Amazon paghi subito tutte le lavoratrici e i lavoratori

Mentre Amazon si riunisce per l’Assemblea annuale degli azionisti, le lavoratrici e i lavoratori della sua catena di fornitura protestano per le condizioni in cui sono costretti a vivere e a lavorare.

Ad oggi Amazon è il principale distributore di moda negli Stati Uniti e i suoi marchi si riforniscono attraverso una vasta rete di circa 1.400 fabbriche in tutto il mondo. Nonostante i profitti record accumulati durante la pandemia, come denunciato in un recente rapporto del Worker Rights Consortium, l’azienda si rifiuta di garantire che le lavoratrici e i lavoratori licenziati in questi mesi ricevano l'indennità che gli spetta.

Così come i magazzinieri e gli addetti alle consegne, le persone delle fabbriche più remote del sistema globale di sfruttamento di Amazon esigono quanto loro dovuto.

Le organizzazioni della campagna PayYourWorkers, insieme alla coalizione Make Amazon Pay, di cui fanno parte anche il sindacato globale UNI e il movimento Internazionale Progressista, hanno promosso per oggi una giornata di azione globale in loro sostegno: la richiesta per Amazon è di pagare subito tutte le lavoratrici e i lavoratori della sua catena di fornitura.

Tra questi, ad esempio, i lavoratori tessili sindacalizzati in Bangladesh della fabbrica Global Garments, fornitore del colosso americano. Ad ottobre ha chiuso i battenti lasciando a casa 1.200 persone senza retribuzione o indennità di licenziamento. “La chiusura della fabbrica ci ha portato via i mezzi per sopravvivere” racconta Rintu Barua, addetto al controllo qualità per oltre 20 anni. “Negli ultimi 6 mesi ho provato a cercare lavoro in molte fabbriche. Ma siccome sono stato anche un leader sindacale alla Global Garments, nessuno mi vuole assumere”.

Oppure le lavoratrici e lavoratori in Cambogia della Hulu Garment, una fabbrica chiusa temporaneamente nel marzo 2020 lasciando a casa 1.020 persone. Al termine del periodo di sospensione, i lavoratori sono stati richiamati per sottoscrivere con l’impronta digitale un documento che avrebbe dovuto garantire loro il salario finale. In realtà conteneva una clausola nascosta con cui di fatto si dimettevano volontariamente. La Hulu Garment ha così trattenuto 3,6 milioni di dollari di indennità di licenziamento spettante a quei lavoratori.

Nel frattempo, mentre i lavoratori lottano per i propri salari non pagati, contro le attività antisindacali e le cattive condizioni di lavoro, nel 2020 grazie alla pandemia, i profitti netti di Amazon sono aumentati dell'84%, con un patrimonio netto di 314,9 miliardi di dollari.

La coalizione MakeAmazonPay ha programmato oltre 50 iniziative presso i siti Amazon in 10 paesi di 5 continenti: UK, Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo, Olanda, Bangladesh, Svizzera, Australia e Stati Uniti.

"Amazon deve pagare tutti i suoi lavoratori e lavoratrici, ovunque risiedano e qualunque sia la loro mansione. È una questione di giustizia sociale che guarda a un nuovo modello di sviluppo che metta finalmente al centro la salute e il benessere delle persone che lavorano e non i profitti e la ricchezza di pochi” dichiara Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti.

La campagna #PayYourWorkers, che riunisce 200 sindacati e organizzazioni della società civile di 35 diversi Paesi, chiede ai marchi di fornire immediato sollievo ai lavoratori dell'abbigliamento e di sottoscrivere impegni vincolanti per riformare il loro settore in rovina.

Tra i 200 aderenti troviamo Filcams-CGIL, che rappresenta i lavoratori del Commercio, Turismo e Servizi e le organizzazioni FAIR, Altraqualità, Fondazione Finanza Etica, Guardavanti onlus, Movimento Consumatori, Attac Italia, Coordinamento Nord Sud del mondo, Dress the change, Equo Garantito, Fairwatch, FOCSIV, IFE Italia, Lungotavolo45, Manitese, Spin Italy.


Quel giorno in cui i diritti iniziarono a fare tendenza

La direzione della fabbrica licenzia un gruppo di lavoratrici: proprio quelle che, poco tempo prima, avevano cercato di riunirsi e formare un sindacato.  I supervisori insultano le donne che lavorano in fabbrica, a voce alta e umiliandole, talvolta prendendole a schiaffi, e negano loro il permesso di usare il bagno. 

La fabbrica chiude senza preavviso, e chi ci lavorava rimane da un giorno all’altro senza stipendio e senza TFR. 

Crolla un muro in una fabbrica, le lavoratrici rimangono ferite: alcune si assentano per malattia e vengono licenziate, alle altre viene imposto di tacere del tutto l’incidente, se vogliono mantenere il posto di lavoro.  

Questi sono alcuni dei casi urgenti che la Clean Clothes Campaign ha assistito nel corso solamente dell’ultimo anno. Ma accadono tutti gli anni. Sebbene le aziende tessili vestono le proprie operazioni di parole quali “sostenibilità” e “responsabilità sociale”, quello che c’è sotto quei vestiti è tutt’altro che responsabile: è una sistematica ricerca del minor costo e del massimo profitto, che non si cancella con una campagna green.

La pandemia di Covid-19 ha aggravato le condizioni di sfruttamento sistematico delle filiere di produzione tessile ai cui vertici stanno i brand committenti: come hanno dimostrato diversi rapporti, i marchi e i distributori (inclusi i rivenditori online) hanno cancellato o ritardato il pagamento di ordini per miliardi di euro, giocando con i prezzi in modo tale da indebolire sia il potere contrattuale sia la capacità produttiva dei propri fornitori. La conseguenza di questo comportamento predatorio è stata che milioni di lavoratori e lavoratrici tessili si sono trovati da un giorno all’altro in mezzo alla strada, senza poter contare su alcun risparmio. La CCC propone soluzioni precise e puntuali per superare questa drammatica situazione, ma questo articolo si occupa di considerazioni di ordine generale. 

Filiere tessili globali e diritti umani

Le violazioni dei diritti umani sono prevalenti nelle catene di fornitura di abbigliamento - è il modello di business stesso che si basa sullo sfruttamento, sull'abuso, e  sulla discriminazione di genere (si stima che l'85% dei lavoratori dell'industria dell'abbigliamento siano donne). Prendere in considerazione l’elemento di genere è particolarmente importante perché è una componente strutturale, onnipresente, dello sfruttamento della forza lavoro nelle filiere tessili. Le donne sono pagate meno, hanno meno sicurezza nell'impiego (per esempio a molte viene negata la maternità: o lavori, o fai figli: se lavori ti paghiamo poco, ma se fai figli non ti paghiamo proprio) e affrontano regolarmente violenza fisica (dagli schiaffi alle molestie) e verbale (dagli insulti alle intimazioni urlate di lavorare mente i muri della fabbrica si crepano e sale la paura di morire).

In risposta alle pratiche di acquisto dei marchi, e cioè l’invio di ordini di produzione costanti (i  brand fanno produrre nuove collezioni ogni settimana), le fabbriche scaricano i costi e i rischi sui lavoratori e sulle lavoratrici, imponendo loro turni straordinari (non sempre pagati) e subappaltando alcune produzioni a lavoratori e lavoratrici a domicilio, pagandoli la metà o un terzo del salario minimo legale; trascurando la sicurezza delle proprie fabbriche; impedendo ai  lavoratori e alle lavoratrici di organizzarsi in sindacato. 

I salari di povertà non permettono a chi lavora nel tessile di vivere una vita dignitosa, di pianificarla, di far studiare i propri figli e figlie, di mangiare e far mangiare la propria famiglia ogni giorno e  in modo salutare. I proprietari delle fabbriche dicono di non avere altra scelta che mantenere salari bassi a causa dei prezzi bassi pagati dai clienti, o di rispettare, negli stati in cui è presente, il salario minimo legale.

Ma i salari sono bassi, e appunto in alcuni paesi “legali”, proprio perché i governi dei paesi di produzione li hanno mantenuti bassi nel tentativo di creare o proteggere l’esistenza stessa del lavoro.

Nei paesi di produzione, la libertà di associazione e l'effettivo riconoscimento del diritto alla contrattazione collettiva, cruciali per migliorare strutturalmente le condizioni di lavoro, ottenere diritti, e riequilibrare la disuguaglianza di potere basata sul genere, sono ostacolati dai produttori tessili con la complicità dei governi (anche perché spesso i conflitti di interesse sono rampanti: nel 2013, in Bangladesh, il 10% dei parlamentari era proprietario fabbriche tessili e almeno il 50% del totale dei membri del parlamento aveva connessioni e interessi economici nel settore della produzione tessile). Le norme sociali che limitano la voce e la partecipazione delle donne nella società mettono ulteriormente a dura prova la rivendicazione di questi diritti.

I lavoratori e le lavoratrici che cercano un rimedio per le violazioni dei diritti umani devono affrontare diverse difficoltà: risorse finanziarie insufficienti, mancanza di informazioni e barriere linguistiche, incertezze legate alla giurisdizione in cui far valere i propri diritti (se da un lato quella del paese di produzione, dove sono avvenute le violazioni, non offre norme certe e garantiste su cui contare, dall’altro quella del paese sede della società committente, che in ultima analisi ha la responsabilità di averle causate, è lontana e costosa), raccolta e documentazione delle prove. L'accesso al rimedio, anche nei paesi di committenza, è sempre più inteso in un senso procedurale piuttosto che in termini di risultati concreti, e cioè misure risarcitorie che non siano irrisorie per le vittime di violazioni, e  tendono a sfociare in rimedi inadeguati o nessun rimedio. 

Poiché le pratiche aziendali volontarie non hanno portato miglioramenti concreti alle condizioni di vita e lavoro delle catene del valore (del valore per chi?), la CCC appoggia l’iniziativa di riforma della corporate governance intrapresa dalla Commissione europea e che porterà all’approvazione di una direttiva sulla human rights and environmental due diligence, e cioè che introdurrà obblighi per le aziende committenti, al vertice delle catene di fornitura, di verifica del rispetto di condizioni dei diritti umani e del lavoro da parte dei propri fornitori lungo la filiera, non solo di primo livello, e di inclusione di considerazioni sull’impatto ambientale delle proprie operazioni. 

Questa direttiva può risolversi in un esercizio di stile, oppure può portare miglioramenti concreti.

Abbiamo espresso le nostre principali considerazioni e gli elementi che per noi sono irrinunciabili nel position paper Fashioning justice, che riassumiamo di seguito, affinché tale legislazione raggiunga l’obiettivo che si pone, e cioè la prevenzione delle violazioni e la tutela delle persone e dell’ambiente, con specifico riferimento a ciò su cui abbiamo sviluppato la nostra expertise di campagna e cioè i diritti umani e del lavoro. 

Approccio generale

Data la portata globale del commercio e i modelli di catene globali del valore, vogliamo sottolineare che, oltre che nell'Unione europea, a 10 anni dall’approvazione dei Principi Guida delle Nazioni Unite su Impresa e Diritti Umani (che raccomandano solamente, essendo principi guida, che le imprese conducano due diligence e rispettino i diritti umani), la CCC è nettamente a favore di  un trattato vincolante delle Nazioni Unite che stabilisca una base normativa per il lavoro dignitoso lungo l'intera catena del valore globale e che ponga in capo alle aziende la responsabilità generale di rispettare i diritti umani e del lavoro in tutto il mondo. 

Con riferimento alla direttiva europea, è importante in primo luogo ricordare che, essendo essa una legge-cornice, che gli stati membri dovranno recepire con legge nazionale, gli obblighi che essa conterrà dovranno essere considerati come minimi, e modificabili dagli stati solo in positivo a favore dei soggetti della tutela, e cioè i lavoratori delle filiere e l’ambiente. Una legislazione siffatta dovrebbe contenere obblighi espliciti di conformità (compliance), sia di effettuare due diligence (e di farla con regolarità) sia di pubblicare i dati raccolti mediante tale processo, e deve prevedere sanzioni adeguate in caso di non compliance. La due diligence dovrebbe coprire l’intera catena del valore, compresi i sistemi di lavoro semi-formali e informali, quali i subappalti non ufficiali e il lavoro a domicilio.

Gli elementi irrinunciabili della direttiva sulla human rights due diligence 

Sulla base di oltre tre decenni di sforzi per migliorare le condizioni di lavoro nell'industria globale dell'abbigliamento, abbiamo una miriade di idee su come portare un significativo cambiamento positivo, particolarmente rilevanti per il settore ad alto rischio su cui ci concentriamo. Come organizzazione che si occupa di diritti del lavoro, poniamo un’attenzione particolare alla libertà di associazione, al diritto alla contrattazione collettiva, al diritto a un salario adeguato e al divieto di discriminazione sul lavoro.

Obblighi espliciti

Le imprese devono essere legalmente responsabili della violazione dei diritti umani e degli impatti impatti negativi causati nelle loro catene globali del valore e nelle loro operazioni e relazioni commerciali. L’obbligo di effettuare la human rights due diligence deve essere definito come l’obbligo di identificare, terminare, prevenire, mitigare, monitorare e rendere conto degli impatti negativi potenziali ed effettivi sui diritti umani e ambientali attraverso un processo regolare e costante, svolto in conformità con gli standard internazionali (che in ambito aziendale esistono e vengono applicati da anni, per esempio, con riferimento alla prevenzione della corruzione). Quando vengono riscontrate violazioni, l’impresa  committente dovrebbe cooperare con il fornitore al fine di risolvere la situazione e far cessare gli abusi, e prevenirle in futuro.

In generale, infatti, perché il concetto di responsabilità abbia un vero significato, la legge dovrebbe prevedere che la cessazione delle relazioni commerciali sia usata solo come ultima risorsa: una cessazione improvvisa dei rapporti commerciali creerebbe più danni che benefici ai lavoratori e alla loro comunità. Se al netto degli sforzi per riparare agli abusi il committente è costretto a cessare la fornitura, i marchi e i distributori dovrebbero adottare un piano di eliminazione graduale per garantire che i lavoratori, indipendentemente il loro stato di occupazione formale, ricevano i salari e i benefici a cui hanno diritto.

Ambito di applicazione

Tale legislazione dovrebbe applicarsi a tutte le imprese,, incluse le imprese medio-piccole che operano in settori ad alto rischio (come quello tessile), fondazioni aziendali e le società di revisione e di certificazione. Gli obblighi di due diligence dovrebbero estendersi all’intera filiera, perché più si scende nella catena di produzione e più aumentano gli abusi (in altre parole: il vecchio adagio “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” è purtroppo vero: ma proprio perché è vecchio, va riformato).

Sanzioni effettive

La direttiva dovrebbe garantire l'applicazione della due diligence obbligatoria attraverso una combinazione efficace di misure, quali sanzioni civili e penali adeguate, competenze e risorse ad organismi nazionali designati, la collaborazione tra autorità preposte all'applicazione e riconoscendo ai terzi la legittimazione attiva ad avviare procedimenti.

Estensione e oggetto della due diligence

La direttiva dovrebbe imporre obblighi di pubblicazione e trasparenza della catena del valore e che la divulgazione di informazioni sulla filiera non sia limitata ai fornitori più vicini o agli attori di primo livello, ma si estenda all'intera catena del valore inclusi i lavoratori a domicilio (a meno che ciò non possa mettere in pericolo la loro sicurezza), i lavoratori a contratto, lavoratori occasionali pagati a cottimo, i lavoratori migranti. I marchi sono già consapevoli delle forme di lavoro indecenti che compongono le filiere tessili: è giunto il momento che lo ammettano pubblicamente. 

La legislazione UE dovrebbe riconoscere e affrontare il fatto che le pratiche di acquisto delle imprese hanno un impatto diretto sui diritti umani. Prendere in considerazione le pratiche di acquisto permetterebbe anche la condivisione dei costi legati alla sicurezza degli edifici lungo la catena del valore invece di spingerli verso le fabbriche e i livelli inferiori della catena.  

Gli audit sociali non dovrebbero essere incoraggiati o riconosciuti dalla legislazione come prova di avere effettuato due diligence, poiché essi sono profondamente imperfetti e legati a molti casi di abusi aziendali e di ridefinizione del significato dei diritti umani allo scopo di dimostrare la conformità anche quando questa è palesemente carente.

Obblighi di rendicontazione e trasparenza

Le aziende dovrebbero essere obbligate a offrire formazione ai fornitori sui loro obblighi in materia di diritti umani e a tutti i lavoratori sui loro diritti lavorativi, sul processo di due diligence e sui meccanismi di reclamo messi a loro disposizione. Ciò è fondamentale, perché l’accesso alle informazioni è il primo strumento di difesa di cui possono avvalersi sia i lavoratori e gli attivisti.

Con riferimento a quest’ultimo punto, infatti, è necessario che le informazioni raccolte durante il processo di due diligence siano rese pubbliche dalle aziende in totale trasparenza, sia per garantire l’accesso alle informazioni, sia per garantire il controllo sociale delle filiere, riparare gli abusi in corso e prevenirne di ulteriori. Alcune aziende pubblicano già le informazioni in modo volontario: con la conclusione che ciò è effettivamente praticabile, ma se fatto in modo volontario non è sufficiente e si risolve in un esercizio di stile, non permettendo di utilizzare tali informazioni. 

Accesso alla giustizia e diritto di difesa e tutela delle vittime di abusi

L'accesso alla giustizia nell'UE per i titolari di diritti che si trovano in paesi terzi dovrebbe essere facilitato attraverso l'estensione dei termini di prescrizione e attraverso l'applicazione del principio giurisprudenziale della parità di accesso alla giustizia, obbligando le imprese a rivelare tutte le prove in loro possesso relative alla presunta violazione. Le responsabilità devono essere sia civili che penali, e l'una non deve escludere l'altra. 

Le forme chiave di rimedio in sede civile includono: risarcimento, eliminazione dei rischi per la sicurezza, reintegrazione di sindacalisti/e, copertura della sicurezza sociale, pagamento dei salari arretrati e delle indennità di licenziamento, cessazione degli straordinari forzati e/o non pagati, la concessione di maternità e di malattia e il licenziamento dei supervisori che molestano le lavoratrici.

Con riferimento all'esecuzione penale, il foro competente dovrebbe essere quello dello Stato in cui la società è registrata, ha la sua sede principale di attività, o ha situato la sua sede amministrativa centrale. 

Criteri sociali negli appalti pubblici

Vogliamo che il settore pubblico, e cioè i committenti e le stazioni appaltanti pubblici di qualsiasi livello, siano i primi ad esigere che le proprie forniture non vengano rese creando impatti negativi sulla società che loro stessi amministrano, in altre parole di cui sono chiamati a prendersi cura. 

E’ opportuno creare incentivi positivi per le aziende ad implementare la due diligence sui diritti umani premiando la conformità (e penalizzando la non conformità), in particolare quando le autorità pubbliche contrattano beni e servizi da aziende attraverso gli appalti pubblici. In questo senso, la formazione di piani nazionali di reazione alla crisi economica causata dalla pandemia di coronavirus (quello che in Italia è il PNRR) è un’occasione che non dovrebbe cadere nel vuoto. 

Come cambierebbero le condizioni delle filiere e i comportamenti aziendali 

La Commissione europea dovrebbe pubblicare una bozza di direttiva nel mese di giugno. Ci auguriamo che essa sia all’altezza delle sue ambizioni. Se così fosse sarebbe davvero l’occasione perché i marchi e i distributori tessili smettano di prendere a pretesto la mancanza di regolamentazione o la mancanza di applicazione delle leggi e dei regolamenti sul lavoro nei paesi fornitori come scusa per le violazioni dei diritti umani nelle loro catene di valore. Non potrebbero più minacciare di spostare la loro produzione in altri paesi se i governi o i sindacati segnalano l'intenzione di aumentare i salari minimi o rafforzare la tutela dei diritti del lavoro. 

I marchi e i distributori potrebbero, invece, colmare le lacune nella protezione dei diritti umani esistenti negli stati di produzione concludendo accordi vincolanti di filiera, applicabili all’intera catena del valore su questioni fondamentali come i salari, la violenza di genere, la libertà di associazione, salute e sicurezza, e che affidano ad organizzazioni indipendenti la verifica del rispetto degli accordi e la gestione di reclami e rimedi. Questi accordi sono particolarmente importanti ed efficaci perché non va dimenticato che solo gli sforzi collettivi, anche da parte degli stessi marchi, possono cambiare davvero le cose. Se un fornitore ha più clienti, sono tutti quei clienti che, insieme, devono chiedergli, e dunque devono permettergli, di cambiare le sue pratiche

I processi di human rights due diligence sarebbero incorporati in ogni decisione aziendale, come un dovere continuo in capo a tutti dipartimenti rilevanti, soprattutto gli acquisti. I dipartimenti devono essere dotati di sufficienti risorse umane e finanziarie, e del potere esecutivo per garantire che le pratiche di acquisto siano coerenti con il piano di due diligence e con un trattamento dignitoso dei propri fornitori e dei lavoratori e delle lavoratrici delle proprie filiere.

Conclusioni

Non basta certamente una legge dell’Unione europea a cambiare il mondo. Ma innanzitutto è un passo importante, perché la forza del mercato dell’UE potrebbe avere un effetto domino positivo su altre giurisdizioni e altri mercati. 

