pagare debiti, acqua ed elettricità, ma il mio salario non è sufficiente. Non voglio vedere obiettivi di produzione sempre più elevati con un numero sempre minore di lavoratori per raggiungerli. Non abbiamo abbastanza entrate nemmeno per pagare i costi dei beni di prima necessità” le parole di una lavoratrice cambogiana che produce per Primark.
Le lavoratrici in Cambogia, ad esempio, sono state private di circa 109 milioni di dollari di retribuzione durante il blocco nazionale di aprile e maggio 2021. La Clean Clothes Campaign stima che ai lavoratori a livello globale spettino almeno 11,85 miliardi di dollari sottratti durante l'anno della pandemia da marzo 2020 a marzo 2021.
Per questo la campagna #PayYourWorkers sta chiedendo a tutti i marchi di abbigliamento e ai distributori di impegnarsi a negoziare un accordo vincolante che copra questi costi, nonché a rispettare i diritti fondamentali dei lavoratori secondo le convenzioni dell'ILO. L’obiettivo a breve termine della Clean Clothes Campaign è che i marchi paghino quanto dovuto e garantiscano le indennità di licenziamento. Al contempo il salario dignitoso in tutte le catene di fornitura dell'industria tessile rimane l'obiettivo generale.
“Certamente in questa fase di grave crisi che ha, ancora una volta, impattato pesantemente la vita di milioni di lavoratori e lavoratrici tessili nel mondo, è urgente che gli venga restituito quanto legalmente dovuto e ingiustamente trattenuto durante la pandemia. Tuttavia è chiaro che questo è solo il primo passo verso un obiettivo fondamentale e altrettanto urgente: il pagamento a tutti lavoratori delle filiere globali della moda di un salario minimo dignitoso, che contribuisca a fare uscire milioni di lavoratori dalla spettro dell’indigenza, dell’insicurezza e della violenza di genere” conclude Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti.
WEBINAR: Il ruolo dell'Unione Europea nella prevenzione della violenza di genere
Prevenire e mitigare la violenza di genere sul posto di lavoro e lungo le catene globali di approvvigionamento tessile: cosa può fare l'Unione Europea?
Legislazione e politiche per un'industria tessile più resiliente ed efficiente.
Nell'industria globale della produzione tessile, più dell'80% dei lavoratori sono donne (ILO, 2019). Secondo recenti studi (Femnet e BCWS, 2020), il 75% di loro vive quotidianamente la violenza di genere nelle fabbriche. Violenza di genere, molestie fisiche e ingiustizia economica nel mondo del lavoro sono tra le violazioni dei diritti umani più pervasive: prevenire la violenza contro le donne nelle fabbriche tessili è quindi fondamentale per dare potere a queste lavoratrici e permettere loro di lavorare in modo dignitoso. La legislazione, anche nell'Unione Europea, ha un ruolo fondamentale per l'empowerment delle donne.
La Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign sta organizzando un webinar il 30 settembre sulle misure legislative concrete per migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle lavoratrici dell'abbigliamento in tutto il mondo. Gruppi di lavoratori di tutto il mondo, comunità degli investitori e membri delle istituzioni discuteranno degli strumenti legislativi fondamentali e delle opportunità che l'Unione europea deve prendere in considerazione in relazione alla violenza di genere e alla regolamentazione della due diligence sui diritti umani per garantire la parità di genere sul posto di lavoro e nelle fabbriche tessili.
Webinar
30.09.2021
11.30 - 12.30 CEST
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L'evento si terrà in inglese e fornirà una traduzione simultanea in italiano.
--- Speakers ---
Kalpona Akter
Fondatrice e direttrice esecutiva del Bangladesh Centre for Worker Solidarity (BCWS), una delle più importanti organizzazioni di difesa dei diritti dei lavoratori del Bangladesh, ed è lei stessa una ex lavoratrice infantile. È anche presidente della Bangladesh Garment & Industrial Workers Federation-BGIWF, un centro sindacale nazionale. Akter è una sostenitrice dei diritti del lavoro riconosciuta a livello internazionale e ha viaggiato molto per parlare delle condizioni deplorevoli che i lavoratori dell'abbigliamento del Bangladesh affrontano ogni giorno. Per anni Akter ha condotto campagne per ottenere salari equi, luoghi di lavoro sicuri e il libero esercizio della libertà di associazione e dei diritti di contrattazione collettiva. Il governo e i proprietari delle fabbriche l'hanno presa di mira per questo lavoro, tra l'altro inventando accuse contro la sua organizzazione, mettendola in prigione e costringendo il governo a de-registrare il gruppo. Nel corso degli anni è stata intervistata ampiamente da media locali e internazionali come ABC, BBC, CBC, CBS, In These Times, International Business Times, New York Times, New Yorker, NPR, Salon, The Nation, e Wall Street Journal e molti altri media asiatici ed europei. Akter ha ricevuto il premio Alison Des Forges per l'attivismo straordinario nel 2016.
Anna Rossomando
Parlamentare, Italia; Rossomando ha iniziato la sua attività politica nel 1977 con il Partito Comunista Italiano, ed è stata consigliere comunale a Torino dal 1998 al 2006. Con il Partito Democratico è stata membro della Camera dei Deputati dal 2008 al 2018 e attualmente è senatrice della Repubblica (dal 2018), responsabile dei temi di Giustizia e Diritti a livello nazionale
Anja Seiler
Specialista ESG, Fondazione Ethos: Seiler ha accumulato più di sei anni di esperienza nella cooperazione internazionale dove ha lavorato con diversi stakeholder sui diritti umani e la prevenzione dei conflitti. È entrata a far parte della Fondazione svizzera Ethos nel 2020 come ESG Engagement Specialist dove lavora prevalentemente su temi sociali. Partecipa a iniziative di impegno collettivo con altri investitori e conduce dialoghi su questioni di diritti umani e del lavoro con società quotate al di fuori della Svizzera. Si occupa del settore ICT, tessile, dei trasporti e dell'assistenza e si concentra anche su regioni in cui sono in corso violazioni dei diritti umani come lo XUAR e il Myanmar
Modera: Elizabeth Paton
Giornalista, New York Times: Paton è una reporter per la sezione Styles del New York Times, che copre i settori della moda internazionale e del lusso. Le sue aree di attenzione e interesse del settore includono business, tecnologia, sostenibilità, catene di approvvigionamento e diritti del lavoro, insieme alla copertura della Settimana della Moda da Londra, Milano e Parigi
Nono anniversario Ali Enterprises. Estendere l’Accordo sulla sicurezza anche al Pakistan
Alla vigilia del nono anniversario dell’incendio alla fabbrica Ali Enterprises a Karachi, in Pakistan avvenuto l’11 settembre 2012, gli attivisti pachistani per i diritti dei lavoratori chiedono azioni immediate affinché la sicurezza delle fabbriche tessili sia considerata una priorità dal governo e dai clienti committenti.
L’entrata in vigore, la scorsa settimana, del nuovo Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nell'industria tessile e dell'abbigliamento offre ai marchi un modo concreto di dimostrare il loro impegno a mettere le fabbriche in sicurezza, ma è necessario che il programma sia esteso senza indugio a partire dal Pakistan, come i leader del movimento dei lavoratori chiedono.
Sabato 11 settembre si compiono nove anni da quando il terribile incendio della fabbrica Ali Enterprises uccise più di 250 lavoratori, solo tre settimane dopo essere stata certificata come luogo sicuro da R.I.N.A., la società italiana di audit e certificazioni (incluse quelle sociali) che opera in tutto il mondo. L’incendio alla Ali Enterprise fu il più mortale nella storia della produzione di abbigliamento nel mondo. E poteva essere evitato: una ricerca ha mostrato come semplici misure di sicurezza sarebbero state sufficienti per garantire che i lavoratori potessero uscire dalla fabbrica in sicurezza quel giorno, invece di rimanere intrappolati dietro finestre sbarrate e uscite bloccate. Perché i controlli che pure erano stati effettuati non indicarono la necessità di implementare tali misure?
Una timeline pubblicata oggi dai testimoni firmatari dell'Accordo del Bangladesh – Clean Clothes Campaign, Global Labour Justice – International Labour Rights Forum, Maquila Solidarity Network e Worker Rights Consortium – mostra la progressione nel tempo dei numerosi incidenti, mortali o meno, nel settore tessile al di fuori del Bangladesh dall'inizio del 2021. Essi sono centinaia e ciò dimostra che è necessario estendere questo Accordo internazionale che garantisce salute e sicurezza immediatamente anche al Pakistan e agli altri paesi in cui si produce abbigliamento.
L’Accordo vincolante sulla sicurezza antincendio e degli edifici in Bangladesh fu siglato sette mesi dopo il crollo del Rana Plaza, l’incidente più grave della storia della produzione tessile mondiale che fece aprire gli occhi al mondo sulle condizioni di lavoro nel settore dell’abbigliamento. In Pakistan, invece, dove la situazione non è dissimile da quella del Bangladesh pre-Accordo, non è successo praticamente nulla per rendere le fabbriche, e di conseguenza la vita di chi ci lavora, più sicure.
Saeeda Khatoon, presidente della Ali Enterprises Fire Affectees Association, ha perso un figlio nell'incendio: "Negli ultimi nove anni molti genitori hanno perso i figli e i figli hanno perso i genitori. Non abbiamo dimenticato i nostri figli, stiamo combattendo per gli altri bambini che lavorano in fabbriche pericolose. Questa è la nostra lotta. Non voglio che nessuna madre soffra quello che ho dovuto soffrire io".
Nasir Mansoor, presidente della National Trade Union Federation, ha dichiarato: “Continuiamo regolarmente a sentir parlare di incendi nelle fabbriche. Nove anni dopo la tragedia della Ali Enterprises, non è stato fatto nulla per migliorare le condizioni di salute e sicurezza nelle fabbriche tessili pakistane. Ciò significa che i lavoratori e lavoratrici che cuciono prodotti per aziende come Ikea, Gap e Asda, quando vanno a lavorare, rischiano di rimanere intrappolati in una fabbrica durante un incendio: ancora, ogni giorno".
“Non c'è attenzione per la salute e la sicurezza dei lavoratori. Gli allarmi anti-incendio presenti sono in bella mostra, ma non funzionano. Non ci hanno mai parlato di uscite di emergenza o di misure di sicurezza in caso di incendio. Spesso sentiamo parlare di incidenti e morti di lavoratori in altre fabbriche e ci chiediamo: se succedesse la stessa cosa alla nostra fabbrica, che ne sarebbe di noi?”, ha raccontato Mukhtar Ahmed, operaio di una fabbrica di abbigliamento nell'area di Korangi in Pakistan.
Il mese scorso, i marchi di abbigliamento e i sindacati che hanno collaborato alla definizione dell’Accordo in Bangladesh negli ultimi otto anni, hanno annunciato il lancio del nuovo Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nell'industria tessile e dell'abbigliamento, con l’intenzione di estendere il suo programma ad almeno un altro Paese.
"Dal tragico incendio della Ali Enterprises, sindacati e organizzazioni per i diritti dei lavoratori in Pakistan hanno lottato per convincere i nostri governi, i buyer e i marchi internazionali ad adottare misure concrete per la sicurezza dei lavoratori. Abbiamo lavorato insieme per cinque anni verso un accordo legalmente vincolante simile a quello del Bangladesh. Ora, dopo l’avvio del nuovo accordo internazionale che verrà esteso ad altri paesi, il Pakistan è sicuramente il primo a cui dover pensare", ha affermato Khalid Mahmood, Direttore della Fondazione per l'educazione al lavoro in Pakistan.
