Servono più imprese disponibili a praticarla e regole efficaci per promuoverla.

La Campagna Abiti Puliti lancia un nuovo position paper sulla Trasparenza per chiedere alle aziende della moda di rendere pubbliche le informazioni sulle loro catene di fornitura. Questo permetterà ai lavoratori, ai consumatori, alle istituzioni, alle organizzazioni della società civile e ai sindacati di riconoscere le situazioni di sfruttamento e intervenire tempestivamente per la loro risoluzione.

Il paper fa il punto sullo stato dell’arte delle pratiche di trasparenza di filiera, fino a cinque anni fa completamente impensabili e oggi praticate, in vari modi, da molte aziende tessili. Propone inoltre alcune riforme legislative a partire dall’Unione europea, e, confidando nel suo potere trainante nei confronti del resto del mondo, sugli aspetti di divulgazione non finanziaria, due diligence sui diritti umani e legislazioni sugli appalti pubblici.

In attesa dell’approvazione di queste riforme, tuttavia, il cambiamento può e deve essere stimolato dagli attori nazionali, in primo luogo dal decisore pubblico. Il paper propone l’introduzione in Italia di condizionalità premianti, nei rapporti fra Stato e aziende, che promuovano l’adozione di pratiche sostenibili e un atteggiamento di responsabilità proattiva delle aziende tessili verso le condizioni di lavoro delle filiere. 

Le aziende tessili stesse potrebbero per prime impegnarsi pubblicamente per la trasparenza di filiera, rendendola anche un elemento di incremento di valore del settore moda italiano. Le dichiarazioni non finanziarie delle grandi imprese dovrebbero informare in modo puntuale sui rischi di violazione dei diritti umani e sulle misure di gestione adottate, come specificato dalla stessa Consob nel suo Richiamo di attenzione del 28 febbraio 2019.

In particolare, la Campagna chiede che le aziende pubblichino, come buona pratica in attesa di una legislazione puntuale, informazioni qualitative accurate e aggiornate sui propri fornitori lungo tutta la filiera di produzione. Non solo dunque informazioni minime quali l’indirizzo del fornitore e il numero di dipendenti (già richieste dal Transparency Pledge, al quale in Italia ad oggi ha aderito completamente solo Benetton, seguita da OVS e Salewa con una adesione invece parziale), ma anche dati che permettano di verificare le condizioni di lavoro che questi fornitori offrono a chi produce gli abiti che vengono venduti in tutto il mondo: presenza di organizzazioni sindacali, politiche di genere, presenza di forza lavoro migrante, trattamenti salariali erogati (quest’ultimo punto, dimostrabile mediante scorporo della componente del costo del lavoro dal prezzo pagato al fornitore). 

Se la trasparenza di filiera fosse una prassi, come consumatori potremmo ad esempio sapere se il cotone di un abito proviene dalla regione autonoma cinese dello Xuar, dove il genocidio della minoranza degli Uiguri, nell’indifferenza mondiale, si sta da tempo intrecciando con lo sfruttamento del lavoro forzato nella produzione tessile, e scegliere di non comprarlo.

Il documento è stato presentato in anteprima ad alcune aziende e altre organizzazioni (Benetton, Salewa, OVS, Gucci, Loro Piana, Armani, Diadora, Banca Etica, Proserpina, Confartigianato Veneto, Fair Wear Foundation, Femca Cisl Nazionale, Filcams CGIL, Movimento Consumatori – ente membro della Campagna Abiti Puliti, Human Rights International Corner, Altis Università Cattolica, Associazione Tessile e Salute, Centro Nuovo Modello di Sviluppo) e a membri delle istituzioni (l’On. Gianni Pietro Girotto, presidente della X Commissione Industria, Commercio e Turismo del Senato, e la Dottoressa Tatiana Esposito, Dirigente Generale Politiche dell’Immigrazione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e una rappresentante del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani) durante una Tavola Rotonda, svolta online, lo scorso 9 novembre, dal titolo “Trasparenza nella Moda 2020: stato dell’arte e nuove pratiche per condotte d’impresa responsabili”, moderata dal direttore di Fondazione Finanza Etica (ente membro della Campagna Abiti Puliti) Simone Siliani. 

Abbiamo apprezzato la volontà di questi marchi di confrontarsi con le organizzazioni e i sindacati su un tema così delicato. Lo consideriamo sicuramente un passo avanti nel dialogo sociale. Ma purtroppo non basta: spesso i sistemi di tracciamento delle filiere sono farraginosi e complicati, i sistemi di certificazione poco trasparenti e non indipendenti. C’è bisogno di un impegno sincero e attivo delle aziende per rendere le catene di fornitura trasparenti e disponibili all’indispensabile scrutinio pubblico” ha dichiarato Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti.

La Commissione europea ha avviato un processo di consultazione finalizzato a formulare, nel corso del 2021, una proposta di direttiva che obbligherà ogni azienda europea ad effettuare verifiche sul rispetto dei diritti umani e del lavoro da parte dei propri fornitori sulle filiere globali. Questa iniziativa legislativa ha un potenziale senza precedenti per modificare i meccanismi di filiera, ma affinché sia davvero efficace e possa avere un impatto concreto sulla responsabilità sociale d’impresa, è necessario che sia all’altezza delle sue ambizioni. La Campagna Abiti Puliti insiste sulla necessità che la direttiva sulla mandatory human rights due diligence contenga anche obblighi di trasparenza e rendicontazione sulla due diligence effettuata, che le informazioni richieste siano anche qualitative e che il processo di due diligence sia continuativo e costante, non limitato al momento dell’acquisizione di un nuovo fornitore.  

La trasparenza è una precondizione anche in campo finanziario affinché i risparmiatori possano compiere scelte consapevoli su dove orientare i propri risparmi. Investitori responsabili sono prima di tutto investitori informati: la trasparenza diviene dunque un vantaggio competitivo per le aziende stesse. La performance di un’azienda è sempre più misurata dagli azionisti e talvolta anche dai mercati non solo attraverso i dati finanziari, ma anche attraverso quelli sociali e ambientali. Le cose cambiano, lentamente ma inesorabilmente; e non basterà un po’ di ethical o green washing a distrarre il cambiamento” ha infine dichiarato Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica.

Siamo convinti che le aziende che hanno deciso di intraprendere un confronto costruttivo con le richieste della Campagna Abiti Puliti abbiano capito che il futuro delle scelte di consumo dipenderà anche dalle azioni concrete che sapranno mettere in campo. Per questo il nostro lavoro di monitoraggio, di cui la piattaforma Fashion Checker è soltanto l’ultima tappa in ordine cronologico, continuerà senza sosta. La pandemia globale di Covid19 impone in ogni caso un ripensamento dei meccanismi globali di produzione di valore: le aziende che operano nella moda possono essere motori di questo cambiamento.