E’ giunto il momento che il legislatore, dovunque esso sia, si renda conto che per troppo tempo ha permesso agli attori economici di approfittare dell’assenza di obblighi, dei vuoti di tutela e delle mancanze del settore pubblico per privatizzare i profitti ed esternalizzare le perdite e i costi sociali. E’ giunto il momento di pretendere, da parte delle aziende, l’assunzione di responsabilità degli impatti sulle proprie filiere, ed invocare, non proclamare, un effettivo invito all’azione. La pandemia di coronavirus ha reso palese quanto siamo interdipendenti gli uni dagli altri, come individui, come attori economici, come stati sovrani. Rendiamo questa interdipendenza un valore e non una malattia. La direttiva sulla human rights and environmental due diligence ha questo potenzial

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Il position paper integrale della CCC sulla human rights due diligence, Fashioning justice, è disponibile qui.


OVS si impegna a lasciare la regione uigura. Ora gli altri marchi italiani facciano altrettanto

Grazie all’intensa campagna di pressione End Uyghur Forced Labour, lanciata nel luglio del 2020 e condotta da oltre 300 organizzazioni nel mondo tra cui la Campagna Abiti Puliti, OVS, noto marchio italiano della moda internazionale, ha finalmente sottoscritto l’impegno pubblico a dismettere gli approvvigionamenti dallo Xinjang e uscire dalla regione uigura.

OVS ci ha comunicato di non avere fornitori in quella zona, considerando che il cotone da loro utilizzato, prevalentemente organico, proviene da altri paesi o dalla Better Cotton Initiative, che ha sospeso da tempo tutte le licenze ai coltivatori dello Xinjiang.

È un passo significativo per i diritti del popolo uiguro: da 1 a 3 milioni di persone internate dal governo cinese in campi di lavoro forzato in cui si stima venga prodotto circa un quinto del cotone utilizzato dai marchi della moda su scala mondiale. Indottrinamento, rieducazione, torture, violenze, sterilizzazione forzata e vera e propria schiavitù sono alcune delle pratiche utilizzate per opprimere la popolazione uigura e sfruttarla illecitamente come forza lavoro gratuita alla raccolta del cotone e alla produzione di abbigliamento di cui si avvalgono i marchi internazionali.

Da mesi ormai le organizzazioni di difesa dei diritti umani chiedono alle aziende di assumersi pubblicamente l’impegno di disinvestire dalla regione autonoma uigura dello Xinjiang. Diversi governi del G7 (fra cui il Canada e gli Stati Uniti) hanno condannato la politica cinese nella regione e anche il Pontefice ha espresso preoccupazione. Per la prima volta in 30 anni, il 22 marzo anche l’Unione europea ha imposto sanzioni economiche su alcuni ufficiali cinesi a causa del trattamento inumano riservato agli Uiguri. Se il mondo della politica ha fatto dei timidi passi avanti, quello dell’economia non vuole sentire ragioni: sono ancora pochi i marchi che hanno preso le distanze dalla Regione e, dal momento che la situazione degli Uiguri è ormai nota da anni, ignorarla volutamente è diventato inaccettabile. Per salvare la popolazione uigura servono condotte di impresa coerenti basate sui fatti, con posizioni nette contrarie al lavoro forzato. Marchi come Zara, Nike e Apple possono e devono agire concretamente privilegiando la vita e la dignità degli uiguri rispetto al mantenimento di produzioni provenienti da filiere alimentate da lavoro forzato. Le imprese non devono soccombere alle pressioni degli internauti cinesi che in queste ore hanno scatenato una bufera contro i marchi che avevano dichiarato il disimpegno commerciale dalla regione dello Xinjang, minacciando di boicottarli. Sul lavoro forzato non posso esserci compromessi e le imprese sono oggi chiamate a scegliere da che parte stare: i diritti umani o gli interessi commerciali.

L’84% del cotone prodotto in Cina viene dalla regione uigura, il 20% della produzione mondiale: un abito in cotone su 5 è prodotto con l’uso di lavoro forzato. Chiediamo a marchi e distributori tessili di abbandonare definitivamente la regione uigura ad ogni livello della loro catena di fornitura, dall’approvvigionamento del cotone all’importazione di prodotti finiti, ponendo fine ai rapporti con i fornitori che supportano il sistema del lavoro forzato. E’ innegabile che le imprese multinazionali abbiano un potere enorme. Ebbene, esse hanno anche la responsabilità di adottare qualsiasi misura possibile per adempiere agli obblighi di responsabilità aziendale e di rispetto dei diritti umani così come stabilito dai Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani.

Ci auguriamo che l’adesione di OVS all’impegno per lasciare la regione uigura convinca gli altri marchi che ancora non hanno fatto passi pubblici concreti a fare altrettanto. Questo primo importante risultato rinvigorisce lo sforzo della coalizione internazionale e ci motiva a continuare la pressione: il lavoro forzato è una condizione che fa orrore e che nessuno (consumatori, produttori, politici) può accettare né fingere di non vedere” ha dichiarato Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti.

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Rana Plaza 8 anni dopo: a rischio l'Accord

Il 24 aprile di otto anni fa crollava l'edificio Rana Plaza con migliaia di persone all'interno, di cui almeno 1.134 morirono. Poiché c’è il lockdown anche in Bangladesh, abbiamo realizzato una piattaforma di commemorazione online. Su questa piattaforma sarà anche possibile chiedere direttamente e pubblicamente ai marchi di mettere il paese nelle condizioni di continuare a prevenire futuri disastri: il programma che ha reso le fabbriche più sicure dopo il crollo del Rana Plaza rischia di essere vanificato nelle prossime 6 settimane e dunque è vitale agire ora.

 
Il crollo del Rana Plaza è il peggior disastro industriale che il settore dell'abbigliamento abbia mai visto, e si poteva tranquillamente evitare. I lavoratori e le lavoratrici sono stati costretti a entrare in un edificio che sapevano non essere sicuro sotto la minaccia di perdere il loro salario. Questa settimana il nostro pensiero va a tutti coloro che hanno dovuto vivere o sono morti in questa tragedia. Per permettere di commemorare significativamente questo giorno e le persone che ne sono state colpite, anche durante un lockdown, in Bangladesh e a livello internazionale, abbiamo lanciato insieme ai sindacati del Bangladesh il sito web RanaPlazaNeverAgain.org in inglese e Bengalese. Qui ognuno può lasciare un messaggio di commemorazione.

La piattaforma commemorativa permette anche di inviare messaggi direttamente ai marchi che producono in Bangladesh e che stanno per far saltare il “Bangladesh Accord”, un programma che è stato certamente efficace nel rendere le fabbriche più sicure per oltre 2 milioni di lavoratori e lavoratrici nel corso degli ultimi otto anni. L'Accord, che favorisce la sicurezza degli edifici in Bangladesh e misure antincendio, è stato ideato settimane dopo il crollo come un programma di sicurezza vincolante, sulla base della constatazione che i programmi volontari non erano riusciti a prevenire questa tragedia. Il Bangladesh Accord è stato firmato da oltre 200 marchi e ha reso più sicure oltre 1.600 fabbriche in tutto il paese. La natura vincolante dell’Accordo, cruciale per il suo successo, scadrà il 31 maggio. Nessun marchio o distributore attualmente membro dell'Accordo si è impegnato a firmare un nuovo programma altrettanto legalmente vincolante. Al contrario, i marchi stanno proponendo versioni del programma annacquate e indebolite, e ciò rende estremamente probabile che la sicurezza sul posto di lavoro in Bangladesh torni ai livelli precedenti al crollo del Rana Plaza.

Kalpona Akter, presidente della Bangladesh Garment and Industrial Workers Federation ha dichiarato: "Rana Plaza non è stato un incidente: è stato un omicidio. Questo disastro era del tutto evitabile e non sarebbe accaduto se ci fossero state misure di sicurezza adeguate, un monitoraggio efficiente delle condizioni di lavoro e l’ascolto dei lavoratori stessi. Il Bangladesh Accord ha introdotto e implementato tali misure di sicurezza negli ultimi otto anni. Se vogliamo prevenire un altro Rana Plaza e promuovere cambiamenti positivi, allora abbiamo bisogno di un nuovo accordo che sia firmato da tutti i marchi che producono in Bangladesh".

Abbiamo contattato Benetton, OVS e Artsana, i marchi italiani firmatari del Bangladesh Accord in scadenza, per chiedere di rinnovare l’impegno per garantire la sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori nelle fabbriche dei loro fornitori, in Bangladesh e negli altri paesi a rischio” dichiara Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti, coalizione italiana della Clean Clothes Campaign. “Ci aspettiamo che le imprese italiane non facciano marcia indietro e anzi si adoperino per garantire continuità al programma e proteggere i fondamentali progressi sulla sicurezza raggiunti in questi anni per almeno 2 milioni di lavoratrici e lavoratori. Senza un nuovo accordo vincolante il rischio di tornare alle condizioni che hanno causato il crollo del Rana Plaza è davvero alto” conclude Lucchetti.

I sindacati e le organizzazioni per i diritti dei lavoratori in Bangladesh e a livello globale pretendono un accordo internazionale vincolante sulla sicurezza nelle fabbriche. Solo un accordo siffatto può assicurare che il lavoro in corso in Bangladesh non vada perso e continui anzi ad impegnare i brand, anche con responsabilità legali da far valere in tribunale.

Un rinnovato accordo internazionale vincolante sulla sicurezza in Bangladesh avrebbe anche l’effetto di condizionare altri paesi con fabbriche di abbigliamento notoriamente insicure, come ad esempio il Pakistan, a fare altrettanto. I recenti incidenti in Marocco e in Egitto dimostrano che nell’industria tessile sono ancora troppe le fabbriche insicure e che i programmi volontari dei marchi non sono in grado di garantire la sicurezza dei lavoratori.

La Campagna Abiti Puliti ha scritto ai sottosegretari dei Ministeri dello Sviluppo Economico (on. Anna Ascani), Affari Esteri e Cooperazione Internazionale (on. Manlio Di Stefano), Lavoro e Politiche Sociali (sen. Rossella Accoto), nonché ai Presidenti delle Commissioni Attività Produttive e Affari Esteri di entrambe le Camere (on. Pietro Fassino, sen. Gianni Girotto, sen. Vito Petrocelli, on. Martina Nardi) oltre che al Punto di Contatto Nazionale dell’OCSE presso il MISE per rendere nota la situazione e chiedere che si uniscano con convinzione alla richiesta della Campagna ai marchi tessili, anche italiani, di rinnovare l’Accordo e non sottrarsi alle loro responsabilità. Analoghe richieste sono state inoltrate dall’ufficio europeo della Clean Clothes Campaign ai rappresentanti istituzionali dell’Unione, inclusi molti italiani.


Le scarpe made in Italy affondano il tacco nel traffico illecito di fanghi inquinanti

La produzione del cuoio made in Italy è uno dei settori di punta del sistema moda: senza il cuoio non si potrebbero fare le scarpe italiane vendute in tutto il mondo (o le cinture, le borse, le giacche…).

La lavorazione del cuoio richiede un processo industriale dall'altissimo impatto ambientale: si utilizza un enorme quantità di acqua che viene poi rilasciata nei depuratori carica di sostanze tossiche. Il distretto della concia di Santa Croce, oltre agli altri prodotti della pelle, fornisce tutto (o quasi) il cuoio per suole prodotto in Italia. Qui ogni anno vengono utilizzati 6 milioni di metri cubi d'acqua per il processo di concia.

Buona parte di queste acque sono gestite dal Consorzio Aquarno, emanazione delle aziende conciarie, oggi al centro di una indagine della DDA di Firenze. Gli investigatori sostengono che il Consorzio pagava politici per evitare l'obbligo di sottoporsi ai controlli ambientali e che i vertici dell'Associazione Conciatori di Santa Croce avrebbero sostenuto da anni un sistema di smaltimento illegale dei residui inquinanti che prevedeva il loro utilizzo come materiale per i cantieri stradali, attraverso imprese gestite da clan della 'ndrangheta.

Nel 2015 il Centro Nuovo Modello di Sviluppo con la Campagna Abiti Puliti ha pubblicato un rapporto sull'industria della concia nel distretto di Santa Croce dal titolo "Una dura storia di cuoio", in cui portavamo alla luce i dati sull'impatto ambientale del settore. In particolare denunciavamo l'opacità delle informazioni fornite dai soggetti responsabili dello smaltimento dei rifiuti: «le autorità pubbliche - scrivevamo allora - si sono mostrate poco collaborative come se la gestione dei rifiuti fosse un fatto privato che possono gestire nel segreto delle stanze».

Negli anni scorsi non sono mancati episodi di illeciti legati allo scarico abusivo dei prodotti inquinanti della concia. Nel maggio 2018 un'altra indagine della stessa DDA aveva svelato l'esistenza di rapporti di affari illeciti tra clan camorristici e imprenditori del settore del cuoio, per riciclare il denaro sporco.

Sotto il mondo scintillante del lusso e delle scarpe di cuoio si nascondono traffici criminali, corruzione e l'inquinamento illegale del territorio, oltre allo sfruttamento dei lavoratori, soprattutto immigrati.

Una nota ancora dolente da ricordare e che oggi risuona oltremodo profetica: quando quel rapporto fu pubblicato, gli estensori subirono una campagna di pressione senza precedenti da parte del finanziatore (Commissione Europea) perché esso fosse ritirato dalla circolazione a causa di presunte e mai dimostrate inesattezze e falsità denunciate dalle associazioni industriali dei conciatori italiana ed europee.

Quel rapporto accurato e basato su evidenze pubbliche non è mai stato rimosso ma anzi ripubblicato, rinunciando al finanziamento europeo, con una prefazione che dettaglia quella triste e durissima storia di pressione e pericolosa interferenza delle lobby industriali nella vita democratica delle istituzioni europee.

Oggi più che mai vale la pena rileggerlo. Seppure datato, quel rapporto conserva la freschezza di un quadro attualissimo e fosco. La Campagna Abiti Puliti esprime massima solidarietà ai lavoratori e alle lavoratrici del distretto conciario, auspicando legalità e tutela dei loro diritti.

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Made-in-Italy shoes industry sinks its heels into illicit trafficking of polluting sludge

Italian leather production is among one of the fashion system production leading sectors: without leather, it would not be possible to make the Italian shoes sold all over the world (but also belts, bags, jackets...).

Processing leather requires an industrial process with a very high environmental impact: a huge amount of water is used, which is then released into purification plants laden with toxic substances. The Santa Croce tanning district, in addition to other leather products, supplies all (or almost all) of the sole leather produced in Italy. Here, 6 million cubic metres of water are used each year for the tanning process.

Much of this water is managed by the Aquarno Consortium, an offshoot of the tanning companies, which is now the focus of an investigation by the anti-mafia prosecution office in Florence. The investigators claim that the Consortium paid politicians to avoid the obligation to undergo environmental controls and that the top management of the Santa Croce Tanners' Association has been supporting for years an illegal disposal system of polluting residues that involved their use as material for road construction sites, through companies managed by organised crime/mafia clans.

In 2015, the Centro Nuovo Modello di Sviluppo with the Campagna Abiti Puliti published a report on the tanning industry in the Santa Croce district entitled "Una dura storia di cuoio", in which we brought to light data on the environmental impact of the sector. In particular, we denounced the opacity of the information provided by those responsible for waste disposal: 'the public authorities,' we wrote at the time, 'have been uncooperative, as if waste management were a private matter that they could manage in the secrecy of their rooms'.

The glittering world of luxury and leather shoes conceals criminal trafficking, corruption and illegal land pollution, as well as the exploitation of workers, especially immigrants.

This is one more painful note to bear in mind, and one that sounds extremely prophetic today: when that report was published, the authors were subjected to an unprecedented pressure campaign carried out by the funder (the European Commission) to withdraw it from circulation because of alleged and never proven inaccuracies and falsehoods denounced by the Italian and European tanners' industrial associations.

That accurate and evidence-based report has never been removed but rather republished, renouncing to those European funding, with a preface detailing that sad and very harsh history of pressure and dangerous interference of industrial lobbies in the democratic life of European institutions.

Today, more than ever, it is worth re-reading it. Although dated, that report retains the freshness of a very current and gloomy picture. The Campagna Abiti Puliti expresses its utmost solidarity with the workers in the tanning district, calling for legality and protection of their rights.


I marchi e i produttori di abbigliamento non possono rimanere in silenzio sulle atrocità del Myanmar


Il network globale della Clean Clothes Campaign condanna fermamente il comportamento silente dei marchi di abbigliamento, tra cui Aldi North, Lindex e Marks & Spencer, sulle atrocità commesse dai militari in Myanmar in seguito al colpo di stato militare intervenuto all'inizio di febbraio. Marchi come H&M, Next, C&A, Primark e Benetton hanno sospeso le forniture, ma ciò non elimina la loro responsabilità nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici con riferimento al pagamento dei salari e delle liquidazioni a loro spettanti.

I lavoratori e le lavoratrici tessili hanno giocato un ruolo chiave nelle proteste in corso a favore della democrazia, combattendo per i loro diritti e libertà e correndo rischi in prima persona. La repressione violenta dell'esercito prende di mira chi partecipa al movimento di disobbedienza civile: negli ultimi due mesi, i militari hanno ucciso più di 500 persone.

All'inizio di marzo, la CCC ha invitato i marchi di abbigliamento che si riforniscono dal Myanmar a prendere una serie di misure concrete per proteggere i diritti e la sicurezza dei lavoratori dell'abbigliamento. Per anni i marchi che si riforniscono dal Myanmar hanno sfruttato le deboli leggi sul lavoro e la miseria delle retribuzioni per fare profitti e guadagni. Ora, in questo momento di crisi, non possono negare sostegno attivo ai lavoratori.

Fra i marchi che non hanno fornito risposte pubbliche alla devastante situazione in Myanmar vi sono Aldi North, Lindex e Marks & Spencer. È vergognoso che i marchi tessili non diano la priorità alla protezione dei diritti umani e delle vite, specialmente in considerazione dell'urgenza di tale situazione.

H&M, Next, C&A, Primark, Benetton e tutti i marchi con filiere in Myanmar devono agire proattivamente per garantire i salari e il sostentamento delle persone che producono i loro vestiti in questo momento di crisi. È fondamentale che i marchi facciano pressione sui militari attraverso dichiarazioni pubbliche, ammettendo che il ritiro degli ordini dai loro fornitori è un risultato diretto del colpo di stato militare e dell'attacco alla democrazia e ai diritti umani, e non dovuto a questioni logistiche.

Chiediamo a tutti i marchi, distributori e produttori attivi in Myanmar di prendere misure immediate per proteggere i lavoratori dell'abbigliamento. Hanno la responsabilità di assicurare ai lavoratori il pagamento dei loro salari o, in caso di perdita del lavoro o di chiusura della fabbrica, dell'intera liquidazione loro dovuta. Non solo, i marchi devono anche assicurarsi presso i fornitori che i lavoratori non debbano affrontare misure punitive per aver saltato il lavoro, indipendentemente dal fatto che si siano uniti alle proteste, che non siano in grado di andare al lavoro o che siano tornati ai loro villaggi in quanto legittimamente preoccupati per la loro sicurezza.

Il numero di morti per mano dei militari aumenta ogni giorno. I marchi non possono più rimanere in silenzio.


(2021) REPORT: Come calcolare l'Europe Floor Wage

La Clean Clothes Campaign compie un altro passo avanti nella lotta per migliorare le condizioni di lavoro e sostenere i lavoratori e le lavoratrici tessili nella rivendicazione di salari dignitosi. Grazie a una ricerca durata 6 anni e supportata dalla consulenza di vari esperti del network e di altre reti e organizzazioni, tra cui l'Asia Floor Wage Alliance, nasce l'Europe Floor Wage: una proposta e un metodo per calcolare un salario dignitoso transfrontaliero applicabile ai diversi Paesi dell'Europa centrale, orientale e sud-orientale.

Scarica il report


“Ci sono giorni che non abbiamo nulla da mangiare”

Una lavoratrice ucraina. 

In quest’area, solo nell'industria dell'abbigliamento, lavorano più di 2,3 milioni di persone, prevalentemente donne, con salari netti minimi legali inferiori alle soglie di povertà definite dall'Unione Europea. Marchi e distributori della moda, che continuano a realizzare ingenti profitti, anche durante la pandemia, usano la minaccia della delocalizzazione per beneficiare della concorrenza internazionale tra Paesi e regioni. In questo modo aumentano la propria capacità di comprimere i costi, indebolendo il potere contrattuale di lavoratori e sindacati.

Nonostante il salario dignitoso sia un diritto umano riconosciuto dal diritto internazionale e dall'Unione Europea, gli stipendi minimi sono così bassi che le persone, pur lavorando, sono costrette in condizioni di povertà. 

In risposta a questa situazione inaccettabile, la Clean Clothes Campaign ha sviluppato l'Europe Floor Wage, un benchmark transfrontaliero dei salari basato sul della vita in 15 Paesi europei di produzione di abbigliamento, di cui 7 membri dell'Unione Europea. È uno strumento concreto per mostrare a marchi e governi quale sia il salario necessario per vivere dignitosamente, utile alle organizzazioni del lavoro e ai sindacati per rafforzare il loro potere contrattuale. Secondo i calcoli elaborati, mediamente, i salari minimi legali dei vari Paesi analizzati equivalgono a ¼ del livello considerato dignitoso.