Karamat Ali, direttore esecutivo del Pakistan Institute of Labor Education & Research, ha dichiarato: “Negli ultimi anni i sindacati e le organizzazioni per i diritti dei lavoratori hanno raggiunto un consenso su come dovrebbe essere un accordo pakistano. Abbiamo parlato con molte parti interessate e crediamo che il Pakistan sia pronto per essere il primo Paese in cui l'Accordo vada esteso: non possiamo più aspettare”.
Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti, coalizione italiana della Clean Clothes Campaign conclude: “L’estensione del nuovo Accordo internazionale al Pakistan è fondamentale, un programma che avrebbe evitato 250 morti se fosse stato attivo all’epoca dell’incendio alla Ali Entreprises, al posto di certificazioni sociali inaccurate e addirittura dannose per la vita dei lavoratori. Oltre all’estensione a nuovi paesi, è molto importante adesso che più marchi possibile aderiscano al nuovo programma, oltre a quelli già firmatari del precedente Accordo ideato per il Bangladesh”.
Accordo Bangladesh: è arrivata l'ora del rinnovo
Attraverso un resoconto pubblico, la Clean Clothes Campaign rende noti quali siano i marchi della moda che sostengono un forte nuovo accordo vincolante sulla sicurezza nelle fabbriche e quali invece vogliono ostacolare i progressi raggiunti per i lavoratori e le lavoratrici. Tra questi ultimi anche grandi brand come H&M e Bestseller (Vero Moda) accusati di non aver utilizzato il loro notevole potere per garantire la sicurezza nelle catene di fornitura.
L’Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh è un’iniziativa altamente innovativa, istituita in risposta al crollo del Rana Plaza nel 2013. Ha permesso di mettere in sicurezza fabbriche che ospitano oltre 2 milioni di lavoratrici tessili grazie alla sua forte solidità legale, alla trasparenza e a un meccanismo di controllo indipendente. Il 31 Maggio 2021 è formalmente scaduto, ma un accordo last minute tra rappresentanti sindacali e marchi ha permesso un’estensione dei termini per tre mesi in cerca di un accordo per il rinnovo. Ma, a quattro settimane dalla nuova scadenza, il 31 Agosto 2021, non si vede ancora alcuna positiva conclusione.
“L’Accordo ha dimostrato di possedere gli elementi necessari a produrre un reale cambiamento nelle fabbriche tessili. Perché i marchi impiegano così tanto tempo per concordare un nuovo patto che salvaguardi i progressi raggiunti impedendo la morte e gli infortuni di milioni di lavoratrici? Un accordo legalmente vincolante è necessario per assicurare che i diritti dei lavoratori siano rispettati” ha dichiarato Amin Amirul Haque, presidente del National Garment Workers Federation in Bangladesh
Ecco perché la Clean Clothes Campaign (CCC) ha contattato i marchi e i distributori firmatari per sollecitare l’impegno a rispettare gli elementi principali di un nuovo forte accordo vincolante, e per dimostrare che non tutti i marchi e i distributori hanno accolto con soddisfazione il ritardo nel raggiungimento di un nuovo accordo sulla sicurezza. Undici imprese, tra cui ASOS, UNIQLO e Esprit, hanno risposto che sono desiderose di firmare un nuovo accordo che sia giuridicamente vincolante per le singole società, provvisto di un controllo indipendente e che possa essere esteso ad altri paesi.
Rispetto alle comunicazioni precedenti, nelle loro ultime risposte, molti marchi sono diventati più espliciti sulla necessità di mantenere una responsabilità individuale del marchio unitamente a una supervisione indipendente, ma non hanno parlato della natura globale di un nuovo accordo. La Clean Clothes Campaign ritiene che l'espansione del modello dell’Accordo ad altri Paesi oltre il Bangladesh, sia un elemento indispensabile per il futuro accordo: "È fondamentale che il nuovo accordo sulla sicurezza abbia una portata globale. Otto anni dopo il crollo del Rana Plaza, il livello di sicurezza in molte fabbriche al di fuori del Bangladesh rimane insufficiente. E’ tempo che i lavoratori impiegati nelle fabbriche di fornitori in altri paesi abbiano accesso alle stesse ispezioni, formazione e meccanismi di denuncia che hanno fatto la differenza per i lavoratori in Bangladesh" ha detto Nasir Mansoor, presidente del Pakistan
Anche se la CCC ritiene che non sia accettabile accontentarsi di limitare questo programma al Bangladesh, la rete accoglie con favore il maggiore sostegno espresso dai marchi verso la dimensione della responsabilità individuale e la supervisione indipendente, purché essi corrispondano o superino quelli dell'attuale accordo e si applichino a tutti gli aderenti al nuovo programma, per non creare percorsi differenziati.
I marchi identificati come ostacoli ai progressi sulla sicurezza nelle fabbriche sono quelli che, pur potendo fare la differenza nel processo verso un nuovo accordo, non si sono spesi in questa direzione. Si tratta di aziende che hanno oltre 75 stabilimenti fornitori in Bangladesh, rappresentano gli altri marchi al tavolo negoziale o fanno parte del comitato direttivo dell’Accordo. Solo i marchi che hanno espresso il proprio consenso verso tutti gli elementi cruciali per concludere un nuovo accordo salvavita ma non sono nella posizione diretta per cambiare il corso degli eventi, sono collocati dalla parte positiva nel nostro osservatorio. Tutti i marchi invece che hanno un potere decisivo ma non lo hanno utilizzato negli ultimi mesi per garantire che un nuovo accordo fosse pronto per essere sottoscritto, sono collocati nella parte negativa.
“I marchi italiani Artsana, Benetton e OVS, sebbene non figurino tra i maggiori player globali firmatari dell’Accordo ormai scaduto, hanno la grande responsabilità, insieme a tutte le imprese coinvolte, di pronunciarsi esplicitamente a favore di un nuovo accordo vincolante, che includa un meccanismo di controllo indipendente e sia esteso ad altri paesi, come hanno già fatto altri marchi pubblicamente. La posizione di ciascuno conta e tutti devono fare la loro parte affinché i marchi negoziatori si sentano investiti della responsabilità di concludere un accordo solido e finalizzato alla tutela dei diritti fondamentali delle lavoratrici e dei lavoratori, non solo in Bangladesh” ha dichiarato Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign
Christie Miedema, Campaign Coordinator della Clean Clothes Campaign ha dichiarato: “Le aziende che non sono riuscite a promuovere un nuovo accordo sulla sicurezza stanno negoziando sulla pelle delle lavoratrici. E anche la maggioranza silenziosa dei piccoli marchi firmatari dell'Accordo e di quelli che producono in Bangladesh e non lo hanno sottoscritto hanno le loro responsabilità. Qualsiasi brand della moda che si rifornisce in Bangladesh e non si pronuncia attivamente a favore di un forte accordo vincolante sulla sicurezza delle fabbriche mostra soltanto disprezzo per la vita di lavoratori e lavoratrici”.
Scopri quali marchi si preoccupano della sicurezza delle loro lavoratrici




(2021) REPORT: Still Underpaid
Secondo un nuovo rapporto della Clean Clothes Campaign (CCC), la crisi nel settore tessile è ben lontana dall'essere finita: le lavoratrici e i lavoratori dell'abbigliamento hanno accumulato da marzo 2020, inizio della pandemia, a marzo 2021 un credito di 11,85 miliardi di dollari (pari a 10 mld di euro) tra salari non corrisposti e indennità di licenziamento, mentre le violazioni dei diritti continuano a crescere.
La ricerca costituisce un aggiornamento del report "Un(der)paid in the Pandemic" lanciato nell’agosto 2020, che stimava le perdite economiche per i lavoratori tessili nei primi tre mesi della pandemia tra i 3,2 e i 5,8 miliardi di dollari. Nonostante i marchi e i distributori siano tornati a guadagnare profitti, la situazione dei lavoratori è invece peggiorata ulteriormente: un anno di salari trattenuti o ridotti a causa di pratiche di acquisto sleali da parte dei grandi marchi e distributori, mancati pagamenti degli ordini, cancellazioni improvvise e riduzioni dei prezzi hanno spinto i lavoratori ancora più a fondo. La crescita del numero di casi di infezione da Covid19 inoltre peggiora ulteriormente il quadro.
La Clean Clothes Campaign ha condotto la ricerca in sette principali paesi di produzione asiatici: Bangladesh, Cambogia, India, Indonesia, Sri Lanka, Myanmar e Pakistan. L’inchiesta si basa sulla valutazione delle dichiarazioni dei datori di lavoro, su sondaggi nel settore e tra i lavoratori, su inchieste dei media sull'impatto della pandemia e su analisi delle proteste dei lavoratori per chiedere i salari non corrisposti.
“È una cifra che rappresenta un dolore umano inimmaginabile e spesso irreparabile. Il rapporto mira a mettere in prospettiva casi specifici che ascoltiamo e leggiamo. Un fenomeno che non sta accadendo solo in quella fabbrica del Bangladesh o del Pakistan ma che riguarda tutta l'industria tessile: da una parte ci sono i lavoratori e le lavoratrici con un credito, a livello globale, di 11,85 miliardi di dollari; dall’altra marchi come Nike, H&M, Inditex e Uniqlo che sono tornati da tempo a raccogliere profitti", ha affermato Khalid Mahmood della Labor Education Foundation in Pakistan.
Le cifre sono inquietanti: i lavoratori di tutti i paesi indagati, ad eccezione dell'Indonesia, hanno a che fare con un gap salariale almeno due volte più grande del loro salario medio mensile. Si stima che circa 1,6 milioni di lavoratori tessili siano stati licenziati nei sette paesi durante la pandemia, di cui molti senza nemmeno un'indennità di licenziamento. Durante i periodi di congedo, a causa di blocchi o cancellazioni di ordini, è stata spesso pagata solo una piccola percentuale della loro normale retribuzione, già significativamente al di sotto del livello del salario dignitoso. Di conseguenza, molti lavoratori tessili si sono trovati ad affrontare debiti elevati e a lottare contro la fame durante tutta la pandemia.
"Nonostante l'impegno dei sindacati per mitigare l'impatto del COVID19 sui lavoratori attraverso il dialogo sociale, i fornitori violano gli accordi locali sui salari tagliando gli stipendi e licenziando", ha affermato Anton Marcus della Free Trade Zones & General Service Employees Union in Sri Lanka.
Due gruppi di lavoratori in particolare sembrano essere più a rischio: gli iscritti al sindacato e quelli assunti in modo informale o temporaneo, che spesso non hanno accesso alle norme di protezione sociale. I rappresentanti sindacali e il personale delle ONG locali che hanno contribuito alla stesura di questo rapporto hanno espresso grande preoccupazione per come la pandemia abbia aggravato la repressione della libertà di associazione e della contrattazione collettiva. In almeno tre paesi, è stata usata la violenza contro i membri del sindacato che hanno protestato per i salari non pagati. Le attività sindacali sono spesso bloccate o ostacolate dai lockdown. Invece di proteggere i lavoratori dalla pandemia e dai suoi effetti collaterali immediati, l'industria sta scaricando tutti i costi su di loro. Di fatto la pandemia ha esacerbato diverse criticità già esistenti: salari molto bassi, mancato pagamento delle indennità di licenziamento, repressione sindacale e numero crescente di lavoratori (spesso migranti e donne) impegnati nel lavoro informale.
