Le fasi di lavorazione dei jeans sono particolarmente dure e nocive: alla FFI/JKPL i jeans non vengono solo tagliati e cuciti, ma anche stinti col lavaggio, o macchiati, spazzolati, e adeguatamente “danneggiati” per conferirgli l’aspetto vissuto molto in voga. I ritmi produttivi sono elevati e mantenuti con sistematica violenza, al punto che negli ultimi tempi almeno cento persone, nel solo reparto lavaggio, lasciano volontariamente il lavoro ogni mese, incapaci di subire oltre percosse e maltrattamenti. La perdita della dignità, avvertita come una condizione intollerabile, ha spinto i lavoratori a venire allo scoperto e a cercare aiuto presso il sindacato e le organizzazioni di base.
Alla FFI/JKPL il personale è ingaggiato senza lettera di assunzione, gli straordinari non vengono pagati, chi non tiene il passo con i ritmi produttivi sempre crescenti viene licenziato in tronco, le norme di sicurezza non sono rispettate. Ma soprattutto ai lavoratori è vietato organizzarsi per difendere i propri diritti e raccontare all’esterno ciò che avviene nella fabbrica.

Il tentativo del Sindacato dei lavoratori del tessile-abbigliamento (Garment and textile workers’ union, GATWU) di incontrare la direzione della FFI/JKPL va a vuoto e spinge le organizzazione di base a costituire un Comitato di inchiesta (Fact-finding team) con lo scopo di accertare la veridicità delle denunce fatte dai lavoratori e dare forza alle loro richieste. Un rapporto sulle violazioni rilevate, steso dal Comitato fra l’aprile e l’agosto 2006, viene inviato alla direzione della FFI/JKPL e alle imprese committenti, alcune delle quali fanno svolgere delle ispezioni da auditor esterni (senza per altro coinvolgere le organizzazioni locali), che confermano nella sostanza gli abusi denunciati comprese le molestie fisiche e verbali. Solo a questo punto, e dopo aver ricevuto pressioni da parte di alcuni dei principali clienti e della Clean clothes campaign,  la direzione accetta, il 9 giugno e il 3 luglio 2006, di incontrare il GATWU e le organizzazioni di base per discutere dei risultati dell’indagine, senza però voler incontrare i lavoratori e negando le contestazioni. Alla fine di luglio tutte le organizzazione indiane coinvolte nel caso: Garment and textile workers’ union (GATWU), Women garment workers front (Munnade), Civil initiatives for development and peace (CIVIDEP), New trade union initiative (NTUI) e la Clean clothes campaign Task force in India sono raggiunte da un’ingiunzione del tribunale civile di Bangalore, emessa su richiesta della direzione della FFI/JKPL,  che vieta la diffusione di informazioni sulle condizioni di lavoro all’interno della fabbrica con l’accusa di diffamazione e danno di immagine. Il bavaglio imposto dal giudice, che non è stato ancora revocato malgrado si siano già svolte un paio di udienze a dicembre, ha di fatto interrotto il canale di comunicazione esistente fra la campagna internazionale e le organizzazioni sindacali e non governative locali, alle quali non è più possibile fornire notizie sugli sviluppi del caso. Le iniziative pubbliche precedenti al blackout hanno avuto almeno il risultato, secondo quanto accertato dal Comitato di inchiesta, di far cessare i maltrattamenti e il furto degli straordinari, benché ancora tutto o quasi  resti da fare.

A fine novembre 2006 la Clean clothes campaign ha inoltrato un reclamo al Social accountability international (SAI), l’organismo di certificazione che presiede al sistema SA8000 sul rispetto dei diritti dei lavoratori, dopo aver scoperto che quattro dei cinque stabilimenti della FFI/JKPL hanno ricevuto la certificazione SA8000 mentre l’ultimo sta completando l’iter. La contestazione mossa dalla CCC si basa sul fatto che le consultazioni con il sindacato locale con le quali SAI afferma di voler  concludere la fase istruttoria sono seriamente compromesse dal provvedimento restrittivo della libertà di informazione emesso dal tribunale, che costituisce un grave impedimento all’instaurarsi di un dialogo costruttivo fra le parti dal quale possa scaturire un piano correttivo efficace.