Le norme internazionali stabilite dalle Nazioni Unite riportano: "I salari e le prestazioni pagate per una settimana lavorativa standard dovrebbero soddisfare almeno gli standard salariali minimi legali o del settore e essere sempre sufficienti a soddisfare le esigenze di base dei lavoratori e delle loro famiglie oltre a fornire un reddito discrezionale."

Questo significa che un salario dignitoso dovrebbe:

  • essere pagato a tutti i lavoratori, pertanto un salario minimo inferiore sarebbe illegale
  • essere guadagnato in una settimana lavorativa standard, non superiore a 48 ore
  • essere un salario di base: al netto di prestazioni, bonus e straordinari
  • coprire le esigenze di base della lavoratrice e della sua famiglia
  • fornire un reddito discrezionale pari ad almeno il 10% del salario di base.




L’idea di elaborare un salario dignitoso di base parametrato al costo della vita su base transfrontaliera è nata da una rete di attivisti, accademici e sindacalisti in Asia. Da quella felice intuizione è nato l'Asia Floor Wage, un metodo di calcolo oggi ampiamente riconosciuto e fondamentale come parametro di riferimento per le lavoratrici e i lavoratori asiatici.

Ispirandosi alla metodologia dell’ Asia Floor Wage, la rete europea della Clean Clothes Campaign ha elaborato una proposta di salario per l’Europa Orientale, centrale e sudorientale. Ciò è avvenuto tramite un processo orizzontale e inclusivo durato diversi anni basato su ricerche, interviste ai lavoratori e confronto tra le diverse realtà della rete, ponendo al centro le peculiarità e le competenze dei paesi di produzione.




Avere un valore di riferimento è fondamentale per rivendicare e negoziare un salario dignitoso. Ma non basta! In un contesto globalizzato dove i marchi e i distributori determinano le condizioni salariali delle lavoratrici e dei lavoratori nelle catene globali di fornitura, è necessario adottare nuovi strumenti di contrattazione in grado di obbligare le imprese committenti a corrispondere prezzi di acquisto sufficienti a garantire salari dignitosi a tutti i lavoratori della filiera. Gli accordi salariali vincolanti sono la possibile soluzione.

I lavoratori e le lavoratrici della moda percepiscono salari miseri, sia perché i marchi committenti pagano prezzi di acquisto troppo bassi per garantire salari adeguati ma anche perché i governi dei paesi di produzione fissano salari minimi legali ad di sotto della soglia di povertà. Schiacciati da una feroce competizione internazionale che favorisce politiche di moderazione salariale, i lavoratori tessili in Europa, in maggioranza donne, sono condannanti alla povertà. La questione è di grande attualità nel dibattito politico europeo, come dimostra la recente proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a salari minimi adeguati nell’Unione Europea



#PayYourWorkers


Una coalizione di oltre 200 organizzazioni per chiedere ai marchi e ai distributori della moda di pagare alle lavoratrici e ai lavoratori tessili quanto dovuto: rinunciando soltanto a 10 centesimi di profitto su ciascuna t-shirt venduta, aziende come Amazon, Nike e Next potrebbero permettere a queste persone di sopravvivere alla pandemia. Sul nuovo sito della coalizione, pubblicato oggi, tutte le informazioni e le richieste ai marchi.


Cosa chiediamo


La petizione


Attivati


Visita il sito

Milioni di lavoratori hanno lottato per sfamare le proprie famiglie da quando i marchi li hanno abbandonati lo scorso marzo. Le aziende hanno risposto alla crisi rifiutandosi di pagare gli ordini e utilizzando la diminuzione della domanda di abbigliamento per ottenere prezzi ancora più bassi dai fornitori. Questo ha comportato una diffusa perdita di posti di lavoro e di reddito, spingendo tante persone sempre più a fondo nella povertà e nella fame.

A un anno dall'inizio della crisi, molti marchi sono tornati a fare profitti, raggiungendo persino traguardi record, mentre i lavoratori nelle loro catene di fornitura lottavano per sopravvivere.

Next e Nike sono dei cosiddetti "Super Winners” essendosi ripresi rapidamente dalle perdite della pandemia e iniziando a realizzare nuovamente profitti. Amazon ha fatto ancora meglio e ha registrato un aumento di quasi il 200% dei profitti, salendo a ben 6,3 miliardi di dollari nel primo anno della pandemia. Queste aziende possono e devono garantire che i lavoratori non paghino il prezzo della pandemia con i loro salari di povertà.

La campagna #PayYourWorkers, che riunisce 200 sindacati e organizzazioni della società civile di 35 diversi Paesi, chiede ai marchi di fornire immediato sollievo ai lavoratori dell'abbigliamento e di sottoscrivere impegni vincolanti per riformare il loro settore in rovina.


In particolare chiediamo che aziende come Amazon, Nike e Next paghino quanto dovuto ai lavoratori durante la pandemia, rispettino il diritto di organizzarsi e i contratti collettivi, si assicurino che i lavoratori non vengano mai più lasciati senza un soldo se la loro fabbrica fallisce aderendo alla proposta di fondo negoziato di garanzia per le indennità di fine rapporto e disoccupazione.

Sophorn Yang, presidente della Cambodian Alliance of Trade Unions, ha dichiarato: "I lavoratori in Cambogia hanno perso milioni di dollari di salari durante la pandemia a causa delle azioni dei marchi. È tempo che le aziende riconoscano la posizione di potere che occupano nelle catene di fornitura di abbigliamento e calzature e si assumano la responsabilità dei salari dei lavoratori che gli garantiscono miliardi di dollari di profitti ogni anno".

PayYourWorkers.org, il sito web della campagna lanciato oggi, è disponibile in XX lingue. Tra le 200 organizzazioni aderenti troviamo le italiane NAME, NAME e NAME. Durante tutta questa settimana i sindacati e gli attivisti saranno impegnati in azioni di piazza e online per far sentire la voce dei lavoratori.

FIRMA LA PETIZIONE

Milioni di operai e operaie dell'abbigliamento nel mondo stanno perdendo il lavoro senza alcuna indennità, oppure non stanno ricevendo integralmente lo stipendio (che già è una paga da fame). La maggior parte di queste persone sono donne. La fame costringe quelle che hanno ancora un lavoro a mettere a rischio la propria vita andando a lavorare non in condizioni di sicurezza.

Con #PayYourWorkers, chiediamo a tutti i marchi che producono abbigliamento, a cominciare da H&M, Nike e Primark di:

  • Pagare ai lavoratori e alle lavoratrici delle loro filiere il salario integrale per tutta la durata della pandemia;
  • Garantire che i lavoratori e le lavoratrici non siano mai più lasciati/e in mezzo a una strada in caso di fallimento della fabbrica: lo possono fare aderendo alla proposta di fondo negoziato di garanzia per le indennità di fine rapporto; e
  • Assicurare la libertà di associazione sindacale e il diritto di contrattazione collettiva;

ATTIVATI

È passato ormai un anno da quando i marchi hanno deciso che i loro lavoratori tessili, con salari di povertà, avrebbero sopportato il peso della pandemia. Invitiamo @nike @amazon @nextofficial ad assumersi finalmente le loro responsabilità #PayYourWorkers www.payyourworkers.org


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Cosa state facendo per proteggere i lavoratori tessili dal furto di salari e dalle violazioni sindacali @nike @amazon @nextofficial? #PayYourWorkers #RespectLabourRights www.payyourworkers.org

Con tutti i profitti che @nike @amazon @nextofficial stanno realizzando, non riusciamo a capire bene cosa impedisce loro di impegnarsi per un’assicurazione salariale, garantendo che ai lavoratori sia pagato quanto dovuto? #PayYourWorkers www.payyourworkers.org


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Tragedia in Marocco: è ora che i marchi intervengano

La scorsa settimana, almeno 28 lavoratrici e lavoratori tessili sono morti a seguito di forti inondazioni in una fabbrica clandestina a Tangeri, in Marocco. I nostri pensieri vanno innanzitutto ai familiari delle vittime. Questa tragedia mostra ancora una volta l'urgente necessità di migliori condizioni di lavoro nel settore tessile marocchino, nonché di un accordo internazionale vincolante sulla sicurezza delle fabbriche, che costringa i marchi, i distributori e i proprietari ad assumersi le proprie responsabilità nella creazione di luoghi di lavoro salubri e sicuri.

Le prime notizie sull'incidente indicano che almeno 19 donne e 9 uomini di età compresa tra i 20 ei 40 anni sono morti a seguito di un cortocircuito causato dalle forti piogge nella regione, che hanno allagato molti luoghi e case a livello stradale. È stata aperta un'indagine giudiziaria per determinare le circostanze della tragedia e chiarire le responsabilità.

Condizioni di lavoro pessime in un'industria globale che impiega una forza lavoro prevalentemente femminile, dove i rapporti di lavoro precari, la mancanza di trasparenza e l'impunità continuano ad essere endemiche.

Dicono che siano fabbriche illegali, ma in realtà tutti sanno che esistono e sono aziende note. Le chiamiamo fabbriche clandestine perché non rispettano le minime condizioni di sicurezza e i diritti dei lavoratori", ha spiegato al quotidiano Ara Aboubakr Elkhamilchi, membro fondatore dell'organizzazione marocchina Attawassoul.

La necessità che marchi e distributori si impegnino in un accordo vincolante con le federazioni sindacali globali è urgente. Gli eventi meteorologici estremi, comprese le forti piogge che molto probabilmente hanno causato questo incidente, stanno già costando vite e distruggendo i mezzi di sussistenza. A causa dei cambiamenti climatici e dell'aumento delle temperature sono destinati ad aumentare. Marchi e rivenditori hanno la responsabilità di garantire un ambiente di lavoro sano e sicuro. Sebbene questa sia sempre stata una sfida, le condizioni odierne, inasprite da una pandemia globale, rendono ancora più pressante un intervento immediato per garantire salute e sicurezza dei lavoratori.

Leggi l'approfondimento completo


Controlli su misura - Lo speciale di Internazionale

Pubblichiamo l'approfondimento di Internazionale, a cura di Maria Hengeveld, su RINA, il sistema delle certificazioni e il caso Ali Enterprises. 

Quando nel 2001 Kishore Sharfudeen, un uomo cordiale con due figli originario del Tamil Nadu, nel sud dell’India, fu assunto come capo del personale dal calzificio Snqs International Socks, davanti a lui si spalancarono nuovi mondi. Otto anni come avvocato gli avevano fatto perdere ogni illusione, e il suo nuovo datore di lavoro, nella città di Coimbatore, sembrava offrirgli una vita più facile in un’azienda che forniva calze a marchi europei come Primark e H&M.

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Contribuisci concretamente alla difesa dei diritti umani in Europa e nel mondo

La Commissione europea sta preparando una proposta di direttiva che imporrà alle aziende di rispettare l’ambiente e i diritti umani nel mondo. Più precisamente, la direttiva obbligherà qualsiasi azienda europea a praticare la cd. due diligence (dovuta diligenza) di ogni suo fornitore, verificando se effettivamente non sfrutti i lavoratori e le lavoratrici, paghi gli straordinari, corrisponda salari dignitosi, si preoccupi della sicurezza in fabbrica, conceda i congedi di maternità, permetta ai suoi dipendenti di unirsi in sindacati. 

Per costruire una legislazione che raggiunga davvero il proprio scopo e che sia efficace, la Commissione ha aperto una procedura di consultazione: in altre parole chiede a chiunque abbia interesse (campagne come la nostra, ma anche altre associazioni no profit, aziende, cittadini, sindacati) di fornire la propria opinione e informare in tal modo il processo di definizione della legge.

E’ un’occasione unica per partecipare attivamente al processo decisionale europeo. 

La Campagna Abiti Puliti sostiene questa iniziativa promossa da alcune ONG e sindacati europei che permette ad ogni cittadino e cittadina dell’Unione di rispondere alla consultazione, mandando un messaggio direttamente alla Commissione europea di sostegno ad una legislazione forte, che non faccia sconti alle aziende ma che anzi imponga loro di non fare profitto a danno delle persone e dell’ambiente. Basta inserire i propri dati in questo form e un messaggio di risposta alla consultazione verrà inviato direttamente alla Commissione!

Cosa vogliamo?

  1. Che tutte le imprese europee, operanti in qualsiasi parti del mondo, rispettino i diritti umani e l’ambiente
  2. Che le imprese siano responsabili dei danni che provocano all’ambiente, alle persone che lavorano per loro e alle comunità in cui operano
  3. Che le vittime di violazioni di diritti umani e ambientali abbiano degli strumenti concreti possano difendersi in tribunale e ottenere risarcimenti congrui


Partecipa ora!

Partecipando a questa iniziativa non stai firmando una petizione: stai scrivendo direttamente alla Commissione Europea!


Facciamoci sentire, facciamo capire alla Commissione europea che vogliamo un mondo in cui non si possa fare soldi abusando delle persone e rovinando il nostro pianeta. Un mondo in cui il benessere delle persone e dell’ambiente venga prima della distribuzione degli utili aziendali. Un mondo a misura di essere umano, non di consiglio di amministrazione!

La Campagna Abiti Puliti seguirà da vicino il processo di formazione di questa direttiva. Ti terremo aggiornato/a su ogni sviluppo!

 


1 lavoratrice su 10 vittima di violenze. La ratifica della C190 finalmente una buona notizia

L’Italia ratificherà la Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro n. 190 sull'eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro, adottata dall’OIL il 21 giugno 2019. Ieri martedì 12 gennaio, infatti, il Senato della Repubblica ha approvato all’unanimità l’autorizzazione alla ratifica. Il processo è partito dalla Camera dei Deputati e in particolare dalla proposta di legge dell’On. Laura Boldrini (PD) - approvata dalla Camera, anche qui all'unanimità, il 23 settembre 2020 - la quale, nella sua relazione, ha menzionato la particolare vulnerabilità delle donne lavoratrici del settore dell’abbigliamento. Anche il relatore del disegno di legge al Senato, l’On. Alberto Airola (M5S), ha fatto specifico riferimento alle lavoratrici del settore tessile.

L’Italia è il primo paese europeo che ratificherà questa convenzione e come Campagna Abiti Puliti non possiamo che esprimere la nostra soddisfazione. Una straordinaria opportunità che riporta al centro del dibattito l’urgenza di norme, controllo pubblico e sistemi rimediali efficaci  in grado di proteggere le persone più vulnerabili nei luoghi di lavoro” ha dichiarato la portavoce della campagna Deborah Lucchetti.

La Convenzione 190 rappresenta infatti, almeno in potenza, un passo avanti nel contrasto alle violenze e molestie sul luogo di lavoro. Essa fornisce una definizione ampia di violenza e molestia - definendole ogni comportamento suscettibile di causare un danno fisico, psicologico e economico - e riconosce tali comportamenti come violazione di diritti umani. Inoltre, fa esplicito riferimento alle violenze e molestie fondate sul genere, riconoscendo dunque che le donne sono particolarmente esposte a violenza e molestie sul lavoro sia fisica che economica. La Convenzione si applica sia al settore pubblico che al settore privato, e include fra i soggetti meritevoli di tutela anche quelli in posizioni lavorative più vulnerabili quali tirocinanti, volontari e persone licenziate. È la prima volta che si ha una definizione concordata a livello internazionale di violenza e molestie sul lavoro e molto ampia, poiché comprende anche le molestie e violenze che possono accadere in viaggi, trasferte, eventi di lavoro (quindi al di fuori dell’orario di lavoro, ma collegate all’ambito lavorativo), e anche per via telematica, aspetto quest’ultimo non di secondaria importanza al giorno d’oggi, data la necessità per molte persone di lavorare in smart working. L’Italia dovrà ora recepire la Convenzione con una nuova legge che tenga conto di tutto ciò, e avrà l’obbligo di fornire adeguato accesso alla giustizia per le vittime di violenza o molestie sul luogo di lavoro, incluso il rafforzamento del ruolo degli Ispettorati del lavoro.

 

Questa legge sarà di importanza fondamentale per le lavoratrici del nostro paese, se consideriamo che - in base agli ultimi dati disponibili, Istat 2016 - 1 milione e 400 mila donne hanno subito molestie sul luogo di lavoro: praticamente una lavoratrice su 10. Nell’81% dei casi, queste lavoratrici non hanno denunciato, perché non vi erano strumenti adeguati per poterlo fare. 

Non solo in Italia ma in tutto il mondo, e in particolare nei paesi di produzione tessile, le donne lavoratrici sono esposte a violenza fisica ed economica, come documentato nel paper della Campagna Abiti Puliti sulla violenza lavorativa di genere pubblicato lo scorso 25 novembre. La Campagna Abiti Puliti sta conducendo da mesi una campagna internazionale che chiede a tutti gli stati, soprattutto quelli la cui economia si basa in gran parte sulla produzione tessile e quindi sul lavoro delle donne, di ratificare la Convenzione 190.


RINA ha scelto ancora di ignorare le vittime della Ali Enterprises

La società di auditing italiana RINA Services S.p.A. si è rifiutata di assumersi le sue responsabilità per aver certificato come sicura una fabbrica di abbigliamento a Karachi (Pakistan) in cui, un mese dopo la certificazione, sono morte oltre 250 persone. I sopravvissuti pakistani, le famiglie dei deceduti e le organizzazioni per i diritti dei lavoratori insieme ad alleati europei avevano presentato istanza al Punto di Contatto Nazionale (PCN) dell'OCSE in Italia nel Settembre 2018. Dopo mesi di mediazione, quando ormai si era arrivati a un passo dalla chiusura, almeno storica, di questa drammatica vicenda, RINA ha deciso di non firmare l'accordo che avrebbe garantito un sollievo economico alle famiglie colpite e obbligato l’azienda a migliorare le proprie pratiche di certificazione.

L'11 settembre 2012 un incendio ha travolto lo stabilimento Ali Enterprises. Solo tre settimane prima RINA aveva certificato l’azienda conforme alla norma SA8000, uno standard internazionale stabilito da Social Accountability International. L'auditor aveva trascurato una serie di obblighi di sicurezza, come la necessità di avere un sistema di allarme antincendio funzionante o uscite di emergenza sufficienti ed efficaci. Successivamente sono venute a galla una serie di altre violazioni dei diritti dei lavoratori ignorate dall'auditor.

Sebbene RINA abbia certificato la fabbrica come sicura, in realtà è stata una trappola mortale che è costata la vita a mio figlio e ad altre 250 persone", ha dichiarato Saeeda Khatoon, presidente dell'Ali Enterprises Factory Fire Affectees Association (AEFFAA). “Come familiari delle vittime e sopravvissuti chiediamo giustizia e responsabilità. Siamo molto delusi dal rifiuto di RINA di firmare l'accordo."


Scrivi a RINA e chiedi spiegazioni

Come impresa situata in un Paese membro dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), RINA deve attenersi alle Linee guida per le imprese multinazionali. In risposta alla nostra istanza di giustizia, RINA ha respinto ogni responsabilità e ha affermato di aver debitamente verificato l'edificio secondo le norme. Ha sostenuto di non essere in grado di risolvere da sola i problemi del settore dell'auditing e ha ritenuto che la mediazione presso il Punto Nazionale di Contatto non fosse la strada giusta per fornire un risarcimento alle famiglie colpite. Il PCN ha tuttavia riconosciuto il merito della denuncia e ha organizzato il processo di mediazione dando incarico ad un’esperto esterno alla struttura del Mise che gestisce e ‘ospita’ il PCN stesso.

Come punto di compromesso di un lungo processo di mediazione, il PCN ha proposto innanzitutto che RINA si impegnasse a pagare 400.000 dollari alle persone colpite dall'incendio e che un rappresentante dell'azienda incontrasse le famiglie per esprimere la propria solidarietà. In secondo luogo, ha suggerito all’azienda di promuovere un miglioramento dei sistemi di certificazione globali, includendo ad esempio le pratiche di acquisto dei marchi committenti nei processi di audit, oltre a migliorare le sue pratiche di due diligence. Ciò includerebbe trasparenza sulle politiche in materia di gestione del rischio, corruzione e conflitto di interessi.

Ritenendolo un compromesso accettabile - anche se non avrebbe reso piena giustizia alle famiglie colpite – le organizzazioni titolari dell’istanza (associazioni vittime, sindacati) hanno firmato l'accordo nel marzo 2020. RINA, invece, ha improvvisamente ritirato il suo impegno nel processo e si è rifiutata di firmare prima della scadenza, considerando il contributo economico alle famiglie come il più grande ostacolo. Nella sua dichiarazione finale il PCN raccomanda a RINA di compiere comunque un "gesto umanitario" per le famiglie attraverso l’erogazione di un sostegno economico ed esprimendo cordoglio di persona.

"Il comportamento di RINA mostra chiaramente la necessità di regole obbligatorie per le aziende di condurre due diligence sui diritti umani che possano essere imposte anche attraverso i tribunali", ha affermato Miriam Saage-Maaß, responsabile  del Programma per le imprese e i diritti umani presso l’European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR).

L’incendio della Ali Enterprises è un esempio eclatante del fallimento delle società di auditing nel condurre il proprio lavoro nell'interesse dei lavoratori: i problemi nel settore sono endemici e strutturali. Un articolo investigativo (link) sulle strategie commerciali di RINA pubblicato all'inizio di quest'anno ha mostrato come l’azienda abbia costantemente e strutturalmente ricavato profitti sulla pelle delle persone, nonostante il loro obiettivo dichiarato sia di migliorare le condizioni di lavoro nell'industria dell'abbigliamento. Serve una modifica radicale di tutto il sistema per ottenere miglioramenti significativi e concreti, a partire dalla trasparenza fino alla responsabilità legale delle società di auditing per le loro ispezioni. 