La Clean Clothes Campaign si dice certa che, da Marzo ad oggi, l'importo globale dovuto ai lavoratori sia cresciuto ulteriormente, visto che in molti paesi la pandemia non è per nulla superata. Una cifra che continuerà ad aumentare se marchi, datori di lavoro e governi non agiranno immediatamente. Con una coalizione di oltre 230 organizzazioni, tra cui 70 sindacati, la Clean Clothes Campaign chiede ai brand della moda di negoziare con i sindacati e i datori di lavoro, singolarmente o attraverso le loro associazioni, un accordo per garantire il pagamento regolare dei salari, istituire un fondo di garanzia per i licenziamenti e assicurare il rispetto dei diritti fondamentali del lavoro.
“È passato più di un anno da quando oltre 100 marchi di moda e altre organizzazioni hanno risposto alla pandemia aderendo a una "Chiamata all'azione" per l'industria tessile, eppure solo un piccolo numero di lavoratori ha ricevuto fondi. Nella maggior parte dei "paesi prioritari" i lavoratori non hanno ricevuto nulla e non è chiaro come i marchi stessi abbiano realmente contribuito", ha affermato Ineke Zeldenrust dell'ufficio internazionale della Clean Clothes Campaign
“Non possiamo contare sulle iniziative dei singoli marchi o sui programmi volontari dietro cui continua a trincerarsi l’intero sistema. È urgente che le aziende negozino e firmino con i sindacati un accordo vincolante e azionabile per evitare che milioni di lavoratrici tessili e le loro famiglie siano spinti ancora più in profondità nella miseria e nell’indebitamento.” ha concluso Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti.
(2021) Report: Oltre il punto di non ritorno
49 lavoratrici e lavoratori delle catene di fornitura dei marchi H&M, Nike e Primark, in Bangladesh, Cambogia e Indonesia, intervistati dalla Clean Clothes Campaign nell’ultimo rapporto Breaking Point, raccontano come la crisi indotta dal Coronavirus continui ad avere un impatto devastante sui salari, sulle condizioni di lavoro e sui diritti di lavoratori e lavoratrici dell'abbigliamento a livello globale, spingendoli alla disperazione.
Oltre la metà di loro segnalano di aver subito pesanti tagli salariali durante la pandemia. Quasi il 70% è stato costretto a sopportare periodi in cui non ha ricevuto paghe equivalenti al periodo pre-pandemia. Considerando che si trattava già prima di salari di povertà, ora per loro è diventato quasi impossibile sbarcare il lunario.
Il rapporto si concentra su tre marchi - H&M, Nike e Primark - che hanno realizzato profitti notevoli nell'ultimo anno e che sono apparsi spesso sul liveblog della Clean Clothes Campaign, il racconto quotidiano che da inizio pandemia tiene traccia delle violazioni segnalate nelle fabbriche di abbigliamento e nei paesi produttori di indumenti.
"Quando i rapporti forniscono una panoramica generalizzata dell'industria, i marchi spesso negano che le violazioni segnalate si verifichino all'interno delle loro catene di fornitura, difendendo i loro modelli di business con affermazioni non comprovate", ha spiegato Meg Lewis, autrice di Breaking Point. "Questo rapporto si concentra sulle catene di fornitura di tre marchi specifici, ma sono molte le aziende che hanno commesso violazioni simili".
Il reddito medio mensile dei lavoratori intervistati è diminuito, mentre gli obiettivi di produzione sono diventati più alti, le condizioni di lavoro sono peggiorate e le molestie da parte della direzione sono aumentate. Undici lavoratori di Primark stimano di avere un credito complessivo di 2.890 dollari, diciotto lavoratori di H&M stimano che la somma loro dovuta sia di 2.368 dollari e tredici lavoratori di Nike stimano di avere un credito di 1.527 dollari. Si tratta di mesi di salari arretrati, secondo i livelli medi salariali percepiti nei diversi paesi oggetto di questa indagine prima della pandemia, già livelli di povertà.
È evidente che questi marchi non stiano facendo abbastanza per proteggere le lavoratrici dall'impatto finanziario della crisi del COVID-19, in gran parte causato dalle loro decisioni di cancellare o ridurre gli ordini e abbassare i prezzi di acquisto dei prodotti commissionati ai fornitori.
“Si tratta di un settore particolarmente fragile, in cui lo sfruttamento è endemico. Poiché i marchi a capo delle filiere globali non si assumono autonomamente le proprie responsabilità, risulta sempre più evidente quanto sia urgente che ci siano degli obblighi legislativi che glielo impongano” ha dichiarato Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti
"Le storie che i lavoratori hanno condiviso con noi sono piene di disperazione e paura: "avrò un reddito questo mese e sarò in grado di sfamare la mia famiglia oggi?" In parole povere, i marchi e i fornitori stanno spingendo i lavoratori e le lavoratrici oltre il punto di non ritorno", ha dichiarato ancora Meg Lewis.
"In nome della pandemia, ci hanno sfruttato alla grande. La pandemia di COVID-19 non è stata colpa nostra, ma siamo stati noi a ricevere meno della metà del nostro salario normale. All'inizio abbiamo protestato, ma la direzione della fabbrica ha detto: 'Se protestate o formate un sindacato, non avrete un centesimo da noi e non solo perderete il lavoro, ma sarete anche sfrattati da questa zona e non avrete più un lavoro in nessun'altra fabbrica'. Così, nessuno di noi ha potuto costituire un sindacato" le parole di una lavoratrice di una fabbrica che produce per H&M in Bangladesh.
"Ogni mese devo pagare i debiti e le bollette, ma il mio stipendio non basta. I nostri obiettivi di produzione aumentano, ma il numero di lavoratrici diminuisce. E non ci pagano abbastanza per pagare le nostre spese di base.” ha raccontato una lavoratrice di una fabbrica che produce per Primark in Cambogia.
I dati raccolti nel rapporto provano come i marchi non siano riusciti a tutelare i lavoratori delle loro filiere per tutta la durata della crisi. All'inizio della pandemia, brand e distributori si sono rifiutati di pagare le merci, compresi i capi di abbigliamento già in produzione o addirittura completati, per un valore stimato di 40 miliardi di dollari. Cancellazioni di massa, pagamenti ritardati e sconti imposti ai fornitori hanno scosso l'industria, con un impatto devastante sui lavoratori: a livello globale sono ormai creditori per miliardi di dollari in salari non pagati, bonus e indennità di licenziamento. E anche quando molti grandi marchi hanno accettato di pagare per intero gli ordini che erano già in produzione (come evidenziato sul Worker Rights Consortium brand tracker), non si sono però assicurati che i lavoratori e le lavoratrici fossero pagati per quanto dovuto.
Dall’inizio della pandemia la Clean Clothes Campaign chiede ai brand di assumersi le proprie responsabilità nei confronti delle filiere. Da marzo 2021, una coalizione di oltre 200 sindacati e organizzazioni per i diritti dei lavoratori, attraverso la campagna #PayYourWorkers, fa pressione sui marchi perché negozino direttamente con i sindacati del settore un accordo esecutivo che garantisca salari, liquidazione e diritti fondamentali del lavoro per colmare il divario salariale dell'era pandemica, garantire che i lavoratori licenziati ricevano la liquidazione per intero, sostenere protezioni sociali più forti per tutti i lavoratori e garantire il rispetto dei diritti fondamentali del lavoro.
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Leggi anche
- https://www.payyourworkers.org
- Business & Human Rights Resource Centre (2021) Wage Theft and Pandemic Profits: The Right to a Living Wage for Garment Workers
- Worker Rights Consortium (2021) Fired, then Robbed
- Worker Rights Consortium (2020) Hunger in the Apparel Supply Chain
- Worker Rights Consortium (2020) Unpaid Billions
- Centre for Global Workers Rights (2020) Unpaid Billions: Trade Data Show Apparel Order Volume and Prices Plummeted through June, Driven by Brands’ Refusal to Pay for Goods They Asked Suppliers to Make
- Clean Clothes Campaign (2020) Underpaid in the Pandemic
Uiguri: lettera al Ministro degli Esteri Di Maio
I Ministri degli Esteri dei paesi del G7 si sono incontrati a Londra per discutere, fra i molti temi, anche dei rapporti con la Cina. Pubblichiamo di seguito la lettera che abbiamo mandato loro insieme alla coalizione internazionale End Uyghur Forced Labour. Al nostro Ministro degli Esteri Di Maio abbiamo anche ricordato la mozione votata all'unanimità della Commissione Affari Esteri della Camera lo scorso 26 maggio, che invita il governo italiano ad agire con misure concrete e in cooperazione con gli stati membri del G7 per fare fronte comune in difesa della popolazione Uigura.
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Alla cortese attenzione del Ministro per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale Luigi di Maio
Egregio Ministro Di Maio,
Le scriviamo questa lettera aperta e pubblica a nome della Coalition to End Uyghur Forced Labour di cui la Campagna Abiti Puliti (coalizione nazionale della Clean Clothes Campaign) è parte attiva. Come forse saprà, siamo una coalizione di organizzazioni della società civile, coalizioni di investitori e sindacati uniti per porre fine al lavoro forzato operato dallo stato e ad altri gravi abusi dei diritti umani contro gli uiguri e altri popoli a maggioranza turca e/o musulmana della regione autonoma uigura dello Xinjiang (regione uigura) in Cina, nota alla popolazione locale come Turkistan orientale.
Diversi eperti legali e di diritti umani hanno riconosciuto gli abusi contro gli uiguri come crimini contro l'umanità e genocidio. La nostra coalizione chiede a Lei e agli altri stati membri del G7 di chiedere, con urgenza e priorità, alla Cina di rendere conto di questi abusi e di fare pressione per fermarli.
Notando la profonda preoccupazione che i ministri degli Esteri e dello Sviluppo del G7 hanno espresso nel loro recente comunicato sulle violazioni dei diritti umani in questa regione, chiediamo che si possa procedere ad un accesso indipendente e senza restrizioni e chiediamo anche che le nazioni del G7 supportino una commissione d'inchiesta indipendente delle Nazioni Unite sulle violazioni dei diritti umani contro il popolo uiguro. Tuttavia, un'indagine indipendente sostenuta dalle Nazioni Unite non può aspettare che il governo cinese conceda "l'accesso", quindi i governi dovrebbero anche sostenere il monitoraggio a distanza da parte dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. Un'indagine ONU accelerata è necessaria per innescare un rinvio alla Corte Internazionale di Giustizia per un parere consultivo sui crimini di una siffatta atrocità.
Le facciamo tali richieste anche alla luce della Risoluzione 8-00120 approvata all’unanimità dalla Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati del 26 maggio u.s., con la quale i deputati firmatari invitano il governo a promuovere azioni coordinate con gli alleati dell’Italia, e in prima battuta proprio con i paesi del G7 e con i partner dell’Unione europea, a fare azione comune per difendere i diritti popolo Uiguro e a favorire l’accesso libero e senza restrizioni dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani nel paese per il necessario avvio dell’indagine.
A marzo, il Canada, il Regno Unito e l'Unione Europea hanno annunciato sanzioni coordinate contro i funzionari cinesi per aver perpetrato il lavoro forzato, l'internamento di massa e altri gravi abusi dei diritti umani. Questa è stata la prima azione multilaterale intrapresa per affrontare gli abusi. I paesi del G7, legati da valori condivisi, dovrebbero applicare ulteriori sanzioni coordinate sostenute da tutti gli stati membri sulle organizzazioni e gli individui legati a tali abusi.