L’11 gennaio scorso il segretariato europeo della Clean clothes campaign e L’India committee of the Netherlands hanno ricevuto dalla FFI/JKPL, attraverso uno studio legale di Bangalore, l’intimazione a cancellare dal sito tutto il materiale pubblicato sul caso sotto la minaccia di una causa legale per diffamazione. La lettera, che non ha alcun valore legale, sta solo a indicare la determinazione della FFI/JKPL di non confrontarsi con le controparti locali per trovare una soluzione ai problemi denunciati dai propri dipendenti, che per altro non hanno mai voluto incontrare. La CCC e l’ICN hanno risposto proponendo una trattativa mediata da una terza parte e l’avvio di un processo correttivo in collaborazione con il GATWU e le organizzazioni locali.

Le richieste alle imprese committenti
–    Ritiro da parte di FFI/JPKL della denuncia all’origine del provvedimento restrittivo della libertà di informazione emesso dal tribunale di Bangalore nei confronti delle organizzazioni di base locali.
–    Impegno di FFI/JPKL a riprendere il dialogo interrotto con GATWU, NTUI e Women garment workers front “Munnade” in rappresentanze delle organizzazioni di base.
–    Sviluppo e attuazione da parte di FFI/JPKL di un piano di interventi correttivi in collaborazione con GATWU e gli altri partner locali sulla base delle richieste già presentate alla società e alle imprese committenti.
–    Coinvolgimento degli stakeholder locali nelle ispezioni effettuate da terzi e in ogni altra iniziativa avente per obiettivo la risoluzione dei problemi rilevati.
–    Miglioramento delle procedure attraverso le quali sia possibile ai lavoratori segnalare anonimamente situazioni di non rispetto delle normative appoggiandosi a organizzazioni che godano della loro fiducia.
–    Predisposizione di misure idonee affinché ai lavoratori sia consentito esercitare il loro diritto alla libertà di associazione e alla contrattazione collettiva.

La risposta delle imprese committenti
–    G-Star: è il principale cliente di FFI/JPKL. L’azienda non ha mostrato disponibilità al dialogo né a intraprendere iniziative concrete nei confronti di FFI/JPKL. Gli incontri fra la CCC olandese, l’ICN, e l’azienda non hanno avuto esiti concreti, per questo motivo la CCC e l’ICN hanno presentato un ricorso al Punto di contatto nazionale dell’OCSE in Olanda  per violazione delle linee guida dell’OCSE sulle imprese multinazionali. Il ricorso è stato accettato il 6 dicembre 2006.

–    Mexx:  ha dichiarato di volersi impegnare per arrivare a una trattativa con le varie parti in causa finalizzata a definire misure correttive, e a questo fine riconosce la necessità della revoca del provvedimento restrittivo emesso dal tribunale di Bangalore. Nel contempo ha deciso di aderire alla Fair wear foundation (iniziativa multistakeholder promossa dalla Clean clothes campaign olandese).

–    Ann Taylor: si è mantenuta fin dall’inizio in comunicazione con FFI/JKPL per ricercare soluzioni correttive. Ha fatto svolgere due ispezioni da due diversi enti di certificazione, con interviste ai lavoratori, ma non ha ascoltato le organizzazioni locali. Ritiene che vi siano stati in seguito dei tangibili miglioramenti alla FFI/JKPL, giudizio che sarebbe condiviso dai lavoratori che sono stati intervistati. Non ha però preteso il ritiro preventivo del provvedimento restrittivo del tribunale e non ha reso pubblici i risultati delle ispezioni e le decisioni concordate, rendendo di fatto impossibile valutare la qualità del suo intervento.

–    Gap: ha collocato nuovi ordini alla FFI quando il provvedimento del tribunale era già in vigore e con la campagna di pressione pubblica in atto. Ha poi corretto il tiro, su richiesta della CCC, invitando la direzione della FFI a ritirare la denuncia che ha costretto le organizzazioni locali al silenzio, ma senza ottenere risultati.

–    Tommy Hilfiger: non è più committente di FFI/JKPL ma lo era al tempo in cui sono stati rilevati gli abusi. Ha scritto a FFI/JKPL contestando il ricorso alle vie legali e dichiarando di non essere disponibile a eventuali future collaborazioni in assenza di soluzioni concrete alle questioni sollevate dalla CCC.

–    Guess: dichiara di aver effettuato un ordine di prova e di non essere un cliente abituale di FFI/JKPL. Non ha dato seguito all’impegno di informare la CCC sui propri orientamenti in merito alle richieste avanzate.

L’azienda italiana RARE non ha dato alcuna risposta alle lettere inviate dalla Clean clothes campaign; ARMANI ha inviato una lettera ufficiale in seguito alla pubblicazione del caso su CARTA.