"Incentivi perversi, mancanza di tempo e assenza di un effettivo coinvolgimento e informazione dei lavoratori creano un sistema che protegge l’immagine delle aziende piuttosto che i lavoratori", ha affermato Deborah Lucchetti, coordinatrice  della Campagna Italiana Abiti Puliti. "Gli Stati inoltre dovrebbero rafforzare gli ispettorati del lavoro per garantire il rispetto delle normative, ripristinando il primato del controllo pubblico invece di una pericolosa deriva verso la sua privatizzazione".

"A parte l’amarezza per un nulla di fatto dopo mesi di lavoro, e per non essere riusciti ad aiutare i familiari delle vittime e tutti i soggetti coinvolti a mettere almeno la parola fine a questa storia terribile -afferma Alessandro Mostaccio Segretario generale del Movimento Consumatori copresentatore dell’istanza al PCN - rimane la nostra disponibilità nel rispettare e perseguire le raccomandazioni ricevute dal PCN e la nostra determinazione a spingere in tutti i modi perché Rina abbia ‘cuore’ di aumentare i propri standard di due diligence

Leggi la dichirazione finale del PCN


Fermiamo il genocidio del popolo uiguro. Zara interrompa lo sfruttamento di lavoro forzato

In questi giorni di avvio dello shopping natalizio, in tutto il mondo gruppi di attivisti e organizzazioni schierate in difesa dei diritti dei lavoratori stanno protestando per richiamare l’attenzione sul genocidio della popolazione Uigura nella regione dello Xuar/Xinjiang ad opera del governo cinese e sulla connivenza delle aziende della moda che utilizzano cotone proveniente da questa regione. In particolare la campagna è rivolta a Zara, noto marchio di punta del colosso della moda Inditex, ma l’azione di protesta ha lo scopo di denunciare tutta quella parte del settore che trae profitto dal lavoro forzato della regione uigura. E’ stato calcolato che circa 1 indumento di cotone su 5 venduti a livello globale contiene prodotti provenienti da quest’area.

La situazione di grave violazione dei diritti delle popolazioni musulmane nella Cina nord occidentale è purtroppo in corso da diversi anni, come richiamato già nel 2018 dalle Nazioni Unite e dall’Alto Rappresentante della Commissione europea per gli affari internazionali Federica Mogherini.

Nel corso degli anni il governo cinese ha concentrato da 1 a 3 milioni di uiguri e altri turco-musulmani nei campi di lavoro forzato, la più grande sepoltura di una minoranza etnica e religiosa dalla seconda guerra mondiale. Non si tratta “solo” di rieducazione forzata e indottrinamento: è noto e provato che la popolazione turcofona degli Uiguri viene da anni sottoposta a torture, detenzione forzata in campi di concentramento, trasferimenti forzati, lavoro forzato nell’agricoltura, sterilizzazione forzata per le donne Uigure. Si stima che almeno dal 2017 quasi due milioni di Uiguri sono stati sottoposti a trasferimenti obbligatori e rinchiusi in veri e propri campi di lavoro. 

L’elemento centrale della strategia del governo per dominare questo popolo è un vasto sistema di lavoro forzato, che coinvolge fabbriche e fattorie in tutta la regione e in Cina, sia all'interno che all'esterno dei campi di internamento. In altre parole il governo cinese vende lavoratori uiguri agli imprenditori cinesi.


All'inizio di novembre, l’Energy and Industrial Strategy Committee del Parlamento britannico ha tenuto un'audizione per determinare "la misura in cui le imprese del Regno Unito stiano sfruttando il lavoro forzato degli uiguri". Nella sua testimonianza, Inditex ha negato categoricamente di avere legami con l’azienda Huafu Fashion, che possiede e gestisce diverse fabbriche accusate di sfruttare il lavoro forzato, tra cui la Huafu Melange Yarn Co., Ltd.  Eppure un database pubblico dell'Institute of Public and Environmental Affairs cinese documenta tale relazione. 

Secondo il Wall Street Journal cinque società di revisione hanno inserito la regione uigura dello Xuar/Xinjiang nella lista nera delle importazioni (black list) a causa delle restrizioni governative e del clima di terrore che impedisce ai lavoratori di parlare liberamente agli ispettori senza rischiare ritorsioni. Questo significa, di fatto, che i rapporti di audit sono sostanzialmente inutili per verificare la catena di fornitura nella regione.

I consumatori dovrebbero chiedersi perché i nostri vestiti sono così economici. La risposta sta nello sfruttamento di intere fasce di persone della regione uigura, la cui manodopera è costretta a produrre cotone a basso costo. Le aziende globali, come Inditex, non dovrebbero operare in questo modo. Alla voce di Freedom United si sono unite oltre 55.000 persone e altre migliaia ogni giorno se ne aggiungono per chiedere la loro libertà", ha affermato Joanna Ewart-James, Direttore esecutivo di Freedom United.

Zara ha mentito per nascondere i suoi legami con la Huafu Fashion, per continuare a trarre profitto dal lavoro forzato del popolo uiguro. I consumatori devono inviare un messaggio forte a Zara e Inditex, così come ad altri distributori che vendono merci parzialmente o totalmente prodotte nella regione uigura. Il nostro consumo globale non dovrebbe più tollerare la totale oppressione delle persone ", ha affermato Johnson Yeung, attivista della Clean Clothes Campaign.


A luglio quasi 300 organizzazioni per i diritti umani e dei lavoratori hanno lanciato la campagna End Uyghur Forced Labour, chiedendo alle multinazionali di disinvestire dalla regione autonoma uigura dello Xinjiang. All'inizio dell’autunno, le associazioni con sede negli Stati Uniti e nel Regno Unito hanno presentato una petizione formale all’ufficio doganale americano (il US Customs and Border Patrol, CBP), esortandolo ad esercitare il potere di emettere un ordine di non importazione (Withhold Release Orders, WROs), che impedisce a merce sospetta di essere stata prodotta da lavoro forzato di entrare nel Paese, su tutti i prodotti di cotone collegati alla regione uigura in base alle prove dell’utilizzo di lavoro forzato. Ai sensi della legge americana 19 U.S.C. §1307, è illegale per gli Stati Uniti consentire l'ingresso di merci, "prodotte, o fabbricate interamente o in parte in qualsiasi paese straniero da lavoro carcerario, lavoro forzato o a cottimo". Il CBP sta valutando la messa al bando delle produzioni di cotone provenienti dallo Xinjiang in risposta alla petizione. 

A settembre, la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato in modo schiacciante l'Uyghur Forced Labour Prevention Act (H.R. 6210): un disegno di legge per porre fine all'uso del lavoro forzato uiguro nelle catene di fornitura attraverso il divieto di importare ogni materiale prodotto nella regione uigura, salvo che il marchio sia in grado di dimostrare che non sia stato utilizzato lavoro forzato.

La Coalizione End Uyghur Forced Labour chiede in particolare ai marchi e ai distributori di:

  • terminare il rifornimento di cotone, filati, tessuti e prodotti finiti dalla regione uigura
  • interrompere qualsiasi relazione con le aziende fornitrici di materiali tessili che sfruttano lavoro forzato -  sia quelle che operano direttamente nella regione uigura, sia quelle che hanno accettato sussidi governativi e/o manodopera dal governo cinese
  • Vietare a qualsiasi fabbrica fornitrice situata al di fuori della regione uigura di utilizzare i lavoratori forniti attraverso il programma di lavoro forzato del governo cinese previsto per il popolo uiguro e turco-musulmano

In questa situazione, l’Italia non può stare a guardare. Abbiamo contattato le istituzioni italiane da cui ci aspettiamo una decisa presa di posizione in merito a questa situazione, come hanno fatto non solo gli Stati Uniti ma anche il Canada e la Gran Bretagna. Ci aspettiamo inoltre che tutta l'industria italiana prenda le distanze da questa tragedia umanitaria, aderendo alla nostra richiesta di cessare i rapporti commerciale diretti o indiretti con fornitori a rischio” ha infine dichiarato Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti.

Il Comitato per i diritti umani del Parlamento del Canada ha dichiarato ufficialmente che quanto sta avvenendo nello Xuar è un genocidio e ha invitato il Governo ad agire immediatamente in ogni sede opportuna per porvi fine. Anche Il Parlamento britannico ha intrapreso una interrogazione parlamentare coinvolgendo brand inglesi che si approvvigionano in Cina. Da ultimo, ma non certo per importanza, pochi giorni fa anche il Pontefice ha espresso forte preoccupazione per la persecuzione della popolazione Uigura.

Le aziende italiane devono sapere e dichiarare se comprano cotone cinese e da quale zona. Come consumatori, dobbiamo impedire che la moda italiana utilizzi merci prodotte con il sangue degli Uiguri.

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#ForcedLabourFashion La moda globale fa uso di cotone, filati e tessuti prodotti da lavoro forzato uiguro. Non credere a quello che ti racconta @Zara. Chiediamogli di smetterla! www.ForcedLabourFashion.org #ZARAStopLying

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Il 20% degli indumenti di cotone che acquistiamo, contiene cotone prodotto con lavoro forzato uiguro. Chiedi a @Zara di smetterla di fare profitti sulla pelle di questi lavoratori #ForcedLabourFashion #ZARAStopLying

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Il popolo uiguro ha perso la libertà e la vita per produrre gli abiti dei saldi festivi. Chiediamo a @zara di smetterla di usare il lavoro forzato #ForcedLabourFashion #ZARAStopLying

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La violenza sulle donne non è solo violenza fisica ma anche economica: il nuovo paper della Campagna Abiti Puliti

Pubblichiamo oggi, in occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, l’ultimo position paper internazionale della Clean Clothes Campaign che descrive le condizioni delle lavoratrici tessili nel mondo, formula richieste ai brand e promuove raccomandazioni ai governi.

La violenza sulle donne nel mondo è strutturale, e non si esprime soltanto nella violenza fisica e nelle minacce alla sicurezza personale delle donne. Com’è noto, anche aspetti di carattere economico, quali ad esempio il secolare divario salariale fra uomini e donne, incidono sulla mancata emancipazione delle donne e sulla loro costante dipendenza, intrisa di violenza, da un sistema retto dal potere maschile. Se questo è vero, com'è vero, nei nostri paesi occidentali (inclusa l’Italia), nei paesi il cui sistema economico si basa sulla produzione ed esportazione tessile (a cominciare da quelli del Sud Est asiatico) il fenomeno della violenza di genere sul luogo di lavoro assume dimensioni paurose e inaccettabili. Ciò fa rabbia, se consideriamo che le donne costituiscono la maggioranza della forza lavoro nel tessile, dunque di fatto reggono e sostengono l’economia e il relativo benessere degli Stati a cui appartengono, nonostante siano tenute in una condizione di costante sottomissione. 

Infatti, non troviamo quasi mai le donne al vertice delle fabbriche tessili. L'industria tessile, di fatto, facilita strutturalmente la violenza e le molestie contro le lavoratrici: la maggioranza della forza lavoro è femminile, e comprende spesso donne molto giovani e migranti; i salari sono estremamente bassi, la pressione sulla produzione è alta e le lavoratrici spesso non sono rappresentate, poiché i sindacati esistenti non hanno quasi mai donne al vertice.

Non solo, ma le condizioni di lavoro in cui versano le operaie tessili nei paesi di produzione sono precarie, con contratti a breve termine (il cui potere di rinnovo è in mano ai proprietari delle fabbriche) oppure addirittura a cottimo.  E’ molto difficile far emergere il clima di violenza attorno al lavoro nelle fabbriche tessili: le donne non ammettono di subire violenze (fisiche, verbali, psicologiche) proprio perché dipendono dal proprio lavoro in modo vitale. Se chi ti molesta sessualmente è il tuo capo, e temi di essere licenziata se resisti, o se quel salario irrisorio ti serve a nutrire i tuoi figli, di certo non denuncerai lo stato di violenza in cui vivi. 

Quanto sopra è confermato da un recente studio condotto da Femnet (organizzazione che fa parte della CCC) con il Bangladesh Center for Workers Solidarity e che rivela che il 75% delle 642 persone intervistate (può sembrare un campione ridotto, ma va considerato che condurre studi siffatti non è certamente una passeggiata, proprio a causa della violenza strutturale del contesto) ha avuto esperienze di violenza di genere sul luogo di lavoro, incluse molestie e violenza sessuale.  

Lo ripetiamo: la violenza di genere è anche economica. Le donne ricevono meno soldi per un lavoro di pari valore, sono più spesso oberate di lavoro, sono sottopagate. Ciò implica che molte donne non sono solo costrette a fare gli straordinari, ma hanno anche bisogno di svolgere altri lavori retribuiti (compreso la confezione di capi a cottimo, da casa) per sbarcare il lunario. In molte famiglie, la donna è l'unica che guadagna, e tuttavia, poiché è una donna, ci si aspetta che svolga anche lavori domestici e di cura oltre al lavoro retribuito, comportando un doppio onere. 

I salari di povertà mettono le donne in una situazione così drastica che fa sì che spesso sono costrette a subire altre forme di sfruttamento e violenza, compreso il rischio di sfruttamento sessuale, lavoro minorile e tratta. 

La pandemia di Covid19 ha aggravato in modo evidente la situazione di violenza di genere sistematica che caratterizza la vita dentro e fuori la fabbrica. Come sappiamo, molti brand hanno sospeso ordini e pagamenti in corso, e ciò ha creato la perdita del lavoro per molti lavoratori e lavoratrici della filiera tessile. La quarantena ha aumentato i casi di la violenza domestica e la povertà assoluta. Infine, molti lavori essenziali, e cioè di cura e assistenza, per esempio sanitaria, sono svolti da donne, che si sono pertanto trovate più esposte al contagio.

Cosa possono fare i brand committenti, di solito occidentali, per superare la violenza di genere nelle fabbriche tessili? Innanzitutto, potrebbero rivedere le proprie pratiche di acquisto dai propri fornitori. Il capitalismo impazzito della fast fashion, con le sue cinquanta collezioni all’anno per brand, si sfoga proprio sulla forza lavoro (femminile, appunto). E’ indubbio che le pratiche di acquisto di aziende di marchi internazionali contribuiscono direttamente alla violenza e molestie nelle fabbriche tessili: la direzione spesso minaccia di licenziare se certi gli obiettivi non sono raggiunti e non esita a imporre turni doppi e straordinari, e non è raro che venga usata la violenza fisica per far lavorare le operaie sempre di più. Inoltre, la pressione sui prezzi da parte dei brand che piazzano gli ordini riduce la capacità dei fornitori di pagare adeguatamente la propria forza lavoro, che come sappiamo è principalmente femminile, aumentando la dipendenza economica strutturale delle donne lavoratrici, cosa che rende loro sempre più difficile ribellarsi, in un circolo vizioso che non fa altro che mantenere le lavoratrici soggiogate. 

I brand dovrebbero pagare di più per i loro ordini, non stressare le fabbriche con tempi di consegna e commesse inumani, condurre specifiche due diligence di genere dei propri fornitori così come audit specifici, ed offrire alle operaie delle loro filiere canali e reti appositi perché possano difendersi dalla violenza sul luogo di lavoro.

Ma i comportamenti volontari, per quanto virtuosi, non bastano. I governi, a partire da quelli dell'Unione europea, dovrebbero unirsi in una sola voce contro la violenza di genere sul luogo di lavoro, a cominciare dalla ratifica della Convezione 190 dell’Organizzazione mondiale del lavoro approvata nel 2019 e non ancora ratificata da alcuno stato europeo (gli unici paesi che hanno già ratificato questa Convenzione sono le isole Fiji e l’Uruguay). Il tempo è poco, perché c’è tempo solo fino al 25 giugno 2021. Cosa stiamo aspettando?

Scarica il paper integrale in inglese


Un passo avanti nel confronto sulla trasparenza di filiera in Italia

Servono più imprese disponibili a praticarla e regole efficaci per promuoverla.

La Campagna Abiti Puliti lancia un nuovo position paper sulla Trasparenza per chiedere alle aziende della moda di rendere pubbliche le informazioni sulle loro catene di fornitura. Questo permetterà ai lavoratori, ai consumatori, alle istituzioni, alle organizzazioni della società civile e ai sindacati di riconoscere le situazioni di sfruttamento e intervenire tempestivamente per la loro risoluzione.

Il paper fa il punto sullo stato dell’arte delle pratiche di trasparenza di filiera, fino a cinque anni fa completamente impensabili e oggi praticate, in vari modi, da molte aziende tessili. Propone inoltre alcune riforme legislative a partire dall’Unione europea, e, confidando nel suo potere trainante nei confronti del resto del mondo, sugli aspetti di divulgazione non finanziaria, due diligence sui diritti umani e legislazioni sugli appalti pubblici.

In attesa dell’approvazione di queste riforme, tuttavia, il cambiamento può e deve essere stimolato dagli attori nazionali, in primo luogo dal decisore pubblico. Il paper propone l’introduzione in Italia di condizionalità premianti, nei rapporti fra Stato e aziende, che promuovano l’adozione di pratiche sostenibili e un atteggiamento di responsabilità proattiva delle aziende tessili verso le condizioni di lavoro delle filiere. 

Le aziende tessili stesse potrebbero per prime impegnarsi pubblicamente per la trasparenza di filiera, rendendola anche un elemento di incremento di valore del settore moda italiano. Le dichiarazioni non finanziarie delle grandi imprese dovrebbero informare in modo puntuale sui rischi di violazione dei diritti umani e sulle misure di gestione adottate, come specificato dalla stessa Consob nel suo Richiamo di attenzione del 28 febbraio 2019.

In particolare, la Campagna chiede che le aziende pubblichino, come buona pratica in attesa di una legislazione puntuale, informazioni qualitative accurate e aggiornate sui propri fornitori lungo tutta la filiera di produzione. Non solo dunque informazioni minime quali l’indirizzo del fornitore e il numero di dipendenti (già richieste dal Transparency Pledge, al quale in Italia ad oggi ha aderito completamente solo Benetton, seguita da OVS e Salewa con una adesione invece parziale), ma anche dati che permettano di verificare le condizioni di lavoro che questi fornitori offrono a chi produce gli abiti che vengono venduti in tutto il mondo: presenza di organizzazioni sindacali, politiche di genere, presenza di forza lavoro migrante, trattamenti salariali erogati (quest’ultimo punto, dimostrabile mediante scorporo della componente del costo del lavoro dal prezzo pagato al fornitore). 

Se la trasparenza di filiera fosse una prassi, come consumatori potremmo ad esempio sapere se il cotone di un abito proviene dalla regione autonoma cinese dello Xuar, dove il genocidio della minoranza degli Uiguri, nell’indifferenza mondiale, si sta da tempo intrecciando con lo sfruttamento del lavoro forzato nella produzione tessile, e scegliere di non comprarlo.

Il documento è stato presentato in anteprima ad alcune aziende e altre organizzazioni (Benetton, Salewa, OVS, Gucci, Loro Piana, Armani, Diadora, Banca Etica, Proserpina, Confartigianato Veneto, Fair Wear Foundation, Femca Cisl Nazionale, Filcams CGIL, Movimento Consumatori - ente membro della Campagna Abiti Puliti, Human Rights International Corner, Altis Università Cattolica, Associazione Tessile e Salute, Centro Nuovo Modello di Sviluppo) e a membri delle istituzioni (l’On. Gianni Pietro Girotto, presidente della X Commissione Industria, Commercio e Turismo del Senato, e la Dottoressa Tatiana Esposito, Dirigente Generale Politiche dell’Immigrazione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e una rappresentante del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani) durante una Tavola Rotonda, svolta online, lo scorso 9 novembre, dal titolo “Trasparenza nella Moda 2020: stato dell’arte e nuove pratiche per condotte d’impresa responsabili”, moderata dal direttore di Fondazione Finanza Etica (ente membro della Campagna Abiti Puliti) Simone Siliani. 

Abbiamo apprezzato la volontà di questi marchi di confrontarsi con le organizzazioni e i sindacati su un tema così delicato. Lo consideriamo sicuramente un passo avanti nel dialogo sociale. Ma purtroppo non basta: spesso i sistemi di tracciamento delle filiere sono farraginosi e complicati, i sistemi di certificazione poco trasparenti e non indipendenti. C’è bisogno di un impegno sincero e attivo delle aziende per rendere le catene di fornitura trasparenti e disponibili all’indispensabile scrutinio pubblico” ha dichiarato Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti.

La Commissione europea ha avviato un processo di consultazione finalizzato a formulare, nel corso del 2021, una proposta di direttiva che obbligherà ogni azienda europea ad effettuare verifiche sul rispetto dei diritti umani e del lavoro da parte dei propri fornitori sulle filiere globali. Questa iniziativa legislativa ha un potenziale senza precedenti per modificare i meccanismi di filiera, ma affinché sia davvero efficace e possa avere un impatto concreto sulla responsabilità sociale d’impresa, è necessario che sia all’altezza delle sue ambizioni. La Campagna Abiti Puliti insiste sulla necessità che la direttiva sulla mandatory human rights due diligence contenga anche obblighi di trasparenza e rendicontazione sulla due diligence effettuata, che le informazioni richieste siano anche qualitative e che il processo di due diligence sia continuativo e costante, non limitato al momento dell’acquisizione di un nuovo fornitore.  