Inoltre, esercitare una leva economica e finanziaria è fondamentale per fermare gli abusi e impedire alle aziende di trarre profitto dal lavoro forzato. La campagna del governo cinese contro il popolo Uiguro include un massiccio lavoro forzato organizzato dallo stato, i cui prodotti continuano ad essere esportati e venduti nei mercati globali. Un'azione coordinata tra le nazioni del G7 è essenziale per implementare e far rispettare i controlli sulle importazioni che proibiscono l'importazione di qualsiasi merce prodotta in tutto o in parte con lavoro forzato. Tali misure coordinate prevengono il "dumping" di merci contaminate dal lavoro forzato in altri mercati e mandano il chiaro messaggio al governo cinese e alle aziende che fanno affari sfruttando il lavoro forzato uiguro che non c'è un porto sicuro per le merci del lavoro forzato.
Le nazioni del G7 dovrebbero anche promulgare una legislazione che richieda alle aziende di condurre una due diligence obbligatoria sui diritti umani lungo tutta la loro catena del valore, e di essere ritenute responsabili per la mancata prevenzione degli abusi. Tale legislazione, insieme ad esplicite dichiarazioni di intenti alle aziende che corrono un alto rischio di complicità negli abusi dei diritti umani se si approvvigionano nella regione uigura, è vitale per costringere le aziende a riorientare le fonti di approvvigionamento, soprattutto alla luce del fatto che i ricercatori hanno documentato con prove i collegamenti fra il lavoro forzato e numerose catene di approvvigionamento, tra cui abbigliamento e tessile, calzature, prodotti per capelli, zucchero, carbone e pannelli solari.
Grazie per la Sua attenzione a questi problemi. Attraverso un'azione assertiva e coordinata, potete porre fine allo sfruttamento degli Uiguri e dare un significato concreto alla promessa di "mai più". Azioni forti per porre fine alla complicità del governo e delle imprese nel lavoro forzato apriranno anche la strada alla costruzione di un'economia globale più giusta ed equa.
Noi faremo eco ad ogni eventuale iniziativa che Lei, sia autonomamente sia insieme ai Suoi colleghi in sede di G7, vorrà intraprendere a favore del popolo Uiguro, dandone pubblica notizia e ringraziandoLa per il Suo supporto.
Distinti saluti,
Lo Steering Committee della Coalition to End Forced Labour in the Uyghur Region
AFL-CIO
Anti-Slavery International
Campaign for Uyghurs
Clean Clothes Campaign
Cotton Campaign
Free Uyghur Now
Freedom United -
Global Labor Justice – International Labor Rights Forum
Interfaith Center on Corporate Responsibility
Uyghur American Association
Uyghur Human Rights Project
World Uyghur Congress
Worker Rights Consortium
Lettera aperta a RINA
Genova, 3 giugno 2021
Pubblichiamo questa lettera aperta a RINA SPA dopo avere cercato invano un contatto proficuo con l’azienda al termine della procedura di mediazione negoziata di fronte al Punto di Contatto Nazionale dell’OSCE, che si è chiusa senza aver potuto raggiungere un accordo.
La Campagna Abiti Puliti con il Movimento Consumatori, insieme all’Ufficio Internazionale della Clean Clothes Campaign, European Center for Constitutional and Human Rights, Ali Enterprises Factory Fire Affectees Association, National Trade Union Federation Pakistan, Pakistan Institute for Labour Education and Research Pakistan, aveva presentato un reclamo dinanzi al Punto di Contatto Nazionale dell'OSCE l’11 settembre 2018 volto a far emergere le responsabilità di RINA nella vicenda dell’incendio scoppiato alla fabbrica Ali Enterprise in Pakistan nel 2012 in cui hanno perso la vita 250 persone. RINA, rilasciando 3 settimane prima dell’incendio il certificato SA8000, aveva garantito che la fabbrica era sicura. Il brand tedesco Kik, grazie ad una intensa campagna di pressione internazionale, è stato costretto a risarcire le vittime, ma a nostro avviso anche l’auditor RINA aveva chiare responsabilità, perché avrebbe dovuto rilevare e utilizzare il processo di audit per far riparare le gravi violazioni della sicurezza dell’edificio (dall’accumulo di materiali infiammabili, al piano ammezzato in legno costruito senza permesso e non a norma di legge, chiaramente visibile all’ingresso del blocco 1, all’impianto antincendio non adeguato e funzionante all’assenza di adeguate uscite e scale di emergenza, per citarne solo alcune). Un’ottima ricostruzione dei fatti è stata prodotta tramite una simulazione digitale dal Forensic Architecture, agenzia di ricerca indipendente basata alla Goldsmiths University di Londra ed è disponibile qui.
Abbiamo chiesto a RINA di farci vedere i rapporti di audit che hanno certificato come sicura la fabbrica Ali Enterprise, ma RINA si è rifiutata.
Abbiamo chiesto a RINA di assumersi le proprie responsabilità, ammettendo l’errore nell’aver concesso la certificazione SA8000 alla Ali Enterprise, errore che si è rivelato fatale per 250 persone, ma RINA si è rifiutata.
Abbiamo preteso che RINA contribuisse a ristorare economicamente le famiglie delle vittime dell’incendio, come ha fatto il proprio cliente Kik, ma RINA si è rifiutata.
RINA si è rifiutata di dare seguito non solo alle nostre richieste, ma anche alle soluzioni che il Mediatore aveva proposto per giungere a un accordo efficace. La procedura di mediazione si è dunque conclusa con un nulla di fatto (ci è rimasto solo il disappunto e lo stupore), e sebbene non si sia riusciti a giungere ad un accordo, ciò nonostante il Punto di Contatto Nazionale dell’OSCE, unitamente alla dichiarazione finale di chiusura del procedimento, ha pubblicato alcune Raccomandazioni. In particolare, ha raccomandato a RINA di:
- fare un gesto concreto umanitario e di dimostrazione di empatia e cordoglio per le vittime e le loro famiglie;
- intraprendere procedure di due diligence basate sul rischio di violazione dei diritti umani quando opera in paesi, o in settori, come quello tessile, che presentano tali rischi;
- farsi parte proattiva nel miglioramento concreto dei processi di certificazione SAI e SAAS, soprattutto con riferimento al settore tessile.
Il Punto di Contatto Nazionale si è anche raccomandato di inviare un aggiornamento sulle attività svolte a partire da queste Raccomandazioni a Dicembre del 2021. Il 3 marzo 2021 abbiamo dunque scritto a RINA, per sapere se e in che modo avesse intrapreso a dar seguito alle Raccomandazioni del PCN. Abbiamo fatto ciò anche in osservanza alle Raccomandazioni stesse, che contenevano un invito a cooperare con RINA per la loro implementazione e a tenerci reciprocamente aggiornati.
Tuttavia, non abbiamo ricevuto risposta. Ci vediamo perciò costretti a rendere nota questa situazione pubblicando questo appello, che speriamo ci aiuterà ad ottenere un riscontro da parte della società RINA SPA, anche alla luce del prossimo appuntamento con il PCN a dicembre 2021, al quale peraltro, considerato il tempo e l’attenzione che lo stesso PCN hanno dedicato alla nostra procedura, non è nostra intenzione arrivare impreparati o a mani vuote.
Con questa lettera aperta chiediamo dunque che RINA ci risponda, informandoci con trasparenza e responsabilità se intende comunque dare seguito alle Raccomandazioni del PCN, e se sì, in quale modo. Pensiamo che, dopo tutti questi anni di lavoro ma soprattutto di utilizzo di risorse pubbliche nella procedura con il PCN dell’OSCE, una risposta ci sia dovuta
Proroga di tre mesi del Bangladesh Accord, ma la lotta non è ancora finita
I marchi e i sindacati hanno tre mesi a disposizione per firmare un accordo internazionale vincolante che dia sicurezza a lavoratori e lavoratrici tessili
I sindacati globali e le aziende firmatarie del gruppo negoziale hanno annunciato di aver concordato una proroga di tre mesi dell'accordo sulla prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh, per avere più tempo per concludere i negoziati su un nuovo accordo vincolante sulla sicurezza. Senza un accordo vincolante analogo al Bangladesh Accord, l’attività svolta sinora che ha effettivamente portato sicurezza nelle fabbriche non sarebbe più obbligatoria, così come non sarebbe obbligatorio il coinvolgimento dei sindacati, con la conseguenza che l’Accordo rimarrebbe un esercizio di monitoraggio da parte delle aziende totalmente autoreferenziale.
I testimoni firmatari dell'Accordo - Clean Clothes Campaign, International Labor Rights Forum/Global Labor Justice, Maquila Solidarity Network, e Worker Rights Consortium - accolgono con favore il fatto che l'estensione continuerà a vincolare i marchi membri dell'Accordo agli stessi obblighi dell'Accordo attuale. Questa proroga, tuttavia, estende lo status quo solo per poche settimane, ma il problema rimane: i marchi firmatari dell'Accordo firmeranno un nuovo accordo di sicurezza vincolante che obblighi ciascuno di loro a prendersi carico della sicurezza delle fabbriche tessili in Bangladesh, che mantenga un segretariato indipendente che ne monitori l’applicazione e che sia esteso ad altri paesi?
Senza un tale accordo, l’attività dei brand committenti in Bangladesh si risolverà in un monitoraggio totalmente autoreferenziale, quel tipo di pratiche che non sono certamente riuscite a prevenire il crollo del Rana Plaza.
Kalpona Akter, presidente del the Bangladesh Garment and Industrial Workers Federation e fondatrice del the Bangladesh Centre for Worker Solidarity, ha dichiarato: "Il RMG Sustainability Council, ha la competenza sulla sicurezza in Bangladesh, ma non quella di ritenere i marchi e i rivenditori responsabili delle loro promesse. Solo un accordo internazionale legalmente vincolante riconoscerà ai tribunali il potere di ritenere i marchi responsabili in per le promesse, disattese, di rendere le fabbriche sicure. Poiché sono i marchi a detenere il potere nelle filiere produttive, la sicurezza sul posto di lavoro in Bangladesh può dirsi garantita solo se i marchi sono costretti a mantenere la parola data.”
Lo scorso fine settimana è purtroppo scoppiato un grave incendio in una fabbrica di abbigliamento in Pakistan; fortunatamente, nessuno è rimasto ferito, ma se fosse accaduto durante un turno lavorativo un incendio di quel tipo avrebbe potuto avere conseguenze devastanti. La prevenzione è fondamentale e per questo motivo è urgente approvare un nuovo Accordo sulla sicurezza in Bangladesh ma non solo.
La breve proroga dell'accordo è stata necessaria poiché i marchi in negoziato hanno dichiarato di non voler rinnovare l’Accordo né estenderlo ad altri paesi, contrariamente a quanto dichiararono a gennaio 2020.
La pandemia ha poi ritardato i negoziati, e alcuni marchi hanno improvvisamente fatto marcia indietro, proponendo una versione dell'Accordo decisamente indebolita. Fortunatamente, altri marchi firmatari dell’Accordo stanno comunicando con i sindacati o pubblicando dichiarazioni che indicano che sosterranno un nuovo Accordo con gli elementi cruciali proposti dai sindacati. Fra questi marchi vi sono Asos, Tchibo, Zeeman, KiK, e G-Star. Nei prossimi tre mesi vedremo se gli altri firmatari dell'accordo intendono tornare alle pratiche pre-Rana Plaza oppure sono disposti ad assumersi le loro responsabilità.
