Dal 16 luglio trovano i cancelli della loro fabbrica chiusi. Da tre mesi vivono senza stipendio e a resistere sono rimasti in 174. La loro colpa e’ di aver scioperato per quattro giorni a luglio per chiedere il rispetto del salario minimo legale e la fine delle intimidazioni nei confronti del loro giovane sindacato. Sono le lavoratrici e i lavoratori della PT Busana Prima Global di Bogor che produce abbigliamento sportivo per grandi marche europee e americane: Le Coq sportif, Bear USA, Lotto, Head e per squadre di calcio come il Manchester United.

Una giovane operaia racconta: “Una di quelle sere passate a lavorare in straordinario fino alle 6 del mattino, sono svenuta. Mi hanno condotto in infermeria e fatta distendere sul lettino. Mi sono riposata un po’, poi l’infermiera mi ha portato un po’ d’acqua e qualcosa da mangiare. Ha aspettato che finissi, ma subito mi ha fatto fretta perche’ ritornassi al mio posto, il lavoro non puo’ aspettare”.

Gli straordinari sono una cosa seria alla PT Busana, e anche se il preavviso e’ minimo, non ci si puo’ rifiutare. Chi lavora a tempo determinato, sa che non ricevera’ le maggiorazioni di legge. Non sorprende che i lavoratori raccontino che almeno una volta al giorno qualcuno si ferisce le dita, trafitte dall’ago della macchina da cucire. I rimedi sono sbrigativi: l’ago viene estratto, viene applicata tintura di iodio, e si deve riprendere il lavoro.

Situazioni come queste non sono una novita’, cosi’ come spesso capita che alla fine i lavoratori si coalizzino e reagiscano, nei paesi che almeno ufficialmente non lo vietano, costituendo un sindacato. Ma di li’ in poi la strada e’ tutta in salita. Alle prime rivendicazioni, al primo sciopero, fioccano i licenziamenti. Ogni datore di lavoro adotta una propria strategia: chi si appiglia a un cavillo legale, chi fa muro senza fornire giustificazioni.

Nel caso della PT Busana, ha fatto gioco una legge che consente in Indonesia di licenziare un lavoratore che senza giustificato motivo non si presenti al lavoro per cinque giorni di fila. Il 15 luglio, dopo quattro giorni di sciopero, un accordo mediato dal ministero del lavoro fissava per il giorno successivo il rientro in fabbrica. Ma quella mattina, davanti ai cancelli chiusi, gli addetti alla sicurezza ordinavano ai lavoratori di attendere. Dopo qualche ora, senza motivo apparente, due lavoratori venivano accusati da rappresentanti della direzione di atti di violenza e fatti condurre ai locali uffici di polizia dove venivano seguiti dagli altri compagni che volevano portare solidarieta’. Quello stesso pomeriggio, 166 persone venivano licenziate con il pretesto di aver superato i cinque giorni di assenza dal lavoro. I lavoratori della PT Busana si sono rivolti alla giustizia perche’ sia riaffermato il diritto di sciopero, ma sanno che potrebbero passare anche due anni prima di una sentenza, nel frattempo sono disoccupati e non hanno ricevuto ne’ la liquidazione ne’ l’indennita’ di licenziamento.

In agosto abbiamo scritto alla direzione della Lotto che ha risposto dicendo che la PT Busana non e’ un suo fornitore diretto, ma il fornitore del suo licenziatario inglese. Assicurava di averlo immediatamente invitato a sollecitare al fornitore una soluzione positiva della vertenza. Da allora pero’ non abbiamo avuto piu’ notizie e non ci risulta neppure che Lotto abbia risposto alla segreteria della Clean Clothes Campaign in merito alle politiche aziendali adottate per garantire e  verificare il rispetto degli standard sindacali.

Ci sembra quindi arrivato il momento di insistere.

CHE COSA POSSIAMO FARE:

Vi invito a collegarvi al sito della Clean Clothes Campaign: www.cleanclothes.org e ad aggiungere il vostro nome alla lettera di pressione telematica indirizzata a: Bear USA, Le Coq Sportif, Lotto e Head. Trovate il link al caso in prima pagina  annunciato da una bella foto delle operaie della PT Busana, e che inizia con “Please keep supporting the 174 young Indonesians in the PT Busana factory who dared to stand up for their rights”. Ciccate su “Please take two minutes to sign on to the web petition”