La trasparenza è una precondizione anche in campo finanziario affinché i risparmiatori possano compiere scelte consapevoli su dove orientare i propri risparmi. Investitori responsabili sono prima di tutto investitori informati: la trasparenza diviene dunque un vantaggio competitivo per le aziende stesse. La performance di un’azienda è sempre più misurata dagli azionisti e talvolta anche dai mercati non solo attraverso i dati finanziari, ma anche attraverso quelli sociali e ambientali. Le cose cambiano, lentamente ma inesorabilmente; e non basterà un po’ di ethical o green washing a distrarre il cambiamento” ha infine dichiarato Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica.

Siamo convinti che le aziende che hanno deciso di intraprendere un confronto costruttivo con le richieste della Campagna Abiti Puliti abbiano capito che il futuro delle scelte di consumo dipenderà anche dalle azioni concrete che sapranno mettere in campo. Per questo il nostro lavoro di monitoraggio, di cui la piattaforma Fashion Checker è soltanto l’ultima tappa in ordine cronologico, continuerà senza sosta. La pandemia globale di Covid19 impone in ogni caso un ripensamento dei meccanismi globali di produzione di valore: le aziende che operano nella moda possono essere motori di questo cambiamento.


(2020) Position paper sulla Trasparenza di filiera

Pubblichiamo un estratto in lingua italiana del position paper internazionale di ottobre sulla trasparenza di filiera con alcune considerazioni specifiche sull’Italia.

E’ vero infatti che il cambiamento sistematico non può che essere sovranazionale, come la pandemia che stiamo vivendo tristemente ci ricorda. Affinché le soluzioni, sia legislative sia nelle pratiche, abbiano un impatto efficace, devono essere condivise e praticate a livello globale (almeno a partire dall’Unione europea e confidando nel suo potere trainante).

In attesa dell’approvazione di queste riforme, tuttavia, il cambiamento può e deve essere stimolato dagli attori nazionali, in primo luogo dal decisore pubblico. Il paper propone l’introduzione in Italia di condizionalità premianti, nei rapporti fra Stato e aziende, che promuovano l’adozione di pratiche sostenibili e un atteggiamento di responsabilità proattiva delle aziende tessili verso le condizioni di lavoro delle filiere.

Le aziende tessili stesse potrebbero per prime impegnarsi pubblicamente per la trasparenza di filiera, rendendola anche un elemento di incremento di valore del settore moda italiano. Le dichiarazioni non finanziarie delle grandi imprese dovrebbero informare in modo puntuale sui rischi di violazione dei diritti umani e sulle misure di gestione adottate, come specificato dalla stessa Consob nel suo Richiamo di attenzione del 28 febbraio 2019.

Interrogarsi sulla operabilità della trasparenza di filiera ha senso in vista delle riforme sulla corporate governance che la Commissione europea proporrà nel corso del 2021. All’interno di queste proposte di riforma (che includono anche una revisione della direttiva sulla rendicontazione non finanziaria sopra accennata), gli obblighi di dovuta diligenza sul rispetto dei diritti umani da parte dei fornitori (la mandatory human rights due diligence) costituiscono una parte centrale. La human rights due diligence consiste nel processo di verifica e raccolta di informazioni circa il rispetto dei diritti dei lavoratori da parte di ciascun fornitore di materiali o prodotto finito di cui l’azienda si avvale per produrre i propri capi. Tale processo deve avvenire al momento di acquisizione di un nuovo fornitore, ma anche dopo in modo continuativo.

E’ fondamentale che la regolamentazione includa anche esplicitamente obblighi di pubblicazione delle informazioni raccolte nel processo di due diligence. Raccogliere queste informazioni è efficace solo se sono rese accessibili, così da permettere lo scrutinio pubblico sull’operato di una impresa, anche da parte dei lavoratori, e la verifica sul rispetto della disciplina stessa (l’enforcement). Se il processo di due diligence rimane all’interno dell’azienda, non vi sarebbe raggiungimento di standard e non si supererebbero gli ostacoli attuali derivanti dalla volontarietà delle pratiche. E la direttiva finirebbe per cambiare tutto per non cambiare niente.




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L'Accordo per il Bangladesh può continuare ad esistere?

In una nota pubblicata questa settimana, i firmatari in qualità di testimoni dell’Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh esprimono la loro preoccupazione per l’effettiva possibilità che questo programma possa continuare a funzionare in maniera efficace.

Il Ready-Made-Garment Sustainability Council (RSC), che dal Giugno 2020 ha preso in carico attività e competenze dell’Accordo, non è stato ancora in grado di dimostrare di poter garantire in modo credibile che i firmatari ne rispettino gli obblighi.

Nel 2013, poche settimane dopo il crollo del Rana Plaza, marchi, distributori, sindacati globali e locali hanno stipulato una prima versione dell’Accordo vincolante per rendere più sicure le fabbriche di abbigliamento del Bangladesh, notoriamente pericolose. Nel 2018, alla scadenza, tale intesa è stata sostituita da un nuovo patto, sempre vincolante, ma subito minato da procedimenti giudiziari avviati da un proprietario di una fabbrica scontento e sostenuti dal governo e dall'associazione dei datori di lavoro dell'abbigliamento del Bangladesh. Nel maggio 2019, è stato deciso che l'Accordo avrebbe trasferito le sue funzioni a una nuova organizzazione locale, l'RSC. Sebbene quest’ultima sia stata istituita per essere, in futuro, l'agente esecutivo incaricato di assistere i marchi nell'adempimento dei loro obblighi, non è mai stato concordato che avrebbe sostituito l'Accordo, che pertanto resta in vigore e invariato almeno fino al 2021.

Nel frattempo, è arrivata la pandemia di Covid-19 che, di fatto, ha ostacolato questa transizione. Gli appelli dei difensori dei diritti dei lavoratori e della sicurezza a rinviare il processo sono stati ignorati, portando a un passaggio frettoloso e sconsiderato verso un organismo che non era preparato ad adempiere alle sue responsabilità immediate per salvaguardare la sicurezza dei lavoratori. Addirittura l’RSC ha iniziato a operare il 1° giugno senza che i vertici dell’organizzazione si fossero ancora insediati.

I quattro firmatari, in qualità di testimoni dell'Accordo - Clean Clothes Campaign, International Labour Rights Forum / Global Labour Justice, Maquila Solidarity Network e Worker Rights Consortium - temono che questa transizione affrettata e l'influenza dei datori di lavoro sul programma minino il progresso verso la sicurezza delle fabbriche in Bangladesh.

Timori, peraltro, aggravati dal ritardo nel raggiungimento di un’intesa tra il segretariato dell’Accordo ancora in vigore con sede nei Paesi Bassi, e l'RSC, per monitorare il rispetto degli obblighi contrattuali. Le preoccupazioni si concentrano in particolare su clausole vitali per la credibilità e l'efficacia dell'Accordo stesso, come il proseguimento con successo del meccanismo di reclamo per i problemi sulla sicurezza, l'impegno per la trasparenza e solidi meccanismi di applicazione, la rapida riparazione dei rischi e l'avvio di un programma di sicurezza per le caldaie.

Le nostre organizzazioni si augurano vivamente che l'RSC abbia successo nell'adempiere agli obblighi delineati nell'Accordo e continueranno a monitorare e pubblicare aggiornamenti sui progressi del suo lavoro. Se entro la fine di novembre 2020, sei mesi dopo che ha assunto le proprie funzioni, l'RSC non avrà fugato queste preoccupazioni, le organizzazioni raccomanderanno ai firmatari di individuare un altro organismo per garantire il rispetto degli obblighi contrattuali e rendere sicure le fabbriche del Bangladesh.

L'Accordo è il miglior esempio nell'industria globale dell'abbigliamento di come le aziende, i lavoratori e le parti interessate della società civile possano unirsi e apportare cambiamenti significativi attraverso un impegno vincolante, credibile e trasparente. Gli elementi di questo successo storico devono essere preservati in futuro per evitare che i lavoratori siano nuovamente esposti a rischi mortali.

Leggi la nota completa


Spezziamo le catene: la trasparenza nelle attuali filiere tessili globali

La Clean Clothes Campaign ha pubblicato il suo ultimo position paper internazionale

E’ stato pubblicato oggi l’ultimo position paper sulla trasparenza aziendale nelle filiere tessili globali a cura della Clean Clothes Campaign. Facendo seguito al rapporto del 2016, il position paper illustra lo stato delle pratiche di trasparenza aziendale nel settore dell'abbigliamento globale e propone soluzioni per promuovere pratiche di trasparenza efficaci. 

Sono state diverse le iniziative intraprese negli ultimi quattro anni sulla trasparenza di filiera. Il 2016 è stato l'anno del Transparency Pledge, sostenuto da una coalizione internazionale di nove organizzazioni per i diritti umani e del lavoro. Come best practice, il Transparency Pledge rappresenta uno standard minimo, poiché richiede alle aziende di abbigliamento di divulgare solo alcune informazioni specifiche sui fornitori della loro catena. Sebbene limitato nella sua efficacia, il Transparency Pledge ha modificato il modo in cui le aziende guardano agli interessi delle parti interessate e alla gestione delle informazioni, poiché fino a pochi anni prima nessuna delle principali aziende (di abbigliamento) ha mai divulgato l'elenco e l'ubicazione dei propri fornitori. Ad oggi, 76 aziende globali di abbigliamento si sono allineate, sono vicine all'allineamento o si sono impegnate ad allinearsi alla promessa.

Negli ultimi quattro anni, una serie di iniziative multi-stakeholder sono stati anche definiti a livello locale, regionale o globale, promuovendo best practises e standard etici minimi. L'Unione Europea ha approvato la Direttiva sull'informativa non finanziaria applicabile alle grandi imprese, recepita dagli Stati membri nel 2016, ed alcuni stati membri dell’Unione europea hanno approvato alcune leggi sulla due diligence di filiera.

Queste iniziative sono lodevoli, ma hanno un impatto limitato. Le iniziative multi-stakeholder  sono volontarie e spesso guidate proprio dalle imprese. Le informazioni pubblicate ai sensi del Transparency Pledge sono meramente quantitative e non consentono alle parti interessate di valutare pienamente le condizioni di lavoro lungo la catena.

L'obiettivo della trasparenza è consentire agli stakeholders l’accesso alle informazioni e facilitare la collaborazione con il marchio e l'azione collettiva al fine di fermare, prevenire, mitigare e rimediare agli abusi sul lavoro nella catena di fornitura.

Pertanto, affinché le pratiche di trasparenza siano significative, l'informativa deve consentire alle parti interessate di "lavorare" con i dati pubblicati. Ciò richiede che le informazioni includano dati qualitativi sui fornitori come la presenza di sindacati, informazioni sulla forza lavoro (ripartizione per genere, per quote di lavoratori e lavoratrici migranti), pratiche di acquisto, meccanismi di reclamo. Come dimostra il Fashion Checker, le pratiche di trasparenza su questi temi rimangono sotto ogni aspetto. Se anche le aziende hanno iniziato a pubblicare alcuni dati,  le pratiche di reporting non sono standardizzate, e ciò non consente agli operatori di lavorare con i dati pubblicati. 

Il position paper propone un cambiamento verso un sistema in cui la piena trasparenza delle informazioni sia obbligatoria per tutti i marchi di abbigliamento, rivenditori e fornitori e include informazioni sul processo di produzione e sui luoghi, sugli aspetti sociali -inclusi i livelli salariali- e sul ciclo di vita del prodotto. Inoltre, il paper propone una serie di richieste di riforme politiche da attuare a livello europeo, sugli aspetti di divulgazione non finanziaria, due diligence sui diritti umani e legislazioni sugli appalti pubblici.

Il position paper è disponibile in inglese qui

 


Mettiamo fine al genocidio uiguro

Il Congresso degli Stati Uniti ha messo al bando i prodotti a rischio di lavoro forzato, e l’Europa?

Milano - Nella giornata conclusiva della settimana della moda, Milano si è risvegliata tappezzata di manifesti con le immagini, ispirate a note pubblicità di Nike, Uniqlo e Zara, create dall’artista uiguro Yettesu: una chiara denuncia dell’uso di lavoro forzato uiguro da parte dei marchi della moda.

La Campagna Abiti Puliti, insieme ad oltre 200 organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani e lavorativi, ha lanciato una campagna End Uyghur Forced Labour, chiedendo ai marchi della moda e ai loro distributori di porre fine al lavoro forzato nella Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang (conosciuta agli uiguri come il Turkestan Orientale) e non essere più complici delle violazioni dei diritti umani perpetrate dal governo cinese. Le associazioni hanno chiesto in particolare ai brand di interrompere tutti i rapporti con le fabbriche coinvolte in pratiche di lavoro forzato e terminare tutti gli ordini di forniture provenienti dalla Regione Uigura, dal cotone ai prodotti finiti entro 12 mesi.

Il governo cinese ha imprigionato dagli 1 agli 1,8 milioni fra uiguri e turco musulmani in campi di detenzione e lavoro forzato: si tratta del più grande internamento di una minoranza etnica e religiosa dalla Seconda Guerra Mondiale. Le atrocità nella Regione Uigura – torture, separazioni forzate delle famiglie, sterilizzazione obbligatoria delle donne uigure – sono riconosciute come crimini contro l’umanità. Elemento centrale della strategia del governo per dominare il popolo uiguro è un vasto sistema di lavoro forzato che colpisce fabbriche e fattorie nella regione e in tutta la Cina, sia all’interno che all’esterno dei campi di internamento.

Una buona notizia è arrivata dalla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti che, con l’approvazione del The Uyghur Forced Labour Prevention Act (H. R. 6210), ha stabilito la presunzione legale che qualsiasi prodotto realizzato nella Regione Uigura, o con materiale proveniente dalla zona, sia stato confezionato attraverso l’uso di lavoro forzato. Le imprese avranno l’onere di dimostrare il contrario, altrimenti l’importazione sarà considerata illegale e il prodotto non potrà entrare nel Paese. Il Congresso americano ha lanciato un messaggio chiaro ai governi di tutto il mondo. Il divieto del lavoro forzato è un valore fondamentale in Europa, nonché un diritto inderogabile della Carta dei diritti fondamentali dell'UE: gli Stati europei hanno la responsabilità di attuare lo stesso livello di trasparenza, controllo e diligenza. È praticamente certo che in Europa entrino prodotti intrisi di lavoro forzato cui sono sottoposti gli uiguri nello Xinjiang, anche a causa della scarsa trasparenza dei dati doganali, attualmente indisponibili allo scrutinio pubblico.

Il 20% del cotone prodotto nel mondo viene realizzato sfruttando il lavoro forzato della minoranza etnica uigura in Cina. Non possiamo più negare la realtà del genocidio nelle catene di fornitura della moda. La Model Alliance lancia un appello a tutti gli stilisti perché guardino oltre l’arte e la creatività del loro lavoro e, pensando alle condizioni in cui vengono realizzati i materiali che utilizzano, si chiedano se sono complici della repressione di un intero popolo” ha dichiarato Ambra Batilana-Gutierrez, membro della Leadership Council della Model Alliance.

Spesso ci chiediamo come possano costare così poco i nostri vestiti: la risposta sta nei costi bassissimi del cotone derivanti dallo sfruttamento di un intero popolo della Regione Uigura costretto a lavorare sotto minaccia e coercizione. Le aziende globali non dovrebbero comportarsi così. Freedom United unisce oltre 50.000 persone, a cui se ne aggiungono migliaia ogni giorno, per dire basta a tutto questo” ha dichiarato Joanna Ewart-James, Executive Director, Freedom United

La Coalizione per fermare il lavoro forzato nella Regione Uigura chiede ai marchi multinazionali e ai loro distributori di:

  • Interrompere le forniture di cotone, filati, tessuti e prodotti finiti dalla Regione Uigura. Visto che il cotone e i filati della Regione vengono utilizzati per produrre abiti in Cina e molti altri Paesi, i marchi devono imporre ai propri fornitori di non utilizzarli nelle loro produzioni
  • Interrompere le relazioni con le aziende implicate nell’uso di lavoro forzato – quelle che operano nella Regione Uigura e hanno accettato sussidi e/o manodopera dal governo cinese. Ad esempio: Esquel Group basato ad Hong Kong e le aziende cinesi con sede fuori dalla Regione Uigura, come Huafu Fashion Co., Lu Thai Textile Co., Jinsheng Group (società madre della Litai Textiles/Xingshi), Youngor Group e Shandong Ruyi Technology Group Co.
  • Impedire a qualsiasi fornitore fuori dalla Regione Uigura di utilizzare lavoratori uiguri o turco musulmaniattraverso lo schema cinese del lavoro forzato

I marchi della moda si riforniscono di milioni di tonnellate di cotone e filato dalla Regione Uigura. Circa 1 abito in cotone su 5 venduto nel mondo contiene fibra proveniente da questa zona. I brand stanno colpevolmente sostenendo un sistema di repressione perpetrato attraverso campi di internamento e il genocidio del popolo uiguro. E’ ora che i consumatori facciano sentire la propria voce per contribuire a porre fine a questa inaccettabile situazione. Ci aspettiamo dai marchi italiani coinvolti come Zegna, una immediata presa di posizione in merito” dichiara Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti.“

La gravissima situazione di sfruttamento e violazione dei diritti fondamentali degli uiguri mette ancora una volta in luce la totale inefficacia degli approcci volontari e l’incapacità delle imprese multinazionali di monitorare e garantire il rispetto dei diritti nelle loro catene di fornitura. È sempre più urgente che l’UE addotti una direttiva ambiziosa sulla dovuta diligenza sui diritti umani, per obbligare le imprese multinazionali ad adottare politiche efficaci a garantire il rispetto dei diritti umani e rispondere degli abusi che avvengono nelle loro filiere globali.

È inoltre fondamentale che i paesi dell’UE adottino un regime di trasparenza e pubblicità delle informazioni doganali, in modo da consentire lo scrutinio pubblico dei rapporti commerciali che le imprese intrattengono con aree ad alto rischio dal punto di vista della violazione dei diritti fondamentali.

Info utili

    • Chiediamo ai consumatori di sostenere questa campagna firmando la petizione: freedomunited.org/advocate/free-uyghurs.
    • Inchieste e report affidabili da agenzie giornalistiche, think tank, e gruppi impegnati nella difesa dei diritti umani hanno collegato questi marchi e distributori a casi specifici di lavoro forzato uiguro: Abercrombie & Fitch - adidas - Amazon - Badger Sport (Founder Sport Group) - C&A (Cofra Holding AG) - Calvin Klein (PVH) - Carter’s - Cerruti 1881 (Trinity Limited) - Costco - Cotton On - Dangerfield (Factory X Pty Ltd) - Esprit (Esprit Holdings Ltd.) - Fila (FILA KOREA Ltd) - Gap - H&M - Hart Schaffner Marx (Authentic Brands Group) - Ikea (Inter IKEA Systems B.V.) - Jack & Jones (Bestseller) - Jeanswest (Harbour Guidance Pty Ltd) - L.Bean - Lacoste (Maus Freres) - Li-Ning - Mayor - Muji (Ryohin Keikaku Co., Ltd.) - Nike - Patagonia - Polo Ralph Lauren (Ralph Lauren Corporation) - Puma - Skechers - Summit Resource International (Caterpillar) - Target Australia (Wesfarmers) - The North Face (VF) * - Tommy Hilfiger (PVH) - Uniqlo (Fast Retailing) - Victoria’s Secret (L Brands) - Woolworths (Woolworth Corporation, LLC.) - Zara (Inditex) - Zegna











(2020) REPORT: Fuori dall’ombra: riflettori puntati sullo sfruttamento nell’industria della moda

La Clean Clothes Campaign lancia il nuovo report “Fuori dall’ombra: riflettori puntati sullo sfruttamento nell’industria della moda”. La ricerca analizza le informazioni raccolte da una parte attraverso questionari inviati a 108 marchi e rivenditori di 14 Paesi, e dall’altra attraverso interviste e analisi delle buste paga di 490 lavoratori e lavoratrici di 19 diversi stabilimenti in Cina, India, Indonesia, Ucraina e Croazia. Tutti i dati sono pubblicati sulla nuova piattaforma FashionChecker.org. Tra i marchi italiani contattati troviamo Benetton, Calzedonia, Falc, Geox, Gucci, OVS, Salewa.

I risultati dell’inchiesta rivelano innanzitutto il netto contrasto tra le affermazioni e le grandi promesse dei marchi della moda e la realtà affrontata dai lavoratori nei Paesi di produzione. La ricerca sui marchi mostra come nessun brand paghi un salario dignitoso ai propri lavoratori nelle catene di fornitura; la ricerca sul campo fa luce ancora una volta sulle pessime condizioni di lavoro che si nascondono dietro i numeri.

I salari di povertà continuano ad essere un problema sistemico nell'industria dell'abbigliamento, spesso nascosto in profondità all'interno di catene di fornitura complesse e segrete. Una situazione ulteriormente peggiorata durante la pandemia di Covid-19, quando marchi come Arcadia, Bestseller, C&A, Primark e Walmart (Asda) hanno deciso di annullare ordini e imporre sconti ai fornitori, lasciando così i lavoratori senza gran parte dei salari. A questo si collega una mancanza quasi totale di trasparenza in tutto il settore. Di fatto, sebbene i marchi facciano grandi promesse di sostenibilità e produzione etica, dietro le quinte esercitano un immenso potere di scelta tra economie a basso salario.

Come se non bastasse, la ricerca sul campo rivela la lotta che i lavoratori devono affrontare per guadagnare questi salari da fame. Nonostante gli straordinari eccessivi di oltre 100 ore al mese, solo due lavoratori intervistati guadagnavano un importo pari al salario vivibile, ma facendo due lavori ciascuno.