Note:
- Il 29 aprile, i testimoni firmatari dell'accordo hanno pubblicato il rapporto Unfinished Business, evidenziando sia i successi dell'accordo sia indicando per 12 grandi marchi quali difetti cruciali di sicurezza sono ancora in sospeso
- Il Business and Human Rights Resource Centre ha chiesto a questi marchi una risposta pubblica
- La sottrazione dei marchi alla propria responsabilità è sorprendente alla luce della legislazione sulla due diligence sul rispetto dei diritti umani che sarà presto in vigore nell'UE
- Clean Clothes Campaign ha predisposto una pagina di Q&A: https://cleanclothes.org/campaigns/protect-progress/qa, e una lista di risorse per giornalisti
Amazon paghi subito tutte le lavoratrici e i lavoratori
Mentre Amazon si riunisce per l’Assemblea annuale degli azionisti, le lavoratrici e i lavoratori della sua catena di fornitura protestano per le condizioni in cui sono costretti a vivere e a lavorare.
Ad oggi Amazon è il principale distributore di moda negli Stati Uniti e i suoi marchi si riforniscono attraverso una vasta rete di circa 1.400 fabbriche in tutto il mondo. Nonostante i profitti record accumulati durante la pandemia, come denunciato in un recente rapporto del Worker Rights Consortium, l’azienda si rifiuta di garantire che le lavoratrici e i lavoratori licenziati in questi mesi ricevano l'indennità che gli spetta.
Così come i magazzinieri e gli addetti alle consegne, le persone delle fabbriche più remote del sistema globale di sfruttamento di Amazon esigono quanto loro dovuto.
Le organizzazioni della campagna PayYourWorkers, insieme alla coalizione Make Amazon Pay, di cui fanno parte anche il sindacato globale UNI e il movimento Internazionale Progressista, hanno promosso per oggi una giornata di azione globale in loro sostegno: la richiesta per Amazon è di pagare subito tutte le lavoratrici e i lavoratori della sua catena di fornitura.
Tra questi, ad esempio, i lavoratori tessili sindacalizzati in Bangladesh della fabbrica Global Garments, fornitore del colosso americano. Ad ottobre ha chiuso i battenti lasciando a casa 1.200 persone senza retribuzione o indennità di licenziamento. “La chiusura della fabbrica ci ha portato via i mezzi per sopravvivere” racconta Rintu Barua, addetto al controllo qualità per oltre 20 anni. “Negli ultimi 6 mesi ho provato a cercare lavoro in molte fabbriche. Ma siccome sono stato anche un leader sindacale alla Global Garments, nessuno mi vuole assumere”.
Oppure le lavoratrici e lavoratori in Cambogia della Hulu Garment, una fabbrica chiusa temporaneamente nel marzo 2020 lasciando a casa 1.020 persone. Al termine del periodo di sospensione, i lavoratori sono stati richiamati per sottoscrivere con l’impronta digitale un documento che avrebbe dovuto garantire loro il salario finale. In realtà conteneva una clausola nascosta con cui di fatto si dimettevano volontariamente. La Hulu Garment ha così trattenuto 3,6 milioni di dollari di indennità di licenziamento spettante a quei lavoratori.
Nel frattempo, mentre i lavoratori lottano per i propri salari non pagati, contro le attività antisindacali e le cattive condizioni di lavoro, nel 2020 grazie alla pandemia, i profitti netti di Amazon sono aumentati dell'84%, con un patrimonio netto di 314,9 miliardi di dollari.
La coalizione MakeAmazonPay ha programmato oltre 50 iniziative presso i siti Amazon in 10 paesi di 5 continenti: UK, Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo, Olanda, Bangladesh, Svizzera, Australia e Stati Uniti.
"Amazon deve pagare tutti i suoi lavoratori e lavoratrici, ovunque risiedano e qualunque sia la loro mansione. È una questione di giustizia sociale che guarda a un nuovo modello di sviluppo che metta finalmente al centro la salute e il benessere delle persone che lavorano e non i profitti e la ricchezza di pochi” dichiara Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti.
La campagna #PayYourWorkers, che riunisce 200 sindacati e organizzazioni della società civile di 35 diversi Paesi, chiede ai marchi di fornire immediato sollievo ai lavoratori dell'abbigliamento e di sottoscrivere impegni vincolanti per riformare il loro settore in rovina.
Tra i 200 aderenti troviamo Filcams-CGIL, che rappresenta i lavoratori del Commercio, Turismo e Servizi e le organizzazioni FAIR, Altraqualità, Fondazione Finanza Etica, Guardavanti onlus, Movimento Consumatori, Attac Italia, Coordinamento Nord Sud del mondo, Dress the change, Equo Garantito, Fairwatch, FOCSIV, IFE Italia, Lungotavolo45, Manitese, Spin Italy.
Quel giorno in cui i diritti iniziarono a fare tendenza
La direzione della fabbrica licenzia un gruppo di lavoratrici: proprio quelle che, poco tempo prima, avevano cercato di riunirsi e formare un sindacato. I supervisori insultano le donne che lavorano in fabbrica, a voce alta e umiliandole, talvolta prendendole a schiaffi, e negano loro il permesso di usare il bagno.
La fabbrica chiude senza preavviso, e chi ci lavorava rimane da un giorno all’altro senza stipendio e senza TFR.
Crolla un muro in una fabbrica, le lavoratrici rimangono ferite: alcune si assentano per malattia e vengono licenziate, alle altre viene imposto di tacere del tutto l’incidente, se vogliono mantenere il posto di lavoro.
Questi sono alcuni dei casi urgenti che la Clean Clothes Campaign ha assistito nel corso solamente dell’ultimo anno. Ma accadono tutti gli anni. Sebbene le aziende tessili vestono le proprie operazioni di parole quali “sostenibilità” e “responsabilità sociale”, quello che c’è sotto quei vestiti è tutt’altro che responsabile: è una sistematica ricerca del minor costo e del massimo profitto, che non si cancella con una campagna green.
La pandemia di Covid-19 ha aggravato le condizioni di sfruttamento sistematico delle filiere di produzione tessile ai cui vertici stanno i brand committenti: come hanno dimostrato diversi rapporti, i marchi e i distributori (inclusi i rivenditori online) hanno cancellato o ritardato il pagamento di ordini per miliardi di euro, giocando con i prezzi in modo tale da indebolire sia il potere contrattuale sia la capacità produttiva dei propri fornitori. La conseguenza di questo comportamento predatorio è stata che milioni di lavoratori e lavoratrici tessili si sono trovati da un giorno all’altro in mezzo alla strada, senza poter contare su alcun risparmio. La CCC propone soluzioni precise e puntuali per superare questa drammatica situazione, ma questo articolo si occupa di considerazioni di ordine generale.
Filiere tessili globali e diritti umani
Le violazioni dei diritti umani sono prevalenti nelle catene di fornitura di abbigliamento - è il modello di business stesso che si basa sullo sfruttamento, sull'abuso, e sulla discriminazione di genere (si stima che l'85% dei lavoratori dell'industria dell'abbigliamento siano donne). Prendere in considerazione l’elemento di genere è particolarmente importante perché è una componente strutturale, onnipresente, dello sfruttamento della forza lavoro nelle filiere tessili. Le donne sono pagate meno, hanno meno sicurezza nell'impiego (per esempio a molte viene negata la maternità: o lavori, o fai figli: se lavori ti paghiamo poco, ma se fai figli non ti paghiamo proprio) e affrontano regolarmente violenza fisica (dagli schiaffi alle molestie) e verbale (dagli insulti alle intimazioni urlate di lavorare mente i muri della fabbrica si crepano e sale la paura di morire).
In risposta alle pratiche di acquisto dei marchi, e cioè l’invio di ordini di produzione costanti (i brand fanno produrre nuove collezioni ogni settimana), le fabbriche scaricano i costi e i rischi sui lavoratori e sulle lavoratrici, imponendo loro turni straordinari (non sempre pagati) e subappaltando alcune produzioni a lavoratori e lavoratrici a domicilio, pagandoli la metà o un terzo del salario minimo legale; trascurando la sicurezza delle proprie fabbriche; impedendo ai lavoratori e alle lavoratrici di organizzarsi in sindacato.
I salari di povertà non permettono a chi lavora nel tessile di vivere una vita dignitosa, di pianificarla, di far studiare i propri figli e figlie, di mangiare e far mangiare la propria famiglia ogni giorno e in modo salutare. I proprietari delle fabbriche dicono di non avere altra scelta che mantenere salari bassi a causa dei prezzi bassi pagati dai clienti, o di rispettare, negli stati in cui è presente, il salario minimo legale.
Ma i salari sono bassi, e appunto in alcuni paesi “legali”, proprio perché i governi dei paesi di produzione li hanno mantenuti bassi nel tentativo di creare o proteggere l’esistenza stessa del lavoro.
Nei paesi di produzione, la libertà di associazione e l'effettivo riconoscimento del diritto alla contrattazione collettiva, cruciali per migliorare strutturalmente le condizioni di lavoro, ottenere diritti, e riequilibrare la disuguaglianza di potere basata sul genere, sono ostacolati dai produttori tessili con la complicità dei governi (anche perché spesso i conflitti di interesse sono rampanti: nel 2013, in Bangladesh, il 10% dei parlamentari era proprietario fabbriche tessili e almeno il 50% del totale dei membri del parlamento aveva connessioni e interessi economici nel settore della produzione tessile). Le norme sociali che limitano la voce e la partecipazione delle donne nella società mettono ulteriormente a dura prova la rivendicazione di questi diritti.
I lavoratori e le lavoratrici che cercano un rimedio per le violazioni dei diritti umani devono affrontare diverse difficoltà: risorse finanziarie insufficienti, mancanza di informazioni e barriere linguistiche, incertezze legate alla giurisdizione in cui far valere i propri diritti (se da un lato quella del paese di produzione, dove sono avvenute le violazioni, non offre norme certe e garantiste su cui contare, dall’altro quella del paese sede della società committente, che in ultima analisi ha la responsabilità di averle causate, è lontana e costosa), raccolta e documentazione delle prove. L'accesso al rimedio, anche nei paesi di committenza, è sempre più inteso in un senso procedurale piuttosto che in termini di risultati concreti, e cioè misure risarcitorie che non siano irrisorie per le vittime di violazioni, e tendono a sfociare in rimedi inadeguati o nessun rimedio.
Poiché le pratiche aziendali volontarie non hanno portato miglioramenti concreti alle condizioni di vita e lavoro delle catene del valore (del valore per chi?), la CCC appoggia l’iniziativa di riforma della corporate governance intrapresa dalla Commissione europea e che porterà all’approvazione di una direttiva sulla human rights and environmental due diligence, e cioè che introdurrà obblighi per le aziende committenti, al vertice delle catene di fornitura, di verifica del rispetto di condizioni dei diritti umani e del lavoro da parte dei propri fornitori lungo la filiera, non solo di primo livello, e di inclusione di considerazioni sull’impatto ambientale delle proprie operazioni.
Questa direttiva può risolversi in un esercizio di stile, oppure può portare miglioramenti concreti.
Abbiamo espresso le nostre principali considerazioni e gli elementi che per noi sono irrinunciabili nel position paper Fashioning justice, che riassumiamo di seguito, affinché tale legislazione raggiunga l’obiettivo che si pone, e cioè la prevenzione delle violazioni e la tutela delle persone e dell’ambiente, con specifico riferimento a ciò su cui abbiamo sviluppato la nostra expertise di campagna e cioè i diritti umani e del lavoro.
Approccio generale
Data la portata globale del commercio e i modelli di catene globali del valore, vogliamo sottolineare che, oltre che nell'Unione europea, a 10 anni dall’approvazione dei Principi Guida delle Nazioni Unite su Impresa e Diritti Umani (che raccomandano solamente, essendo principi guida, che le imprese conducano due diligence e rispettino i diritti umani), la CCC è nettamente a favore di un trattato vincolante delle Nazioni Unite che stabilisca una base normativa per il lavoro dignitoso lungo l'intera catena del valore globale e che ponga in capo alle aziende la responsabilità generale di rispettare i diritti umani e del lavoro in tutto il mondo.
Con riferimento alla direttiva europea, è importante in primo luogo ricordare che, essendo essa una legge-cornice, che gli stati membri dovranno recepire con legge nazionale, gli obblighi che essa conterrà dovranno essere considerati come minimi, e modificabili dagli stati solo in positivo a favore dei soggetti della tutela, e cioè i lavoratori delle filiere e l’ambiente. Una legislazione siffatta dovrebbe contenere obblighi espliciti di conformità (compliance), sia di effettuare due diligence (e di farla con regolarità) sia di pubblicare i dati raccolti mediante tale processo, e deve prevedere sanzioni adeguate in caso di non compliance. La due diligence dovrebbe coprire l’intera catena del valore, compresi i sistemi di lavoro semi-formali e informali, quali i subappalti non ufficiali e il lavoro a domicilio.
Gli elementi irrinunciabili della direttiva sulla human rights due diligence
Sulla base di oltre tre decenni di sforzi per migliorare le condizioni di lavoro nell'industria globale dell'abbigliamento, abbiamo una miriade di idee su come portare un significativo cambiamento positivo, particolarmente rilevanti per il settore ad alto rischio su cui ci concentriamo. Come organizzazione che si occupa di diritti del lavoro, poniamo un’attenzione particolare alla libertà di associazione, al diritto alla contrattazione collettiva, al diritto a un salario adeguato e al divieto di discriminazione sul lavoro.
Obblighi espliciti
Le imprese devono essere legalmente responsabili della violazione dei diritti umani e degli impatti impatti negativi causati nelle loro catene globali del valore e nelle loro operazioni e relazioni commerciali. L’obbligo di effettuare la human rights due diligence deve essere definito come l’obbligo di identificare, terminare, prevenire, mitigare, monitorare e rendere conto degli impatti negativi potenziali ed effettivi sui diritti umani e ambientali attraverso un processo regolare e costante, svolto in conformità con gli standard internazionali (che in ambito aziendale esistono e vengono applicati da anni, per esempio, con riferimento alla prevenzione della corruzione). Quando vengono riscontrate violazioni, l’impresa committente dovrebbe cooperare con il fornitore al fine di risolvere la situazione e far cessare gli abusi, e prevenirle in futuro.
In generale, infatti, perché il concetto di responsabilità abbia un vero significato, la legge dovrebbe prevedere che la cessazione delle relazioni commerciali sia usata solo come ultima risorsa: una cessazione improvvisa dei rapporti commerciali creerebbe più danni che benefici ai lavoratori e alla loro comunità. Se al netto degli sforzi per riparare agli abusi il committente è costretto a cessare la fornitura, i marchi e i distributori dovrebbero adottare un piano di eliminazione graduale per garantire che i lavoratori, indipendentemente il loro stato di occupazione formale, ricevano i salari e i benefici a cui hanno diritto.
Ambito di applicazione
Tale legislazione dovrebbe applicarsi a tutte le imprese,, incluse le imprese medio-piccole che operano in settori ad alto rischio (come quello tessile), fondazioni aziendali e le società di revisione e di certificazione. Gli obblighi di due diligence dovrebbero estendersi all’intera filiera, perché più si scende nella catena di produzione e più aumentano gli abusi (in altre parole: il vecchio adagio “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” è purtroppo vero: ma proprio perché è vecchio, va riformato).
Sanzioni effettive
La direttiva dovrebbe garantire l'applicazione della due diligence obbligatoria attraverso una combinazione efficace di misure, quali sanzioni civili e penali adeguate, competenze e risorse ad organismi nazionali designati, la collaborazione tra autorità preposte all'applicazione e riconoscendo ai terzi la legittimazione attiva ad avviare procedimenti.
Estensione e oggetto della due diligence
La direttiva dovrebbe imporre obblighi di pubblicazione e trasparenza della catena del valore e che la divulgazione di informazioni sulla filiera non sia limitata ai fornitori più vicini o agli attori di primo livello, ma si estenda all'intera catena del valore inclusi i lavoratori a domicilio (a meno che ciò non possa mettere in pericolo la loro sicurezza), i lavoratori a contratto, lavoratori occasionali pagati a cottimo, i lavoratori migranti. I marchi sono già consapevoli delle forme di lavoro indecenti che compongono le filiere tessili: è giunto il momento che lo ammettano pubblicamente.
La legislazione UE dovrebbe riconoscere e affrontare il fatto che le pratiche di acquisto delle imprese hanno un impatto diretto sui diritti umani. Prendere in considerazione le pratiche di acquisto permetterebbe anche la condivisione dei costi legati alla sicurezza degli edifici lungo la catena del valore invece di spingerli verso le fabbriche e i livelli inferiori della catena.
Gli audit sociali non dovrebbero essere incoraggiati o riconosciuti dalla legislazione come prova di avere effettuato due diligence, poiché essi sono profondamente imperfetti e legati a molti casi di abusi aziendali e di ridefinizione del significato dei diritti umani allo scopo di dimostrare la conformità anche quando questa è palesemente carente.
Obblighi di rendicontazione e trasparenza
Le aziende dovrebbero essere obbligate a offrire formazione ai fornitori sui loro obblighi in materia di diritti umani e a tutti i lavoratori sui loro diritti lavorativi, sul processo di due diligence e sui meccanismi di reclamo messi a loro disposizione. Ciò è fondamentale, perché l’accesso alle informazioni è il primo strumento di difesa di cui possono avvalersi sia i lavoratori e gli attivisti.
Con riferimento a quest’ultimo punto, infatti, è necessario che le informazioni raccolte durante il processo di due diligence siano rese pubbliche dalle aziende in totale trasparenza, sia per garantire l’accesso alle informazioni, sia per garantire il controllo sociale delle filiere, riparare gli abusi in corso e prevenirne di ulteriori. Alcune aziende pubblicano già le informazioni in modo volontario: con la conclusione che ciò è effettivamente praticabile, ma se fatto in modo volontario non è sufficiente e si risolve in un esercizio di stile, non permettendo di utilizzare tali informazioni.
Accesso alla giustizia e diritto di difesa e tutela delle vittime di abusi
L'accesso alla giustizia nell'UE per i titolari di diritti che si trovano in paesi terzi dovrebbe essere facilitato attraverso l'estensione dei termini di prescrizione e attraverso l'applicazione del principio giurisprudenziale della parità di accesso alla giustizia, obbligando le imprese a rivelare tutte le prove in loro possesso relative alla presunta violazione. Le responsabilità devono essere sia civili che penali, e l'una non deve escludere l'altra.
Le forme chiave di rimedio in sede civile includono: risarcimento, eliminazione dei rischi per la sicurezza, reintegrazione di sindacalisti/e, copertura della sicurezza sociale, pagamento dei salari arretrati e delle indennità di licenziamento, cessazione degli straordinari forzati e/o non pagati, la concessione di maternità e di malattia e il licenziamento dei supervisori che molestano le lavoratrici.
Con riferimento all'esecuzione penale, il foro competente dovrebbe essere quello dello Stato in cui la società è registrata, ha la sua sede principale di attività, o ha situato la sua sede amministrativa centrale.
Criteri sociali negli appalti pubblici
Vogliamo che il settore pubblico, e cioè i committenti e le stazioni appaltanti pubblici di qualsiasi livello, siano i primi ad esigere che le proprie forniture non vengano rese creando impatti negativi sulla società che loro stessi amministrano, in altre parole di cui sono chiamati a prendersi cura.
E’ opportuno creare incentivi positivi per le aziende ad implementare la due diligence sui diritti umani premiando la conformità (e penalizzando la non conformità), in particolare quando le autorità pubbliche contrattano beni e servizi da aziende attraverso gli appalti pubblici. In questo senso, la formazione di piani nazionali di reazione alla crisi economica causata dalla pandemia di coronavirus (quello che in Italia è il PNRR) è un’occasione che non dovrebbe cadere nel vuoto.
Come cambierebbero le condizioni delle filiere e i comportamenti aziendali
La Commissione europea dovrebbe pubblicare una bozza di direttiva nel mese di giugno. Ci auguriamo che essa sia all’altezza delle sue ambizioni. Se così fosse sarebbe davvero l’occasione perché i marchi e i distributori tessili smettano di prendere a pretesto la mancanza di regolamentazione o la mancanza di applicazione delle leggi e dei regolamenti sul lavoro nei paesi fornitori come scusa per le violazioni dei diritti umani nelle loro catene di valore. Non potrebbero più minacciare di spostare la loro produzione in altri paesi se i governi o i sindacati segnalano l'intenzione di aumentare i salari minimi o rafforzare la tutela dei diritti del lavoro.
I marchi e i distributori potrebbero, invece, colmare le lacune nella protezione dei diritti umani esistenti negli stati di produzione concludendo accordi vincolanti di filiera, applicabili all’intera catena del valore su questioni fondamentali come i salari, la violenza di genere, la libertà di associazione, salute e sicurezza, e che affidano ad organizzazioni indipendenti la verifica del rispetto degli accordi e la gestione di reclami e rimedi. Questi accordi sono particolarmente importanti ed efficaci perché non va dimenticato che solo gli sforzi collettivi, anche da parte degli stessi marchi, possono cambiare davvero le cose. Se un fornitore ha più clienti, sono tutti quei clienti che, insieme, devono chiedergli, e dunque devono permettergli, di cambiare le sue pratiche
I processi di human rights due diligence sarebbero incorporati in ogni decisione aziendale, come un dovere continuo in capo a tutti dipartimenti rilevanti, soprattutto gli acquisti. I dipartimenti devono essere dotati di sufficienti risorse umane e finanziarie, e del potere esecutivo per garantire che le pratiche di acquisto siano coerenti con il piano di due diligence e con un trattamento dignitoso dei propri fornitori e dei lavoratori e delle lavoratrici delle proprie filiere.
Conclusioni
Non basta certamente una legge dell’Unione europea a cambiare il mondo. Ma innanzitutto è un passo importante, perché la forza del mercato dell’UE potrebbe avere un effetto domino positivo su altre giurisdizioni e altri mercati.
E’ giunto il momento che il legislatore, dovunque esso sia, si renda conto che per troppo tempo ha permesso agli attori economici di approfittare dell’assenza di obblighi, dei vuoti di tutela e delle mancanze del settore pubblico per privatizzare i profitti ed esternalizzare le perdite e i costi sociali. E’ giunto il momento di pretendere, da parte delle aziende, l’assunzione di responsabilità degli impatti sulle proprie filiere, ed invocare, non proclamare, un effettivo invito all’azione. La pandemia di coronavirus ha reso palese quanto siamo interdipendenti gli uni dagli altri, come individui, come attori economici, come stati sovrani. Rendiamo questa interdipendenza un valore e non una malattia. La direttiva sulla human rights and environmental due diligence ha questo potenzial
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Il position paper integrale della CCC sulla human rights due diligence, Fashioning justice, è disponibile qui.
OVS si impegna a lasciare la regione uigura. Ora gli altri marchi italiani facciano altrettanto
Grazie all’intensa campagna di pressione End Uyghur Forced Labour, lanciata nel luglio del 2020 e condotta da oltre 300 organizzazioni nel mondo tra cui la Campagna Abiti Puliti, OVS, noto marchio italiano della moda internazionale, ha finalmente sottoscritto l’impegno pubblico a dismettere gli approvvigionamenti dallo Xinjang e uscire dalla regione uigura.