"Il mio lavoro è estenuante. Ogni giorno devo fare 18 ore. Molte lavoratrici non riescono a raggiungere l'obiettivo di produzione dalla fabbrica, così vengono licenziate. Devo lavorare sodo per raggiungere l'obiettivo e mantenere il mio lavoro" ci ha raccontato una lavoratrice in Cina.

Le buste paga spesso hanno formati molto complessi, rendendo difficile comprendere la ripartizione o contestare le inesattezze. In India e Indonesia tali informazioni sono così inaffidabili che molti lavoratori non sanno nemmeno in che modo ciò che ricevono si collega a ciò che è sulla loro busta paga.

In un settore alimentato prevalentemente dal lavoro femminile, la ricerca evidenzia poi una discriminazione di genere nei salari. Ad esempio, in India le donne guadagnano in media solo l'88% di quello che guadagnano gli uomini. Nella nostra ricerca sui marchi, nessuna azienda intervistata ha fornito prove o informazioni pubbliche sui divari retributivi di genere complessivi nella propria catena di fornitura.

Attualmente, ciò che accade in fabbrica rimane in fabbrica. Questo deve cambiare, perché ciò che accade in fabbrica ha pesanti ripercussioni sulla vita delle persone. I salari da fame pagati ai lavoratori dell'abbigliamento sono inaccettabili” ha dichiarato Priscilla Robledo della Campagna Abiti Puliti.

È ora che marchi e governi intraprendano azioni urgenti per soddisfare le richieste della Clean Clothes Campaign di maggior trasparenza e utilizzo di benchmark salariali per stabilire paghe dignitose in tutto il settore.

Note

  • il rapporto “Fuori dall’ombra: riflettori puntati sullo sfruttamento nell’industria della moda” è parte del progetto Fashion Checker della Clean Clothes Campaign e analizza i dati pubblicati sulla piattaforma www.FashionChecker.org
  • Fashion Checker mette in luce la discrepanza tra ciò che i marchi dicono di fare e la realtà che vivono i lavoratori nelle loro catene di fornitura.
  • Fashion Checker chiede che i marchi garantiscano il pagamento di un salario dignitoso ai lavoratori nelle loro catene di fornitura e sostiene che la trasparenza sia un mezzo cruciale affinché i marchi committenti rendano conto del loro operato e i lavoratori ricevano un salario dignitoso, cioè un diritto umano.
  • Fashion Checker è stato realizzato nell’ambito di un progetto triennale co-finanziato dalla Commissione Europea (DG DEVCO). Coinvolge 17 partner CCC provenienti da tutta Europa (Paesi Bassi, Belgio, Germania, Austria, Croazia, Finlandia, Italia, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Svezia) nonché partner da Indonesia, Cina e India.



https://www.youtube.com/watch?v=qIo7xhPWJS4


Ali Enterprises: dopo 8 anni non c’è ancora piena giustizia per le vittime

8 anni dopo l’incendio che ha colpito la fabbrica tessile in Pakistan uccidendo oltre 250 lavoratrici e lavoratori, le loro famiglie stanno ancora lottando per il riconoscimento delle responsabilità di quella tragedia. In questo giorno, i nostri pensieri vanno a queste persone e alla loro battaglia. La società italiana di auditing sociale RINA ha l’occasione unica per intervenire e rimediare agli errori commessi.

L’11 settembre 2012, quando l’incendio è divampato nella fabbrica Ali Enterprises a Karachi, molti lavoratori non hanno avuto la possibilità di scappare e mettersi in salvo. Una simulazione computerizzata realizzata dal gruppo di ricerca Forensic Architecture mostra chiaramente come la fabbrica fosse insicura. Un’applicazione corretta delle norme pakistane e internazionali in materia di sicurezza avrebbe potuto salvare centinaia di vite. Tuttavia né i proprietari della fabbrica, né il suo principale cliente, il distributore tedesco KiK, sono stati incentivati a migliorare le condizioni di sicurezza della fabbrica, visto che la stessa era stata certificata come sicura in conformità allo standard Social Accountability International SA8000dall’azienda italiana di auditing RINA. La certificazione era stata rilasciata solo alcune settimane prima dell’incendio.

Il sistema di auditing sociale in vigore, eseguito in questo caso da RINA, non è riuscito a proteggere i lavoratori della fabbrica Ali Enterprises a Karachi, così come tanti lavoratori in altre fabbriche prima e dopo quella tragedia. È un sistema che trae profitto dalla necessità delle aziende di dimostrare che stanno facendo "qualcosa" nel campo del monitoraggio dei luoghi di lavoro, proteggendo quindi le aziende piuttosto che i lavoratori. Finora attraverso le vie legali non si è riusciti a costringere le società di auditing a ritenersi responsabili delle loro mortali rassicurazioni.

Nel 2018, i familiari delle vittime, insieme a una coalizione di Ong e sindacati pakistani ed europei, hanno presentato una denuncia contro RINA presso il punto di contatto nazionale (PCN) dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) al Ministero per lo Sviluppo economico italiano. Nel rispetto delle Linee guida OCSE per le imprese multinazionali, cui RINA dovrebbe attenersi, è stato chiesto all’azienda di pubblicare il rapporto originale dell’audit, porre rimedio all’accaduto e porgere le proprie scuse alle famiglie. In questo giorno di commemorazione chiediamo a RINA, in attesa dell’annuncio degli esiti di questa procedura, di rimediare agli errori compiuti in passato e iniziare a garantire una qualche forma di giustizia per le famiglie delle vittime.

La fabbrica in fiamme è diventata una trappola mortale per mio figlio. Nessuno potrà mai rimediare per questa perdita. Tuttavia i proprietari della Ali Enterprises, KiK come cliente e RINA come certificatore italiano dovrebbero essere ritenuti responsabili per la sua morte” ha dichiarato Saeeda Khatoon, presidente dell Ali Enterprises Factory Fire Affectees Association.

Le famiglie hanno lottato per oltre 4 anni per ricevere qualche forma di risarcimento a lungo termine dal distributore tedesco KiK, principale cliente della fabbrica. Un tentativo per costringere l’azienda ad assumersi le sue responsabilità in un tribunale tedesco è fallito. Così come è fallito con RINA in un tribunale italiano. Questo vuol dire che è ora di scrivere nuove regole: le società multinazionali devono essere legalmente responsabili del loro comportamento nelle catene di fornitura, a cominciare dall'attenzione per la sicurezza nelle fabbriche tuttora mancante in Paesi come il Pakistan. Ciò può avvenire attraverso una dovuta diligenza obbligatoria sui diritti umani, come proposto dal commissario dell'UE Didier Reynders o una legislazione sulle catene di fornitura, come discusso in Germania, oltre a implementare una regolamentazione che preveda la responsabilità legale delle società di auditing sociale. Il tempo è scaduto, bisogna agire ora.


(2020) REPORT: Stipendi negati in pandemia

Milioni di lavoratori e lavoratrici tessili nel mondo non ricevono il loro salario dall’inizio della pandemia di Covid-19.

Il report Stipendi negati in pandemia analizza i mancati pagamenti e i tagli salariali avvenuti ai danni dei lavoratori tessili nei mesi di Marzo, Aprile e Maggio in seguito all’imposizione di aspettative non retribuite, a tagli pubblici, all’interruzione dei rifornimenti e alla cancellazione di ordini da parte dei brand. Sulla base di dati raccolti sul campo e di altre ricerche pubblicate, l’inchiesta rivela che in tutti i Paesi del sud e sud-est asiatico i lavoratori hanno ricevuto strutturalmente il 38% in meno di quanto gli spettasse. In alcune delle regioni dell’India, si supera addirittura il 50%. Rapportando questi numeri all'industria mondiale dell'abbigliamento, escludendo la Cina, un'ipotesi prudente attesta tra 3.19 e 5,78 miliardi di dollari la cifra dei salari dovuti ai lavoratori.

I membri del nostro sindacato vivono già con salari di povertà, meno di un terzo di un salario vivibile. Non hanno alcuna possibilità di accantonare risparmi per una crisi come questa, né hanno una rete di sicurezza sociale su cui fare affidamento. Anche un piccolo taglio salariale significa fare delle scelte tra beni di prima necessità, come portare a casa abbastanza cibo per tutti o pagare l'affitto in tempo. I lavoratori dell'abbigliamento dovranno affrontare la miseria molto prima dei loro datori di lavoro o dei marchi per cui producono: è ora che quest’ultimi si facciano carico delle loro responsabilità” ha dichiarato Khalid Mahmood, del Labour Education Foundation in Pakistan

David Hachfeld, di Public Eye/Clean Clothes Campaign Switzerland, ha aggiunto: “A causa della mancanza di molti dati, abbiamo dovuto fare una stima e limitare la nostra ricerca al sud e sud-est asiatico. Non c’è alcuna ragione comunque per pensare che la situazione sia tanto diversa negli altri Paesi. Anche se le nostre conclusioni sono al ribasso, i numeri sono già impressionanti. In Indonesia e in Bangladesh sono stati trattenuti rispettivamente oltre 400 e 500 milioni di dollari di salari”.

La Campagna Abiti Puliti, insieme ai partner della Clean Clothes Campaign, chiede ai marchi e ai distributori di assumersi le loro responsabilità garantendo ai propri lavoratori e lavoratrici il versamento di tutti i salari che gli spettano in accordo con il diritto del lavoro e gli standard internazionali. “Chiediamo che questo impegno sia pubblico attraverso la sottoscrizione di una “assicurazione salariale”. Questo significa utilizzare la propria capacità di influenza quali committenti delle catene globali di fornitura per sollecitare fondi, fornire contributi diretti e collaborare con altri attori - ad esempio con l’ILO - per garantire i pagamenti dovuti ai lavoratori interessati dalla crisi” aggiunge Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti. Dal lancio di questa proposta lo scorso giugno, la Clean Clothes Campaign ha già contattato decine di marchi, iniziando in alcuni casi un dialogo costruttivo.

Christie Miedema, della Clean Clothes Campaign ha dichiarato: “Accogliamo con favore le azioni intraprese da alcuni marchi in questi mesi. Stiamo chiedendo a ciascuno individualmente un impegno pubblico per evitare che in una situazione in cui tutti hanno delle responsabilità, nessuno se ne faccia carico aspettando che sia qualcun altro ad occuparsene. Solo così saremo in grado di porre fine alla malsana abitudine di scaricare i rischi e le responsabilità lungo la catena di fornitura lasciando che alla fine a pagare siano sempre i lavoratori”.













Basta lavoro forzato degli Uiguri e dei turco musulmani

72 gruppi impegnati nella difesa dei diritti degli Uiguri, insieme ad oltre 100 organizzazioni della società civile e sindacati, chiedono ai marchi della moda e ai loro distributori di porre fine al lavoro forzato nella Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang e non essere più complici delle violazioni dei diritti umani perpetrate dal governo cinese. Le associazioni chiedono in particolare ai brand di interrompere tutti i rapporti con le fabbriche coinvolte in pratiche di lavoro forzato e terminare tutti gli ordini di forniture provenienti dalla Regione Uigura, dal cotone ai prodotti finiti, entro 12 mesi.

Ora è tempo che marchi, governi e organismi internazionali agiscano concretamente: basta vuote dichiarazioni. Per porre fine alla schiavitù e agli abusi nei confronti delle popolazioni Uigure, Kazake e turco musulmane da parte del governo cinese, i marchi devono garantire che le loro catene di fornitura non siano collegate a queste atrocità. L’unico modo per assicurare che non traggano profitto da questo sfruttamento è abbandonare la regione e terminare ogni tipo di relazione con i fornitori che sostengono questo sistema” ha dichiarato Jasmine O’Connor OBE, CEO di Anti-Slavery International.

Il governo cinese ha imprigionato dagli 1 agli 1,8 milioni fra uiguri e turco musulmani in campi di detenzione e lavoro forzato: si tratta del più grande internamento di una minoranza etnica e religiosa dalla Seconda Guerra Mondiale. Le atrocità nella Regione Uigura – torture, separazioni forzate delle famiglie, sterilizzazione obbligatoria delle donne uigure – sono ampiamente riconosciute come crimini contro l’umanità. Elemento centrale della strategia del governo per dominare il popolo uiguro è un vasto sistema di lavoro forzato, che colpisce fabbriche e fattorie nella regione e in tutta la Cina, sia all'interno che all'esterno dei campi di internamento.

Gulzira Auelkhan, una donna kazaka detenuta in un campo di internamento e poi costretta al lavoro forzato in una fabbrica ci ha riferito: “La fabbrica di vestiti non era diversa dal campo di internamento. C’erano polizia, telecamere, non potevi andare da nessuna parte”.

Nonostante l’indignazione globale per gli abusi, i principali marchi della moda rafforzano esponenzialmente il proprio potere economico e presenza sul mercato, macinando profitti approfittando di questa situazione. I brand continuano a rifornirsi di milioni di tonnellate di cotone e filato dalla Regione Uigura. Circa 1 abito in cotone su 5 venduto nel mondo contiene materiale proveniente da questa zonaed è praticamente certo che molti di questi prodotti siano ottenuti attraverso il lavoro forzato.

I marchi multinazionali dovrebbero chiedersi se si sentono a loro agio nel contribuire alle politiche di genocidio contro il popolo uiguro. Finora sono riusciti a sottrarsi alle accuse di complicità: ma ora basta” ha dichiarato Omer Kanat, Executive Director del Uyghur Human Rights Project.

Le multinazionali più importanti hanno dichiarato di non tollerare il lavoro forzato nelle loro catene di fornitura, ma ancora non hanno spiegato come intendano mettere fine a queste pratiche e continuano a fare affari sulla pelle degli Uiguri e dei turco musulmani in Cina.

I lavoratori forzati nella Regione Uigura rischiano violente rappresaglie quando denunciano la loro situazione. Il clima generale rende impossibile eseguire indagini preventive su una azienda e permette ai marchi di continuare gli abusi” ha dichiarato Scott Nova, Executive Director del Worker Rights Consortium.

Vista la mancanza di influenza e l’incapacità di prevenire e mitigare gli abusi, i marchi e i distributori devono fare tutto ciò che possono per mettere fine alle relazioni commerciali con la Regione Uigura e assumersi le proprie responsabilità nel rispetto dei diritti umani così come previsto dai Principi Guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani” ha dichiarato David Schilling, Senior Program Director of Human Rights presso l’Interfaith Center on Corporate Responsibility.

Ha ancora un senso la responsabilità di impresa? Se sì, i marchi della moda devono agire subito,      quando giornalisti indipendenti, esperti delle Nazioni Unite, organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani riferiscono gravi abusi” ha dichiarato Jennifer (JJ) Rosenbaum, Executive Director del Global Labor Justice - International Labor Rights Forum. “I principi su imprese e diritti umani richiedono che i marchi smettano subito di utilizzare cotone e lavoro della Regione Uigura nelle loro catene di fornitura”.

Questa è l’ennesima dimostrazione che è scaduto il tempo per generiche dichiarazioni di principio basate su un approccio volontario. Servono norme vincolanti per regolare la condotta delle imprese in materia di diritti umani e imporgli di attuare politiche efficaci di dovuta diligenza per identificare e prevenire gli abusi derivanti dalle loro attività economiche lungo la catena di fornitura. E quando tali violazioni emergono in tutta la loro gravità, di attuare azioni rimediali efficaci ed immediate” dichiara Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti, coalizione italiana della CCC.




Le nostre richieste

Le organizzazioni chiedono ai marchi multinazionali e ai loro distributori di:

  • Interrompere le forniture di cotone, filati, tessuti e prodotti finiti dalla Regione Uigura. Visto che il cotone e i filati della Regione vengono utilizzati per produrre abiti in Cina e molti altri Paesi, i marchi devono imporre ai propri fornitori di non utilizzarli nelle loro produzioni
  • Interrompere le relazioni con le aziende implicate nell’uso di lavoro forzato – quelle che operano nella Regione Uigura e hanno accettato sussidi e/o manodopera dal governo cinese. Ad esempio: Esquel Group basato ad Hong Kong e le aziende cinesi basate fuori dalla Regione Uigura, comeHuafu Fashion Co., Lu Thai Textile Co., Jinsheng Group (società madre della Litai Textiles/Xingshi), Youngor Group e Shandong Ruyi Technology Group Co.
  • Impedire a qualsiasi fornitore fuori dalla Regione Uigura di utilizzare lavoratori uiguri o turco musulmani forniti attraverso lo schema cinese del lavoro forzato
  • Nota: intraprendere queste azioni non preclude per i brand la possibilità di rifornirsi altrove in Cina se il cotone e i filati non provengono dalla Regione Uigura e i fornitori non usano lavoro forzato di uiguri e turco musulmani

I marchi coinvolti

Praticamente tutta l’industria della moda è coinvolta nell’uso di lavoro forzato uiguro e turco musulmano. Inchieste e report affidabili dell’Associated Press, Australian Broadcasting Corporation, Australian Strategic Policy Institute, Axios, Congressional-Executive Commission on China, Global Legal Action Network e del Wall Street Journal hanno collegato questi marchi e distributori a casi specifici di lavoro forzato uiguro:

  • Abercrombie & Fitch
  • adidas
  • Amazon
  • Badger Sport (Founder Sport Group)
  • C&A (Cofra Holding AG)
  • Calvin Klein (PVH)
  • Carter’s
  • Cerruti 1881 (Trinity Limited)
  • Costco
  • Cotton On
  • Dangerfield (Factory X Pty Ltd)
  • Esprit (Esprit Holdings Ltd.)
  • Fila (FILA KOREA Ltd)
  • Gap
  • H&M
  • Hart Schaffner Marx (Authentic Brands Group)
  • Ikea (Inter IKEA Systems B.V.)
  • Jack & Jones (Bestseller)
  • Jeanswest (Harbour Guidance Pty Ltd)
  • L.Bean
  • Lacoste (Maus Freres)
  • Li-Ning
  • Mayor
  • Muji (Ryohin Keikaku Co., Ltd.)
  • Nike
  • Patagonia
  • Polo Ralph Lauren (Ralph Lauren Corporation)
  • Puma
  • Skechers
  • Summit Resource International (Caterpillar)
  • Target Australia (Wesfarmers)
  • The North Face (VF) *
  • Tommy Hilfiger (PVH)
  • Uniqlo (Fast Retailing)
  • Victoria’s Secret (L Brands)
  • Woolworths (Woolworth Corporation, LLC.)
  • Zara (Inditex)
  • Zegna

La coalizione

La Coalizione per fermare il lavoro forzato nella Regione Uigura raggruppa organizzazioni della società civile e sindacati impegnati a mettere fine al lavoro forzato sostenuto dalla Stato cinese nella Regione Uigura, chiamata dalla popolazione locale East Turkistan.