OVS ci ha comunicato di non avere fornitori in quella zona, considerando che il cotone da loro utilizzato, prevalentemente organico, proviene da altri paesi o dalla Better Cotton Initiative, che ha sospeso da tempo tutte le licenze ai coltivatori dello Xinjiang.
È un passo significativo per i diritti del popolo uiguro: da 1 a 3 milioni di persone internate dal governo cinese in campi di lavoro forzato in cui si stima venga prodotto circa un quinto del cotone utilizzato dai marchi della moda su scala mondiale. Indottrinamento, rieducazione, torture, violenze, sterilizzazione forzata e vera e propria schiavitù sono alcune delle pratiche utilizzate per opprimere la popolazione uigura e sfruttarla illecitamente come forza lavoro gratuita alla raccolta del cotone e alla produzione di abbigliamento di cui si avvalgono i marchi internazionali.
Da mesi ormai le organizzazioni di difesa dei diritti umani chiedono alle aziende di assumersi pubblicamente l’impegno di disinvestire dalla regione autonoma uigura dello Xinjiang. Diversi governi del G7 (fra cui il Canada e gli Stati Uniti) hanno condannato la politica cinese nella regione e anche il Pontefice ha espresso preoccupazione. Per la prima volta in 30 anni, il 22 marzo anche l’Unione europea ha imposto sanzioni economiche su alcuni ufficiali cinesi a causa del trattamento inumano riservato agli Uiguri. Se il mondo della politica ha fatto dei timidi passi avanti, quello dell’economia non vuole sentire ragioni: sono ancora pochi i marchi che hanno preso le distanze dalla Regione e, dal momento che la situazione degli Uiguri è ormai nota da anni, ignorarla volutamente è diventato inaccettabile. Per salvare la popolazione uigura servono condotte di impresa coerenti basate sui fatti, con posizioni nette contrarie al lavoro forzato. Marchi come Zara, Nike e Apple possono e devono agire concretamente privilegiando la vita e la dignità degli uiguri rispetto al mantenimento di produzioni provenienti da filiere alimentate da lavoro forzato. Le imprese non devono soccombere alle pressioni degli internauti cinesi che in queste ore hanno scatenato una bufera contro i marchi che avevano dichiarato il disimpegno commerciale dalla regione dello Xinjang, minacciando di boicottarli. Sul lavoro forzato non posso esserci compromessi e le imprese sono oggi chiamate a scegliere da che parte stare: i diritti umani o gli interessi commerciali.
L’84% del cotone prodotto in Cina viene dalla regione uigura, il 20% della produzione mondiale: un abito in cotone su 5 è prodotto con l’uso di lavoro forzato. Chiediamo a marchi e distributori tessili di abbandonare definitivamente la regione uigura ad ogni livello della loro catena di fornitura, dall’approvvigionamento del cotone all’importazione di prodotti finiti, ponendo fine ai rapporti con i fornitori che supportano il sistema del lavoro forzato. E’ innegabile che le imprese multinazionali abbiano un potere enorme. Ebbene, esse hanno anche la responsabilità di adottare qualsiasi misura possibile per adempiere agli obblighi di responsabilità aziendale e di rispetto dei diritti umani così come stabilito dai Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani.
“Ci auguriamo che l’adesione di OVS all’impegno per lasciare la regione uigura convinca gli altri marchi che ancora non hanno fatto passi pubblici concreti a fare altrettanto. Questo primo importante risultato rinvigorisce lo sforzo della coalizione internazionale e ci motiva a continuare la pressione: il lavoro forzato è una condizione che fa orrore e che nessuno (consumatori, produttori, politici) può accettare né fingere di non vedere” ha dichiarato Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti.
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Rana Plaza 8 anni dopo: a rischio l'Accord
Il 24 aprile di otto anni fa crollava l'edificio Rana Plaza con migliaia di persone all'interno, di cui almeno 1.134 morirono. Poiché c’è il lockdown anche in Bangladesh, abbiamo realizzato una piattaforma di commemorazione online. Su questa piattaforma sarà anche possibile chiedere direttamente e pubblicamente ai marchi di mettere il paese nelle condizioni di continuare a prevenire futuri disastri: il programma che ha reso le fabbriche più sicure dopo il crollo del Rana Plaza rischia di essere vanificato nelle prossime 6 settimane e dunque è vitale agire ora.
Il crollo del Rana Plaza è il peggior disastro industriale che il settore dell'abbigliamento abbia mai visto, e si poteva tranquillamente evitare. I lavoratori e le lavoratrici sono stati costretti a entrare in un edificio che sapevano non essere sicuro sotto la minaccia di perdere il loro salario. Questa settimana il nostro pensiero va a tutti coloro che hanno dovuto vivere o sono morti in questa tragedia. Per permettere di commemorare significativamente questo giorno e le persone che ne sono state colpite, anche durante un lockdown, in Bangladesh e a livello internazionale, abbiamo lanciato insieme ai sindacati del Bangladesh il sito web RanaPlazaNeverAgain.org in inglese e Bengalese. Qui ognuno può lasciare un messaggio di commemorazione.
La piattaforma commemorativa permette anche di inviare messaggi direttamente ai marchi che producono in Bangladesh e che stanno per far saltare il “Bangladesh Accord”, un programma che è stato certamente efficace nel rendere le fabbriche più sicure per oltre 2 milioni di lavoratori e lavoratrici nel corso degli ultimi otto anni. L'Accord, che favorisce la sicurezza degli edifici in Bangladesh e misure antincendio, è stato ideato settimane dopo il crollo come un programma di sicurezza vincolante, sulla base della constatazione che i programmi volontari non erano riusciti a prevenire questa tragedia. Il Bangladesh Accord è stato firmato da oltre 200 marchi e ha reso più sicure oltre 1.600 fabbriche in tutto il paese. La natura vincolante dell’Accordo, cruciale per il suo successo, scadrà il 31 maggio. Nessun marchio o distributore attualmente membro dell'Accordo si è impegnato a firmare un nuovo programma altrettanto legalmente vincolante. Al contrario, i marchi stanno proponendo versioni del programma annacquate e indebolite, e ciò rende estremamente probabile che la sicurezza sul posto di lavoro in Bangladesh torni ai livelli precedenti al crollo del Rana Plaza.
Kalpona Akter, presidente della Bangladesh Garment and Industrial Workers Federation ha dichiarato: "Rana Plaza non è stato un incidente: è stato un omicidio. Questo disastro era del tutto evitabile e non sarebbe accaduto se ci fossero state misure di sicurezza adeguate, un monitoraggio efficiente delle condizioni di lavoro e l’ascolto dei lavoratori stessi. Il Bangladesh Accord ha introdotto e implementato tali misure di sicurezza negli ultimi otto anni. Se vogliamo prevenire un altro Rana Plaza e promuovere cambiamenti positivi, allora abbiamo bisogno di un nuovo accordo che sia firmato da tutti i marchi che producono in Bangladesh".
“Abbiamo contattato Benetton, OVS e Artsana, i marchi italiani firmatari del Bangladesh Accord in scadenza, per chiedere di rinnovare l’impegno per garantire la sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori nelle fabbriche dei loro fornitori, in Bangladesh e negli altri paesi a rischio” dichiara Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti, coalizione italiana della Clean Clothes Campaign. “Ci aspettiamo che le imprese italiane non facciano marcia indietro e anzi si adoperino per garantire continuità al programma e proteggere i fondamentali progressi sulla sicurezza raggiunti in questi anni per almeno 2 milioni di lavoratrici e lavoratori. Senza un nuovo accordo vincolante il rischio di tornare alle condizioni che hanno causato il crollo del Rana Plaza è davvero alto” conclude Lucchetti.
I sindacati e le organizzazioni per i diritti dei lavoratori in Bangladesh e a livello globale pretendono un accordo internazionale vincolante sulla sicurezza nelle fabbriche. Solo un accordo siffatto può assicurare che il lavoro in corso in Bangladesh non vada perso e continui anzi ad impegnare i brand, anche con responsabilità legali da far valere in tribunale.
Un rinnovato accordo internazionale vincolante sulla sicurezza in Bangladesh avrebbe anche l’effetto di condizionare altri paesi con fabbriche di abbigliamento notoriamente insicure, come ad esempio il Pakistan, a fare altrettanto. I recenti incidenti in Marocco e in Egitto dimostrano che nell’industria tessile sono ancora troppe le fabbriche insicure e che i programmi volontari dei marchi non sono in grado di garantire la sicurezza dei lavoratori.
La Campagna Abiti Puliti ha scritto ai sottosegretari dei Ministeri dello Sviluppo Economico (on. Anna Ascani), Affari Esteri e Cooperazione Internazionale (on. Manlio Di Stefano), Lavoro e Politiche Sociali (sen. Rossella Accoto), nonché ai Presidenti delle Commissioni Attività Produttive e Affari Esteri di entrambe le Camere (on. Pietro Fassino, sen. Gianni Girotto, sen. Vito Petrocelli, on. Martina Nardi) oltre che al Punto di Contatto Nazionale dell’OCSE presso il MISE per rendere nota la situazione e chiedere che si uniscano con convinzione alla richiesta della Campagna ai marchi tessili, anche italiani, di rinnovare l’Accordo e non sottrarsi alle loro responsabilità. Analoghe richieste sono state inoltrate dall’ufficio europeo della Clean Clothes Campaign ai rappresentanti istituzionali dell’Unione, inclusi molti italiani.
Le scarpe made in Italy affondano il tacco nel traffico illecito di fanghi inquinanti
La produzione del cuoio made in Italy è uno dei settori di punta del sistema moda: senza il cuoio non si potrebbero fare le scarpe italiane vendute in tutto il mondo (o le cinture, le borse, le giacche…).
La lavorazione del cuoio richiede un processo industriale dall'altissimo impatto ambientale: si utilizza un enorme quantità di acqua che viene poi rilasciata nei depuratori carica di sostanze tossiche. Il distretto della concia di Santa Croce, oltre agli altri prodotti della pelle, fornisce tutto (o quasi) il cuoio per suole prodotto in Italia. Qui ogni anno vengono utilizzati 6 milioni di metri cubi d'acqua per il processo di concia.
Buona parte di queste acque sono gestite dal Consorzio Aquarno, emanazione delle aziende conciarie, oggi al centro di una indagine della DDA di Firenze. Gli investigatori sostengono che il Consorzio pagava politici per evitare l'obbligo di sottoporsi ai controlli ambientali e che i vertici dell'Associazione Conciatori di Santa Croce avrebbero sostenuto da anni un sistema di smaltimento illegale dei residui inquinanti che prevedeva il loro utilizzo come materiale per i cantieri stradali, attraverso imprese gestite da clan della 'ndrangheta.
Nel 2015 il Centro Nuovo Modello di Sviluppo con la Campagna Abiti Puliti ha pubblicato un rapporto sull'industria della concia nel distretto di Santa Croce dal titolo "Una dura storia di cuoio", in cui portavamo alla luce i dati sull'impatto ambientale del settore. In particolare denunciavamo l'opacità delle informazioni fornite dai soggetti responsabili dello smaltimento dei rifiuti: «le autorità pubbliche - scrivevamo allora - si sono mostrate poco collaborative come se la gestione dei rifiuti fosse un fatto privato che possono gestire nel segreto delle stanze».