Hanno aderito:

  1. ABVV-FGTB (General Labour Federation of Belgium)
  2. achACT (Actions Consumers Workers)
  3. ACV-CSC (Confederation of Christian Trade Unions)
  4. ACV-CSC METEA (Metal and Textile Industries Trade Union)
  5. Advocates for Public Interest Law
  6. AFL-CIO
  7. Alberta Uyghur Association
  8. altraQualità
  9. Anti-Slavery International
  10. Arisa Foundation
  11. Arise Foundation
  12. Arzu Uigurischer Kuturverein e.V. (Azru Uyghur Cultural Association)
  13. Asian Solidarity Council for Freedom and Democracy
  14. Association des Ouïghours de France (Association of French Uyghurs)
  15. Athenai Institute
  16. Australia Tibet Council
  17. Australian Council of Trade Unions
  18. Australian East Turkestan Association
  19. Australian Uyghur Association
  20. Australian Uyghur Tangritagh Women’s Association
  21. Austria Uyghur Association
  22. Azzad Asset Management
  23. Bangladesh Garment and Industrial Workers’ Federation
  24. Belgium Uyghur Association
  25. Bishkek Human Rights Committee
  26. Campagna Abiti Puliti
  27. Campaign for Uyghurs
  28. Canada East Turkestan Union
  29. Central Eurasian Studies Society
  30. China Aid Association
  31. China Labor Watch
  32. China Labour Bulletin
  33. Christian Solidarity Worldwide
  34. Citizen Power Initiatives for China
  35. Clean Clothes Campaign
  36. Collectif Ethique sur l’étiquette
  37. Comité de Apoyo al Tíbet (Tibet Support Committee)
  38. CORE Coalition
  39. Corporate Accountability Lab
  40. Covenants Watch
  41. Dabindu Collective
  42. Daniye Uyghur Jama’itining Wekili (Denmark Uyghur Association)
  43. Doğu Türkistan Basin ve Medya Derneği (East Turkistan Press and Media Association)
  44. Doğu Türkistan Gençlik Derneği (East Turkistan Youth Association)
  45. Doğu Türkistan Kültür Merkezi Duisburg (East Turkistan Cultural Center Duisburg)
  46. Doğu Türkistan Maarif ve Dayanimsa Derneği (East Turkistan Education and Solidarity Association)
  47. Doğu Türkistan Muhacirlar Derneği (East Turkistan Immigrants Association)
  48. Doğu Türkistan Nuzugum Kültür ve Aile Derneği (Nuzugum Culture and Family Centre)
  49. Doğu Türkistan Spor ve Gelişim Derneği (East Turkistan Sports and Development Association)
  50. Doğu Türkistan Yeni Nesil Hareketi Derneği (East Turkistan New Generation Movement)
  51. Dutch Uyghur Human Rights Foundation
  52. Dutch Uyghur, Tibet, Mongol People Cooperation Organization
  53. East Turkestan Union in Europe
  54. East Turkistan Art & Science Institute
  55. East Turkistan Association of Canada
  56. East Turkistan Cultural and Solidarity Association
  57. East Turkistan Foundation
  58. East Turkistan Human Rights Watch Association
  59. East Turkistan Information Center
  60. East Turkistan National Council
  61. East Turkistan Union in Europe
  62. Eastern Turkistan Uyghur Association in the Netherlands
  63. FAIR (Fair Trade Cooperative)
  64. Fair Action
  65. Fashion Roundtable
  66. FGTB – CG (General Union Belgium)
  67. FIDH (International Federation for Human Rights )
  68. Formosan Association for Public Affairs
  69. FOS (Solidarity for the socialist movement in Flanders)
  70. Free Tibet
  71. Freedom Fund
  72. Freedom United
  73. Garment Labour Union
  74. Gender Alliance for Development Center
  75. Global Aktion
  76. Global Alliance Against Traffic in Women
  77. Global Labor Justice – International Labor Rights Forum
  78. Global Legal Action Network
  79. God Bless HK
  80. Grupo de Apoio ao Tibete (Tibet Support Group)
  81. H&M Hong Kong Staff Union
  82. Hong Kong Global Connect
  83. HOPE not hate
  84. Human Rights in China
  85. Human Rights Now
  86. Human Rights Watch
  87. Humanity Beyond Borders
  88. Interfaith Center on Corporate Responsibility
  89. International Campaign for Tibet
  90. International Commission of Jurists
  91. International Dalit Solidarity Network
  92. International Service for Human Rights
  93. International Trade Union Confederation
  94. Isa Yusuf Alptekin Foundation
  95. Islamic Information & Services Foundation
  96. Ittipak Uyghur Society of the Kyrgyz Republic
  97. Japan Uyghur Association
  98. Japan Uyghur Union
  99. Jewish World Watch
  100. Justice For All
  101. Kazakhstan National Culture Center
  102. Keep Taiwan Free
  103. Korean House for International Solidarity
  104. Labour Behind the Label
  105. Lantos Foundation for Human Rights & Justice
  106. Malaysia Consultative Council of Islamic Organizations
  107. Maquila Solidarity Network
  108. Mavi Hilal
  109. Minaret Foundation
  110. Movimento Consumatori (Consumer Movement)
  111. Netwerk Bewust Verbruiken (Network for Conscious Consumption)
  112. Norwegian Uyghur Committee (NUK)
  113. Open Gate La Strada Macedonia
  114. Pakistan Ömer Uyghur Foundation
  115. Peace Catalyst International
  116. Public Citizen
  117. Qutatqu Bilik Institute
  118. Rafto Foundation for Human Rights
  119. Reconstructionist Rabbinical Association
  120. Religious Freedom Institute
  121. René Cassin
  122. Responsible Sourcing Network
  123. Robert F Kennedy Human Rights
  124. Satuq Bughrahan Science and Culture Center
  125. SAVE (Social Awareness and Voluntary Education)
  126. Save Tibet
  127. Science, Education and Research Foundation
  128. SHARE (Shareholder Association for Research & Education)
  129. Shukr Foundation
  130. Society for Threatened Peoples
  131. Society Union of Uyghur National Association
  132. Solidarity China
  133. Stand with Hong Kong
  134. Stefanus Alliance International
  135. STOP THE TRAFFIK
  136. Südwind
  137. SÜDWIND-Institut
  138. Suomen Ita Turkestan Yhdistys (Finland East Turkistan Association)
  139. Sweden East Turkistan Education Association
  140. Sweden Mahmut Kashgeri Mother Tongue School
  141. Sweden Uyghur Education Association
  142. T’ruah
  143. Taiwan Association for Human Rights
  144. Taklimakan Islamiska Kultur Center
  145. TERRE DES FEMMES Schweiz
  146. The Rights Practice
  147. Tibet Justice Center
  148. Tibet Support Group
  149. Tibetan Youth Association in Europe
  150. Trades Union Congress
  151. Uighur U.K. Association
  152. Uigurischer Veren Schweiz (Swiss Uyghur Association)
  153. Uiguriska Utbildingsföreningen (Uyghur Education Association)
  154. UK Uyghur Community
  155. United Students Against Sweatshops
  156. Unrepresented Nations and Peoples Organization
  157. Unseen UK
  158. US Tibet Committee
  159. Uyghur Academy
  160. Uyghur Academy America
  161. Uyghur Academy Australia
  162. Uyghur Academy Europe
  163. Uyghur Aid
  164. Uyghur American Association
  165. Uyghur Association of Victoria
  166. Uyghur Collective
  167. Uyghur Democracy and Human Rights Center
  168. Uyghur Forum
  169. Uyghur Human Rights Project
  170. Uyghur Media Center
  171. Uyghur Mothers’ Union in Germany
  172. Uyghur Radio TV
  173. Uyghur Rally
  174. Uyghur Relief Fund
  175. Uyghur Research Institute
  176. Uyghur Rights Advocacy Project
  177. Uyghur Solidarity Campaign
  178. Uyghur Support Group Netherlands
  179. Uyghur Transitional Justice Database
  180. Uyghur Youth Union in Kazakhstan
  181. Uzbekistan Uyghur Culture Center
  182. Victims of Communism Memorial Foundation
  183. Victoria Hong Kong Tertiary Student Association
  184. Walk Free
  185. We Social Movements
  186. Worker Rights Consortium
  187. World Uyghur Congress

Materiali di approfondimento


Fast fashion, una campagna digital per cambiare il sistema moda in Italia

Al via oggi #CambiaMODA!, iniziativa promossa da Istituto Oikos, Mani Tese e Fair per mobilitare i cittadini e fare pressione su aziende e decisori politici. La richiesta: favorire un’industria dell’abbigliamento trasparente, che rispetti l’ambiente e le persone.

L’industria tessile è una delle più inquinanti al mondo: produce 1,2 miliardi di tonnellate l’anno di gas serra, più dei trasporti aerei e marittimi internazionali messi insieme (Ellen MacArthur Foundation 2017). Questo settore ha impatti enormi anche sul consumo dell’acqua: basti pensare che per produrre una sola t-shirt ne occorrono circa 3.900 litri, quanta ne beve in media una persona in 5 anni (Friends of the Earth 2015). Secondo i dati della Campagna Abiti Puliti, coalizione italiana della Clean Clothes Campaign, si stima che 60 milioni di lavoratori alimentino l’industria globale dell’abbigliamento, generando miliardi di profitti. La maggior parte lavora per un numero di ore disumano e fa più di un lavoro per far quadrare i conti. Circa l’80% di questa forza lavoro è composta da donne e non percepisce un reddito dignitoso.

L’impatto della pandemia
Oggi, complice la pandemia che ha colpito il pianeta, questa industria sta affrontando una crisi economica e sociale senza precedenti e a pagarne il prezzo più alto sono i milioni di lavoratori e lavoratrici impiegati nel settore. Il coronavirus ha reso ancora più evidenti i limiti di un sistema globale fondato sulle disuguaglianze, che annulla le tutele ed espone tutti a un futuro incerto. I marchi hanno fatto perdere all’industria dell’abbigliamento miliardi di dollari cancellando gli ordini indebitamente e facendo fallire molte fabbriche, con conseguenze devastanti sui lavoratori. Rifiutando di pagare prezzi che consentano ai lavoratori di percepire un salario dignitoso, i marchi committenti lasciano le persone che producono i loro vestiti senza alcun mezzo di sostentamento. Milioni di lavoratori vivono a rischio di precarietà abitativa e di sussistenza e molte fabbriche sono al collasso economico.

La campagna e la comunità #CambiaMODA!
Per questo motivo Istituto Oikos, Mani Tese e Fair lanciano la nuova piattaforma #CambiaMODA! (www.cambiamoda.it): l’obiettivo ambizioso è contribuire a cambiare il sistema moda in Italia.
Nella forte convinzione che una comunità abbia più forza e più potere del singolo, l’invito è rivolto soprattutto ai giovani. Per incoraggiarli ad aderire all’iniziativa e chiedere a gran voce: adeguati ammortizzatori sociali per i lavoratori del settore colpiti dall’attuale crisi; misure sanitarie e di sicurezza efficaci ed eque condizioni di lavoroper tutti e tutte; una riduzione drastica di rifiuti, inquinamento ed emissioni di CO2 da parte dei grandi marchi;verità e trasparenza su come vengono prodotti i vestiti che compriamo.

Come aderire
Entrare a far parte della comunità #CambiaMODA! è molto semplice: basta registrarsi sul sito www.cambiamoda.it. Sono molti i modi in cui contribuire: da una semplice azione sui social a una più attiva partecipazione agli eventi e iniziative promossi nell’ambito della campagna di sensibilizzazione, fino alla scelta di unirsi al team di ambassadors che ha già deciso di abbracciare la causa. Tra queste, molte persone che hanno fatto della passione per moda e lifestyle il proprio lavoro, come la fashion design blogger Marinella Rauso, la youtuber Sofia Viscardi, la travel blogger Francesca Barbieri.

Un cambio di rotta decisivo, che favorisca filiere trasparenti, responsabili ed eque, è quindi estremamente urgente: per proteggere l’ambiente, la salute e i diritti di tutte le persone coinvolte nella filiera, in Italia e nel mondo.


Le aziende del settore tessile devono garantire agli operai la continuità della retribuzione durante questa crisi

I lavoratori dell'abbigliamento sono tra i più economicamente vulnerabili nella crisi COVID-19, a causa delle disuguaglianze strutturali nelle catene globali di fornitura. Un appello lanciato oggi dalle organizzazioni per i diritti dei lavoratori e dai sindacati, esorta le aziende di abbigliamento a garantire che tutti i lavoratori delle loro catene di fornitura ricevano il trattamento retributivo migliore fra il loro stipendio contrattuale e quello garantito dalla legge, inclusi i benefit.

Annullando gli ordini, ritardando la pianificazione di nuovi ordini o forzando sconti su merci già prodotte, le aziende di abbigliamento hanno creato una situazione in cui i fornitori non sono in grado di pagare i lavoratori in tempo o addirittura per nulla. Dopo la recente protesta pubblica, un certo numero di aziende si sono impegnate a pagare tutti gli ordini effettuati prima della pandemia. Ma questo non è sufficiente.

Oggi, le organizzazioni di attivisti per i diritti del lavoro e i sindacati esortano le aziende di abbigliamento ad impegnarsi pubblicamente per garantire che tutti coloro che lavorano lungo la filiera del settore dell'abbigliamento, tessile, calzaturiero e logistico, impiegati all'inizio della crisi COVID-19, ricevano il loro stipendio contrattuale o stabilito per legge con i benefit, comprese le retribuzioni arretrate o l'indennità di licenziamento. Inoltre, queste organizzazioni esortano le imprese ad assicurare il pagamento di un premio aggiuntivo sugli ordini futuri per stabilire un fondo di garanzia vincolato con l’obiettivo di sostenere una maggiore protezione sociale per i lavoratori.

Le aziende hanno la responsabilità di prevenire, mitigare e porre rimedio alle violazioni dei diritti umani nelle proprie catene di fornitura. Garantendo che i lavoratori ricevano il salario dovuto, le imprese adempiono in parte ai loro obblighi di dovuta diligenza, che comprendono anche la garanzia di un trattamento non discriminatorio dei lavoratori, protezione sociale e condizioni di lavoro sicure che non espongano i lavoratori a infezioni o ad altri rischi per la salute.

Le organizzazioni della rete della Clean Clothes Campaign contatteranno le imprese di abbigliamento con queste richieste direttamente e attraverso una campagna pubblica imminente.

Background

Dall'inizio di questa pandemia, con il prosciugamento della fornitura di materie prime dalla Cina, i lavoratori dell'abbigliamento hanno sofferto economicamente, e i lavoratori in Asia in particolare si sono trovati di fronte alla chiusura di fabbriche e al mancato pagamento di salari e indennità di licenziamento. Da marzo, quando molti paesi hanno deciso le serrate nazionali per contenere il virus, i lavoratori dell'abbigliamento hanno lavorato in condizioni non sicure, non hanno ricevuto i loro salari, e hanno subito licenziamenti discriminatori o ristrutturazioni quando i marchi di abbigliamento hanno improvvisamente annullato o rifiutato di pagare il prezzo concordato per gli ordini. Salari di povertà sono endemici in tutta l'industria e, per i lavoratori dell'abbigliamento, essere pagati in ritardo significa non avere abbastanza risorse per comprare cibo. In Bangladesh, migliaia di lavoratori hanno avuto poca scelta se non scendere in piazza in proteste di massa da aprile, inizialmente per chiedere il loro salario di marzo, poi il loro salario di aprile, e più recentemente i bonus legalmente dovuti per l'Eid.

Le aziende del settore dell'abbigliamento hanno beneficiato per decenni del lavoro a basso salario - che in genere rappresenta solo un terzo del salario minimo dignitoso - in paesi con scarsa protezione sociale e leggi sul lavoro permissive. Ciò ha permesso alle imprese di accumulare profitti che hanno riempito le tasche dei proprietari miliardari delle aziende e dei loro azionisti. Assumendo consapevolmente il rischio di costruire profitti su un sistema a basso costo che non ha permesso l'istituzione di meccanismi di protezione sociale o di pagare i lavoratori abbastanza per consentire risparmi, queste aziende ora devono affrontare le conseguenze e pagare i lavoratori quello che gli spetta.

Le imprese si impegnino a garantire i salari pubblicando la seguente dichiarazione:

[Nome azienda] assicura pubblicamente che tutti i lavoratori della filiera dell'abbigliamento, tessile, calzaturiero e logistica impiegati nella nostra catena di fornitura, che erano già impiegati all'inizio della crisi di Covid-19, indipendentemente dallo status lavorativo, riceveranno i loro stipendi e benefici legali o contrattuali, in base al trattamento migliore, inclusi gli arretrati salariali (stipendio arretrato) e, se del caso, la liquidazione negoziata.

Forniremo fondi sufficienti a garantire che, in combinazione con altri aiuti forniti ai lavoratori da parte di datori di lavoro, governi locali e istituzioni internazionali, i lavoratori abbiano un reddito pari a quello ricevuto prima della crisi. In tal modo, forniremo immediato e necessario sollievo ai lavoratori, ed eserciteremo la nostra responsabilità di prevenire e mitigare gli impatti negativi sui diritti umani nelle nostre catene di approvvigionamento, e di provvedere o cooperare nella riparazione del danno.

In futuro, sosterremo una maggiore protezione sociale per i lavoratori impegnandoci a pagare un premio sul prezzo degli ordini futuri da versare in un fondo di garanzia riservato alle indennità di licenziamento e ai salari arretrati nei casi in cui i datori di lavoro della nostra filiera siano insolventi, o altrimenti abbiano licenziato lavoratori, firmando un accordo vincolante con i sindacati dei lavoratori del settore, in linea con la raccomandazione 202, la Convenzione 95 e la Convenzione 76 dell'Organizzazione Mondiale del Lavoro.


Abiti Puliti Live - Vite appese

Giovedì 28 maggio alle ore 17, per il ciclo Tra le trame della crisi,
VITE APPESE.

Le vite appese sono quelle delle commesse della fast fashion, costrette a stare sempre in piedi, ad indossare sorrisi, a piegare senza sosta i capi abbandonati nei camerini, e i loro tempi di vita ai ritmi imposti dalla società del consumo totale, 7 giorni su 7, senza sabati e domeniche. Nulla più a scandire la danza della vita, dove dovrebbe esistere un tempo per tutto: per il lavoro, per la crescita personale e le relazioni.

Interverranno:

  • Annalisa Dordoni, Università degli Studi di Milano Bicocca, autrice di “Sempre aperto. Lavorare su turni nella società dei servizi 24/7

  • Fiorella (nome di fantasia, durante la diretta sarà garantito l’anonimato), Commessa e delegata Filcams CGIL

Modera: Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti


Vincolare i fondi al rispetto dei diritti umani e ambientali. Altrimenti la pezza sarà più grande del buco

L’Italia sta per varare una misura da 55 miliardi, la più imponente della storia del paese. Il Governo sta chiedendo ai contribuenti uno sforzo presente e futuro enorme. La Campagna Abiti Puliti ha inviato oggi una lettera al Governo in cui chiede che i fondi pubblici utilizzati per la ricostruzione siano concessi solo ad aziende che si impegnano a rispettare i diritti umani sia in Italia che nel mondo e che non abbiano sede in paradisi fiscali. 

La pandemia di Covid19 non è più una emergenza solo sanitaria, ma è presto diventata anche una questione di giustizia economica e sociale.” commenta Deborah Lucchetti, portavoce della campagna. “Sono milioni le persone che hanno già perso il lavoro a causa delle politiche predatorie delle multinazionali nelle filiere globali. Se quelle aziende vogliono aiuti di Stato, devono condividere la ricchezza ricevuta con i lavoratori, non solo quelli operanti in Italia. Si può ripartire solo se nessuno è lasciato indietro.”

Stiamo assistendo a comportamenti predatori e inaccettabili: aziende che non pagano i fornitori, cancellano ordini già effettuati, licenziano o minacciano il personale, si rivolgono a fornitori esteri chiedendo prezzi stracciati costringendoli a pagare ai loro dipendenti stipendi da fame. Alcune hanno chiesto fondi di sostegno al governo italiano, anche se non pagano le tasse in Italia bensì in paradisi fiscali. Ciò sta accadendo nel settore della moda, ma non solo. Se le imprese italiane vogliono usufruire di fondi pubblici devono impegnarsi a rispettare i diritti umani e dei lavoratori in tutto il mondo, e pagare le tasse nel nostro Paese.

I cittadini italiani hanno il diritto di sapere come queste risorse saranno spese e quali aziende ne beneficeranno: per questo la Campagna Abiti Puliti chiede di fare buon uso del Registro Nazionale degli Aiuti di Stato creando una sezione specifica dedicata all’erogazione e gestione dei fondi Covid. Rendere pubbliche queste informazioni in maniera chiara e accessibile è un passo fondamentale per nutrire la democrazia e favorire una reale transizione dell’economia verso la sostenibilità.

Per facilitare la messa in pratica di tale impegno, abbiamo preparato un modulo molto semplice e precompilato: il Governo non deve fare altro che allegarlo al Decreto Maggio” aggiunge Lucchetti.

Il modulo è disponibile qui

Allo stesso tempo la Campagna Abiti Puliti, in collegamento con altre coalizioni gemelle in diversi paesi europei, ha lanciato una petizione rivolta alle imprese italiane del settore moda affinché adottino condotte responsabili e non spostino il peso della crisi sanitaria sulle operaie all’altro capo delle loro catene di fornitura. 

La prossima occasione per approfondire questi temi è Giovedì 14 maggio alle ore 17. Per il ciclo Tra le trame della crisi, in diretta Facebook sulla pagina della Campagna Abiti Puliti, si terrà l’evento “Colmiamo i buchi legali. Le leggi che mancano per cucire moda sostenibile”. Insieme a Angelica Bonfanti, Professoressa associata in diritto internazionale UniMI e Gianni Rosas, Direttore OIL Ufficio per l’Italia e San Marino parleremo delle leggi che mancano per obbligare le imprese a rispettare i diritti e della necessità di avere sistemi di protezione sociale nei paesi di produzione.

Il mondo è un posto ineguale a causa di comportamenti umani e aziendali che sono evidentemente giunti al capolinea. Il Coronavirus ci ha rimesso all’anno zero. Abbiamo l’occasione di cambiare la direzione del mondo e sappiamo già come farlo.

Il momento di agire è ora.


Abiti Puliti Live - Colmiamo i buchi legali

Giovedì 14 maggio alle ore 17, per il ciclo Tra le trame della crisi,
in diretta Facebook sulla pagina della Campagna Abiti Puliti, si terrà l’evento
COLMIAMO I BUCHI LEGALI – LE LEGGI CHE MANCANO PER CUCIRE MODA SOSTENIBILE

Insieme agli ospiti parleremo delle leggi che mancano per obbligare le imprese a rispettare i diritti e della necessità di avere sistemi di protezione sociale nei paesi di produzione, di pagare prezzi equi ai fornitori.

Interverranno:

  • Angelica Bonfanti, Professoressa associata in diritto internazionale UniMI
  • Gianni Rosas, Direttore OIL Ufficio per l’Italia e San Marino

Modera: Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti


Rana Plaza al tempo della pandemia: continua la lotta per i diritti dei lavoratori

Esattamente sette anni fa, il 24 aprile 2013, 1.134 lavoratori hanno perso la vita nel peggiore incidente che si ricordi nella storia dell’industria dell’abbigliamento.  Oggi, mentre commemoriamo le vittime del crollo del Rana Plaza e rivolgiamo un pensiero a tutte le persone colpite da questa tragedia, la vita dei lavoratori è ancora una volta in pericolo. In Bangladesh, la crisi che ha investito l’industria dell’abbigliamento in seguito alla pandemia da Covid-19 indebolisce i lavoratori nella lotta incessante per ottenere maggiori diritti: sistemi di protezione sociale, salari dignitosi, libertà di organizzazione sindacale e sicurezza nei luoghi di lavoro.