Negli anni scorsi non sono mancati episodi di illeciti legati allo scarico abusivo dei prodotti inquinanti della concia. Nel maggio 2018 un'altra indagine della stessa DDA aveva svelato l'esistenza di rapporti di affari illeciti tra clan camorristici e imprenditori del settore del cuoio, per riciclare il denaro sporco.
Sotto il mondo scintillante del lusso e delle scarpe di cuoio si nascondono traffici criminali, corruzione e l'inquinamento illegale del territorio, oltre allo sfruttamento dei lavoratori, soprattutto immigrati.
Una nota ancora dolente da ricordare e che oggi risuona oltremodo profetica: quando quel rapporto fu pubblicato, gli estensori subirono una campagna di pressione senza precedenti da parte del finanziatore (Commissione Europea) perché esso fosse ritirato dalla circolazione a causa di presunte e mai dimostrate inesattezze e falsità denunciate dalle associazioni industriali dei conciatori italiana ed europee.
Quel rapporto accurato e basato su evidenze pubbliche non è mai stato rimosso ma anzi ripubblicato, rinunciando al finanziamento europeo, con una prefazione che dettaglia quella triste e durissima storia di pressione e pericolosa interferenza delle lobby industriali nella vita democratica delle istituzioni europee.
Oggi più che mai vale la pena rileggerlo. Seppure datato, quel rapporto conserva la freschezza di un quadro attualissimo e fosco. La Campagna Abiti Puliti esprime massima solidarietà ai lavoratori e alle lavoratrici del distretto conciario, auspicando legalità e tutela dei loro diritti.
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Made-in-Italy shoes industry sinks its heels into illicit trafficking of polluting sludge
Italian leather production is among one of the fashion system production leading sectors: without leather, it would not be possible to make the Italian shoes sold all over the world (but also belts, bags, jackets...).
Processing leather requires an industrial process with a very high environmental impact: a huge amount of water is used, which is then released into purification plants laden with toxic substances. The Santa Croce tanning district, in addition to other leather products, supplies all (or almost all) of the sole leather produced in Italy. Here, 6 million cubic metres of water are used each year for the tanning process.
Much of this water is managed by the Aquarno Consortium, an offshoot of the tanning companies, which is now the focus of an investigation by the anti-mafia prosecution office in Florence. The investigators claim that the Consortium paid politicians to avoid the obligation to undergo environmental controls and that the top management of the Santa Croce Tanners' Association has been supporting for years an illegal disposal system of polluting residues that involved their use as material for road construction sites, through companies managed by organised crime/mafia clans.
In 2015, the Centro Nuovo Modello di Sviluppo with the Campagna Abiti Puliti published a report on the tanning industry in the Santa Croce district entitled "Una dura storia di cuoio", in which we brought to light data on the environmental impact of the sector. In particular, we denounced the opacity of the information provided by those responsible for waste disposal: 'the public authorities,' we wrote at the time, 'have been uncooperative, as if waste management were a private matter that they could manage in the secrecy of their rooms'.
The glittering world of luxury and leather shoes conceals criminal trafficking, corruption and illegal land pollution, as well as the exploitation of workers, especially immigrants.
This is one more painful note to bear in mind, and one that sounds extremely prophetic today: when that report was published, the authors were subjected to an unprecedented pressure campaign carried out by the funder (the European Commission) to withdraw it from circulation because of alleged and never proven inaccuracies and falsehoods denounced by the Italian and European tanners' industrial associations.
That accurate and evidence-based report has never been removed but rather republished, renouncing to those European funding, with a preface detailing that sad and very harsh history of pressure and dangerous interference of industrial lobbies in the democratic life of European institutions.
Today, more than ever, it is worth re-reading it. Although dated, that report retains the freshness of a very current and gloomy picture. The Campagna Abiti Puliti expresses its utmost solidarity with the workers in the tanning district, calling for legality and protection of their rights.
I marchi e i produttori di abbigliamento non possono rimanere in silenzio sulle atrocità del Myanmar
Il network globale della Clean Clothes Campaign condanna fermamente il comportamento silente dei marchi di abbigliamento, tra cui Aldi North, Lindex e Marks & Spencer, sulle atrocità commesse dai militari in Myanmar in seguito al colpo di stato militare intervenuto all'inizio di febbraio. Marchi come H&M, Next, C&A, Primark e Benetton hanno sospeso le forniture, ma ciò non elimina la loro responsabilità nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici con riferimento al pagamento dei salari e delle liquidazioni a loro spettanti.
I lavoratori e le lavoratrici tessili hanno giocato un ruolo chiave nelle proteste in corso a favore della democrazia, combattendo per i loro diritti e libertà e correndo rischi in prima persona. La repressione violenta dell'esercito prende di mira chi partecipa al movimento di disobbedienza civile: negli ultimi due mesi, i militari hanno ucciso più di 500 persone.
All'inizio di marzo, la CCC ha invitato i marchi di abbigliamento che si riforniscono dal Myanmar a prendere una serie di misure concrete per proteggere i diritti e la sicurezza dei lavoratori dell'abbigliamento. Per anni i marchi che si riforniscono dal Myanmar hanno sfruttato le deboli leggi sul lavoro e la miseria delle retribuzioni per fare profitti e guadagni. Ora, in questo momento di crisi, non possono negare sostegno attivo ai lavoratori.
Fra i marchi che non hanno fornito risposte pubbliche alla devastante situazione in Myanmar vi sono Aldi North, Lindex e Marks & Spencer. È vergognoso che i marchi tessili non diano la priorità alla protezione dei diritti umani e delle vite, specialmente in considerazione dell'urgenza di tale situazione.
H&M, Next, C&A, Primark, Benetton e tutti i marchi con filiere in Myanmar devono agire proattivamente per garantire i salari e il sostentamento delle persone che producono i loro vestiti in questo momento di crisi. È fondamentale che i marchi facciano pressione sui militari attraverso dichiarazioni pubbliche, ammettendo che il ritiro degli ordini dai loro fornitori è un risultato diretto del colpo di stato militare e dell'attacco alla democrazia e ai diritti umani, e non dovuto a questioni logistiche.
Chiediamo a tutti i marchi, distributori e produttori attivi in Myanmar di prendere misure immediate per proteggere i lavoratori dell'abbigliamento. Hanno la responsabilità di assicurare ai lavoratori il pagamento dei loro salari o, in caso di perdita del lavoro o di chiusura della fabbrica, dell'intera liquidazione loro dovuta. Non solo, i marchi devono anche assicurarsi presso i fornitori che i lavoratori non debbano affrontare misure punitive per aver saltato il lavoro, indipendentemente dal fatto che si siano uniti alle proteste, che non siano in grado di andare al lavoro o che siano tornati ai loro villaggi in quanto legittimamente preoccupati per la loro sicurezza.
Il numero di morti per mano dei militari aumenta ogni giorno. I marchi non possono più rimanere in silenzio.
(2021) REPORT: Come calcolare l'Europe Floor Wage
La Clean Clothes Campaign compie un altro passo avanti nella lotta per migliorare le condizioni di lavoro e sostenere i lavoratori e le lavoratrici tessili nella rivendicazione di salari dignitosi. Grazie a una ricerca durata 6 anni e supportata dalla consulenza di vari esperti del network e di altre reti e organizzazioni, tra cui l'Asia Floor Wage Alliance, nasce l'Europe Floor Wage: una proposta e un metodo per calcolare un salario dignitoso transfrontaliero applicabile ai diversi Paesi dell'Europa centrale, orientale e sud-orientale.
Scarica il report
“Ci sono giorni che non abbiamo nulla da mangiare”
Una lavoratrice ucraina.
In quest’area, solo nell'industria dell'abbigliamento, lavorano più di 2,3 milioni di persone, prevalentemente donne, con salari netti minimi legali inferiori alle soglie di povertà definite dall'Unione Europea. Marchi e distributori della moda, che continuano a realizzare ingenti profitti, anche durante la pandemia, usano la minaccia della delocalizzazione per beneficiare della concorrenza internazionale tra Paesi e regioni. In questo modo aumentano la propria capacità di comprimere i costi, indebolendo il potere contrattuale di lavoratori e sindacati.
Nonostante il salario dignitoso sia un diritto umano riconosciuto dal diritto internazionale e dall'Unione Europea, gli stipendi minimi sono così bassi che le persone, pur lavorando, sono costrette in condizioni di povertà.
In risposta a questa situazione inaccettabile, la Clean Clothes Campaign ha sviluppato l'Europe Floor Wage, un benchmark transfrontaliero dei salari basato sul della vita in 15 Paesi europei di produzione di abbigliamento, di cui 7 membri dell'Unione Europea. È uno strumento concreto per mostrare a marchi e governi quale sia il salario necessario per vivere dignitosamente, utile alle organizzazioni del lavoro e ai sindacati per rafforzare il loro potere contrattuale. Secondo i calcoli elaborati, mediamente, i salari minimi legali dei vari Paesi analizzati equivalgono a ¼ del livello considerato dignitoso.
Le norme internazionali stabilite dalle Nazioni Unite riportano: "I salari e le prestazioni pagate per una settimana lavorativa standard dovrebbero soddisfare almeno gli standard salariali minimi legali o del settore e essere sempre sufficienti a soddisfare le esigenze di base dei lavoratori e delle loro famiglie oltre a fornire un reddito discrezionale."
Questo significa che un salario dignitoso dovrebbe:
- essere pagato a tutti i lavoratori, pertanto un salario minimo inferiore sarebbe illegale
- essere guadagnato in una settimana lavorativa standard, non superiore a 48 ore
- essere un salario di base: al netto di prestazioni, bonus e straordinari
- coprire le esigenze di base della lavoratrice e della sua famiglia
- fornire un reddito discrezionale pari ad almeno il 10% del salario di base.
L’idea di elaborare un salario dignitoso di base parametrato al costo della vita su base transfrontaliera è nata da una rete di attivisti, accademici e sindacalisti in Asia. Da quella felice intuizione è nato l'Asia Floor Wage, un metodo di calcolo oggi ampiamente riconosciuto e fondamentale come parametro di riferimento per le lavoratrici e i lavoratori asiatici.
Ispirandosi alla metodologia dell’ Asia Floor Wage, la rete europea della Clean Clothes Campaign ha elaborato una proposta di salario per l’Europa Orientale, centrale e sudorientale. Ciò è avvenuto tramite un processo orizzontale e inclusivo durato diversi anni basato su ricerche, interviste ai lavoratori e confronto tra le diverse realtà della rete, ponendo al centro le peculiarità e le competenze dei paesi di produzione.
Avere un valore di riferimento è fondamentale per rivendicare e negoziare un salario dignitoso. Ma non basta! In un contesto globalizzato dove i marchi e i distributori determinano le condizioni salariali delle lavoratrici e dei lavoratori nelle catene globali di fornitura, è necessario adottare nuovi strumenti di contrattazione in grado di obbligare le imprese committenti a corrispondere prezzi di acquisto sufficienti a garantire salari dignitosi a tutti i lavoratori della filiera. Gli accordi salariali vincolanti sono la possibile soluzione.
I lavoratori e le lavoratrici della moda percepiscono salari miseri, sia perché i marchi committenti pagano prezzi di acquisto troppo bassi per garantire salari adeguati ma anche perché i governi dei paesi di produzione fissano salari minimi legali ad di sotto della soglia di povertà. Schiacciati da una feroce competizione internazionale che favorisce politiche di moderazione salariale, i lavoratori tessili in Europa, in maggioranza donne, sono condannanti alla povertà. La questione è di grande attualità nel dibattito politico europeo, come dimostra la recente proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a salari minimi adeguati nell’Unione Europea