 

La pandemia da coronavirus mette a rischio le conquiste fin qui ottenute a caro prezzo dai lavoratori dai tempi del Rana Plaza

In un momento di crisi senza precedenti per l’industria dell’abbigliamento, che vede il prosciugarsi della domanda, gli ordini annullati o differiti, e milioni di lavoratori affrontare lo spettro dell’indigenza, è di vitale importanza che non vadano perse le forme di tutela tanto faticosamente conquistate. Se le catene di fornitura torneranno a ricomporsi dopo la fine della pandemia, esse dovranno farsi guidare dagli insegnamenti che vengono dalla tragedia del Rana Plaza e dall’esperienza maturata con la crisi in corso. La strada da intraprendere è verso un’industria improntata a maggiore sicurezza ed equità, governata da regole vincolanti ed esigibili sui grandi temi del salario, della salute e della sicurezza, della libertà di associazione e delle tutele sociali. Niente deve tornare ad essere com’era prima del 2020 e neppure del 2013.

Dal maggio 2013, l’Accordo per la prevenzione contro gli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh, istituito in risposta alla tragedia del Rana Plaza, è riuscito a garantire luoghi di lavoro più sicuri per oltre 2 milioni di persone. L’accordo copre più di 1.600 fabbriche presso le quali è stato possibile porre rimedio al 91% di tutti i difetti di sicurezza riscontrati nel corso di ispezioni regolarmente programmate. Nel maggio 2019, una lunga battaglia legale sul diritto dell’Accordo di continuare ad operare in Bangladesh si è risolta con l’intesa che nell’arco di un anno le funzioni dell’Accordo sarebbero state trasferite al cosiddetto “RMG Sustainability Council” (RSC), un organismo partecipato dalla Bangladesh Garment Manufacturer and Exporter Association (BGMEA), associazione che rappresenta i titolari delle fabbriche.

Le organizzazioni a difesa dei diritti dei lavoratori dentro e fuori il paese, fra queste la Clean Clothes Campaign, ripetono da tempo che non può essere avviato nessun nuovo programma se prima non sono stati portati a termine gli obiettivi precedentemente fissati. Per essere efficace l’azione dell’RSC deve proseguire nel solco dell’Accordo e fare propri i suoi aspetti fondanti, con particolare riguardo ai criteri dell’obbligatorietà e della trasparenza, che andranno inseriti in un accordo internazionale da far sottoscrivere alle imprese del settore, insieme all’impegno a garantire condizioni contrattuali che consentano ai fornitori di sostenere i costi degli interventi correttivi nelle fabbriche.

Con il diffondersi della pandemia le trattative per arrivare a un’intesa si sono interrotte e l’Accordo ha sospeso la usa operatività. Mentre la data di inizio delle sue attività si avvicina, manca quasi del tutto la garanzia che l’RSC saprà svolgere un’azione di tutela efficace per i lavoratori, anche a giudicare dall’assenza di un elemento decisivo, e cioè l’impegno delle imprese a offrire ai fornitori condizioni contrattuali commisurate ai costi degli adempimenti. È pertanto di fondamentale importanza ripristinare e concludere il processo di elaborazione di un accordo internazionale legalmente vincolante che racchiuda tale impegno, così come deve essere completato il lavoro dell’Accordo prima che l’RSC ne prenda il posto. In mancanza di questo, l’RSC non si distinguerà nel suo operare dalle tante iniziative volontarie che non hanno saputo impedire il crollo del Rana Plaza.

In questi ultimi sette anni, anche grazie al contributo fattivo di numerosi rappresentanti del mondo delle imprese, è stato possibile instituire in Bangladesh un sistema assicurativo volto a garantire sostegno economico ai lavoratori vittime di infortuni e alle famiglie di chi ha perso la vita sul lavoro.  Un’iniziativa di questa portata, che ha suscitato tante attese, non deve essere ulteriormente posticipata. Sette anni dopo il crollo del Rana Plaza, al dolore delle famiglie colpite dalla disabilità o dalla morte dei propri cari non deve aggiungersi anche il dramma dell’indigenza.

La crisi che stiamo attraversando dovrebbe servire di ulteriore stimolo al rafforzamento delle misure di protezione sociale, in linea con gli standard dell’OIL in tema di indennità per malattia, disoccupazione e assistenza sanitaria. Il governo del Bangladesh deve porsi alla guida di questo processo il quale, tuttavia, non può prendere avvio senza una condivisione dei costi fra tutti i soggetti che comporranno le future filiere produttive.

Ordini annullati e chiusure delle fabbriche minacciano il futuro dell’industria dell’abbigliamento

L’assenza di solidi sistemi di sicurezza sociale e la disparità di poteri che caratterizzano le catene di fornitura sono venute dolorosamente allo scoperto con la pandemia da coronavirus. Dopo un iniziale rallentamento della produzione provocato dalla scarsità di materie prime di provenienza cinese, l’industria ha risentito notevolmente della cancellazione degli ordini da parte degli acquirenti occidentali e della determinazione dei marchi di non piazzarne di nuovi. Una ricerca condotta dal Penn State Center for Global Workers’ Rights indica che alla fine del mese di marzo quasi la metà delle fabbriche si è vista annullare buona parte degli ordini quasi pronti per la spedizione.

L’indignazione suscitata da queste notizie ha convinto alcuni acquirenti a rivedere la loro decisione e ad accettare di pagare per gli ordini già in produzione. Un numero rilevante di grandi marchi acquirenti, in particolare Arcadia, Gap, Walmart, Tesco, ma non solo, si mostra irremovibile e rifiuta di pagare e di ricevere gli ordini completati anche a costo di violare i contratti di commessa. A fare le spese di comportamenti così irresponsabili sono in ultima analisi i lavoratori.

Dopo l’annuncio dato dal governo il 25 marzo del lockdown generale con scadenza il 4 aprile, molte fabbriche di confezioni hanno chiuso e migliaia di lavoratori sono rientrati ai loro villaggi dalle famiglie. Gli imprenditori non avevano l’obbligo di sospendere le attività ed è per questo che un numero non trascurabile di fabbriche ha continuato a operare. Al termine del periodo di chiusura forzata, migliaia di persone si sono rimesse in cammino verso le città per ritornare al lavoro e ritirare la busta paga di marzo, percorrendo la distanza a piedi o con mezzi di fortuna a causa del blocco dei mezzi pubblici. Una volta arrivati, e solo in quel momento, sono stati informati che la chiusura era stata prorogata o che erano stati licenziati, quasi tutti senza neppure ricevere gli arretrati del mese di marzo.

“I lavoratori sono rientrati nei luoghi di lavoro correndo seri rischi per la loro sicurezza e spendendo molti soldi per il trasporto”, ha detto Kalpona Akter, presidentessa della Bangladesh Garments and Industrial Workers Federation, “Le decisioni irrazionali dei proprietari delle fabbriche non hanno messo a rischio solo la vita dei dipendenti ma quella dell’intera popolazione. La notizia del controesodo forzato dei lavoratori ha fatto discutere a livello nazionale e solo allora le organizzazioni datoriali BGMEA e BKMEA si sono convinte a concedere alle aziende associate un periodo di sospensione generale delle attività”.

Nonostante la proroga delle misure restrittive decisa dal governo, alcune fabbriche hanno riaperto obbligando i dipendenti a rientrare sotto la minaccia del licenziamento o della perdita dei salari arretrati. La BGMEA ha ribadito l’intenzione di riaprire tutte le fabbriche dopo il 25 aprile. I lavoratori non devono correre rischi per la loro salute e sicurezza da una riapertura frettolosa. In questo periodo di emergenza sanitaria spetta ai datori di lavoro garantire il benessere dei loro dipendenti, corrispondere per intero le retribuzioni dovute mediante i sistemi digitali predisposti dal governo, cessare i tagli di personale, reintegrare chi è stato licenziato all’inizio della pandemia e, quando si potrà riprendere il lavoro in sicurezza, fornire adeguate misure di protezione e congedi per malattia.

È compito del governo favorire la creazione di sistemi di protezione sociale per i lavoratori estendendone gli effetti a chi è stato licenziato o messo in congedo non retribuito, e vigilare affinché le erogazioni avvengano sotto la responsabilità dei datori di lavoro e delle imprese acquirenti in modo trasparente e con verifiche indipendenti.

I marchi e i distributori non si sono assunti le loro responsabilità, disinteressandosi della sopravvivenza economica dei lavoratori, e non sono intervenuti nei confronti delle imprese fornitrici per impedire iniziative sconsiderate. Al contrario, con il loro rifiuto di pagare gli ordini già in lavorazione e il tentativo di giocare al ribasso sui prezzi, hanno messo i partner commerciali in difficoltà, lasciando loro poco margine per il pagamento delle retribuzioni di marzo e dei mesi a venire. I marchi hanno il dovere di assicurare il pagamento degli ordini e garantire, insieme con i fornitori, la corresponsione delle retribuzioni per tutta la durata dell’emergenza sanitaria, per non abbandonare i lavoratori all’indigenza e senza garanzie occupazionali.

La crisi mostra tragicamente che i sette anni trascorsi non sono riusciti a modificare le disparità di potere esistenti fra i lavoratori e i datori di lavoro. I dipendenti delle fabbriche ospitate nel Rana Plaza erano consapevoli del pericolo che correvano entrando quel tragico giorno nell’edificio in cui lavoravano, ma era più forte la paura di perdere un mese intero di salario perché questa era la minaccia dei loro superiori. Ancora oggi milioni di lavoratori sono messi di fronte alla scelta impossibile fra la salute e la sopravvivenza. Altri saranno nuovamente obbligati a presentarsi al lavoro nella consapevolezza che potrebbero perdere la vita. Per come sono costruite le catene di fornitura è facile per i datori di lavoro, gli acquirenti e i governi scaricare le responsabilità per qualsiasi danno subisca un lavoratore, così com’è avvenuto dopo il crollo del Rana Plaza. È arrivato il momento che i soggetti economici e decisionali di queste filiere si impegnino in un programma comune a sostegno dei diritti dei lavoratori.

Proteste salariali

Esasperati dall’insicurezza, dai salari non pagati e dai licenziamenti, i lavoratori sono scesi per le strade a protestare. È soprattutto a partire dal 12 aprile che si sono intensificati i sit-in e le manifestazioni partecipati da centinaia di persone che reclamavano la fine dei licenziamenti e il pagamento dei salari arretrati. Le proteste sono cresciute dopo che si è avuta notizia che centinaia di imprenditori hanno ignorato una disposizione del governo che prevedeva sanzioni per chi non avesse provveduto al pagamento dei salari prima del 16 aprile, e che garantiva prestiti agli imprenditori impossibilitati a far fronte ai loro obblighi.

Le proteste di piazza sono all’ordine del giorno in Bangladesh. Nonostante sia sotto gli occhi di tutti la necessità di risolvere il problema annoso degli abusi nell’industria dell’abbigliamento dopo la tragedia del Rana Plaza, ogni tentativo fatto dai lavoratori per organizzarsi viene represso con ogni mezzo perché solo mantenendo in piedi un sistema ingiusto, che si rivale sui salari, è possibile per gli attori economici continuare ad estrarre i profitti spropositati a cui sono abituati. Nel gennaio 2019 un giro di vite di proporzioni inaudite si è abbattuto sui lavoratori che si erano mobilitati in proteste pacifiche contro i salari da fame. Più di 10 mila persone sono state licenziate, molte altre sono finite in una lista nera, e sulla base di false accuse migliaia di persone sono state denunciate. In questo momento ci sono almeno venti casi in attesa di giudizio che coinvolgono centinaia di lavoratori sui quali incombe il rischio della prigione. A questi si aggiungono altri tre procedimenti penali avviati nei confronti di alcuni dirigenti sindacali per punirli del ruolo svolto nell’organizzazione delle proteste del 2016.

Quando gli edifici pubblici riapriranno, i lavoratori denunciati dovranno recarsi regolarmente in tribunale per le pratiche da sbrigare, come avveniva prima dell’emergenza sanitaria, e questo li esporrà a nuovi rischi oltre a quelli già affrontati durante la pandemia. La minaccia dell’incarcerazione accresce inoltre il livello di insicurezza percepito. È pertanto di fondamentale importanza che i casi vengano trattati immediatamente dai tribunali e che le false accuse formulate vengano respinte. Sta ai marchi, ai proprietari delle fabbriche e alle autorità agire con tempestività affinché le denunce siano ritirate e sia garantita ai lavoratori la libertà di associazione.

Amin Amirul Haque, presidente della National Garment Workers Federation, così conclude: “Le disuguaglianze presenti nelle filiere produttive globali, che adesso l’emergenza da Covid-19 ha amplificato, sono sempre esistite. È impensabile che dopo la ripresa si possa tornare alla normalità degli affari come se nulla fosse accaduto. È arrivato il momento che i marchi e i distributori mettano mano a una riforma radicale delle loro filiere e nel far questo devono dare la precedenza ai diritti dei lavoratori facendo propri i criteri della sicurezza sociale e dei salari dignitosi mediante meccanismi vincolanti e trasparenti”.

Note


Dalle macerie del Rana Plaza al Covid19: 
a pagare il conto sono sempre i lavoratori

Sette anni fa, almeno 1.134 persone persero la vita nel più grande disastro industriale della storia: il crollo del Rana Plaza. Oggi, mentre commemoriamo con dolore la morte di quei lavoratori e di quelle lavoratrici, ancora una volta ci troviamo a denunciare la situazione critica in cui milioni di persone sono costrette a vivere a causa di un potere quasi egemonico dei grandi marchi e dei distributori nella filiera tessile.

La pandemia di Covid-19 sta travolgendo l’industria della moda, minando le lotte dei lavoratori per la protezione sociale, i salari dignitosi, la libertà di associazione e le fabbriche sicure. Non appena la crisi sanitaria ha colpito le imprese di abbigliamento più grandi al mondo, queste hanno risposto addossando rischi e costi sulla parte più bassa della filiera: non pagando per ordini già eseguiti o ritirando quelli in produzione, hanno lasciato i proprietari delle fabbriche senza i mezzi finanziari per pagare gli stipendi ai propri dipendenti. Milioni di lavoratori sono ora senza una paga e senza la sicurezza di un lavoro, in aggiunta alle ovvie e non trascurabili ansie per i rischi sanitari.

Una dichiarazione congiunta dell’Organizzazione Internazionale delle Imprese (IOE) e dei Sindacati Internazionali (GUF) appena pubblicata richiama un approccio collaborativo per mitigare la perdita massiccia di vite, posti di lavoro e reddito nella filiera della moda causata dalla pandemia. I marchi che sottoscrivono tale dichiarazione si impegnano a rispettare una serie di misure minime, come pagare gli ordini in produzione ma anche impegnarsi con i governi e le istituzioni finanziarie internazionali per istituire fondi per far fronte alle esigenze immediate dei lavoratori e rafforzare piani di protezione sociale nelle catene di fornitura.

È giunto il momento in cui i brand e i distributori, inclusi quelli di e-commerce, adottino condotte responsabili, a partire dall’impegno immediato di pagare fornitori e lavoratori, avendo per anni incamerato profitto grazie ai bassi salari e all’assenza pressoché totale di previdenza sociale. Ad oggi noti marchi internazionali come Arcadia, ASOS, Bestseller, C&A, EWM/Peacocks, Gap, JCPenney, Kohl’s, Mothercare, Next, Primark, Tesco, Under Armour, Urban Outfitters e Walmart/Asda non hanno ancora preso alcun impegno per pagare gli ordini completati o in produzione. In Italia la Campagna Abiti Puliti ha chiesto di rendere conto sulle pratiche in corso a importanti firme della moda, tra cui Armani, Benetton, Calzedonia, Ferragamo, Geox, Gucci, Miroglio, Moncler, OVS, Prada, Salewa, Versace, Zegna. Al momento solo Prada e Salewa hanno fornito rassicurazioni sul fatto che rispetteranno gli impegni assunti con i fornitori al sorgere della pandemia. Il network della Clean Clothes Campaign monitorerà gli impegni dichiarati dalle aziende e ne renderà conto pubblicamente.

In particolare chiediamo ai marchi di:

  • Rispettare gli obblighi nei confronti dei fornitori pagando gli ordini già eseguiti o in produzione;
  • Assicurare e permettere il pagamento di salari e stipendi o liquidazioni a tutti i lavoratori del settore dell’abbigliamento, del tessile, delle calzature e della logistica che sono stati assunti al sorgere di questa crisi;
  • Garantire che coloro che lavorano durante la pandemia, siano effettivamente in grado di attenersi ai protocolli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e che vengano loro offerte altre tutele giuslavoristiche, quali strutture o assegni per l’infanzia, assicurazioni sanitarie, copertura in caso di malattia e retribuzione legata al rischio lavorativo;
  • Permettere ai lavoratori di rifiutarsi di lavorare in assenza di protezioni e di rimanere a casa senza subire discriminazioni per coloro che sono malati, o i cui familiari siano malati.

Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti sottolinea: “La crisi è arrivata come un pugno in faccia per farci rendere conto, speriamo definitivamente, che un modello economico basato sulla compressione massima dei costi, sullo sfruttamento illimitato delle risorse e sulla assenza di reti di protezione sociale solide per chi lavora è semplicemente insostenibile. Le catene di fornitura globali, se torneranno ad operare, dovranno essere radicalmente riformate, mettendo al centro il tema della redistribuzione del valore e l’istituzione di sistemi di assistenza e previdenza sociale per tutti i lavoratori della filiera

Nei giorni scorsi la Campagna Abiti Puliti ha inviato una lettera al Presidente del Consiglio Conte e ai Ministri Gualtieri, Di Maio e Catalfo che hanno la responsabilità politica di attuare il Decreto Legge Cura Italia, sottolineando l'importanza del rispetto dei diritti umani e dei lavoratori nella fase di ripresa e della salute e sicurezza sul lavoro, come richiamato nella recente risoluzione adottata dal Parlamento Europeo. Riteniamo che solo le aziende che dimostrino di saper proteggere i lavoratori propri e appartenenti all'intera catena di fornitura devono poter contare su misure di sostegno.

Manca poco al 4 maggio e l'industria della moda ha avuto il permesso di ricominciare le produzioni. Se da un lato comprendiamo le necessità economiche, dall'altro dobbiamo ricordare che nessun lavoratore è sacrificabile. In questo momento l'attenzione alla salute e sicurezza deve essere massimo.

Nell’immediato presente riteniamo che:

  • Le società beneficiare delle misure di cui al DL 23/2020 (Decreto Liquidità) dovrebbero garantire in modo trasparente il rispetto dei diritti umani lungo la loro catena di fornitura anche internazionale; SACE e CDP dovrebbero assicurarsi la soddisfazione di tale requisito prima di erogare garanzie, presenti e future;
  • Le società beneficiarie delle misure di cui al DL 23/2020 (Decreto Liquidità) dovrebbero garantire in modo trasparente il pagamento degli ordini già eseguiti o in corso e in generale il rispetto degli obblighi contrattuali precedentemente assunti con i fornitori; il PCN dell’OCSE potrebbe agire almeno da persuasore morale sul punto;
  • Ai rigorosi controlli in tema di salute e sicurezza sul lavoro sulle società che hanno ripreso la produzione il 14 aprile e quelle che la riprenderanno a breve da parte di GdF e INL dovrebbero essere sottoposte tutte quelle di produzione tessile e calzaturiera;
  • Dei fondi e garanzie erogati per la gestione dell’emergenza Covid-19 dovrebbe essere resa una rendicontazione adeguata, trasparente e disponibile per gli stakeholders;

La task force dei 17 Esperti inoltre dovrebbe intraprendere un dialogo con la società civile al fine di arricchire il proprio piano di uscita dalla crisi.

I governi dei paesi di produzione devono impegnarsi fin da subito a implementare e migliorare i programmi di previdenza sociale, così da allinearli agli standard dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) relativi alla disoccupazione, agli infortuni sul lavoro e all’assicurazione sanitaria. Siffatte operazioni dovrebbe essere effettuate di concerto con le aziende manifatturiere e con la contribuzione economica dei marchi, mediante l’istituzione di meccanismi di condivisione dei costi trasparenti e tracciabili.

Infine chiediamo che i governi dei Paesi ove i marchi e i distributori hanno la propria sede centrale, riformino la normativa su quelle pratiche di concorrenza sleale che portano a violazioni dei diritti nella filiera internazionale, obbligando per legge le società al rispetto dei diritti umani nelle proprie operazioni lungo tutta la filiera che movimentano, anche tramite l’adozione di una legge che renda obbligatoria la dovuta diligenza sui diritti umani.Inoltre tali società dovrebbero essere portate in tribunale, qualora non conducano una accurata dovuta diligenza sui diritti umani lungo la filiera o non si assumano la responsabilità di rimediare agli eventuali abusi causati dall’attività economica.

Le soluzioni per mitigare gli effetti di questa crisi possono essere un'opportunità per realizzare un vero cambio di passo. Governi, imprese multinazionali e istituzioni finanziarie internazionali devono dare una risposta coordinata e coerente a questa crisi globale. Hanno l'obbligo morale e politico di tutelare soprattutto gli individui più vulnerabili della nostra società e non lasciare indietro nessuno." conclude Lucchetti.

Note per l’editore:

- La dichiarazione congiunta associazione industriali e sindacati globali http://www.industriall-union.org/global-action-to-support-the-garment-industry

- Lista di marchi che hanno assunto l’impegno a pagare gli ordini e quelli che ancora rifiutano gestita dal Worker Rights Consortium https://www.workersrights.org/issues/covid-19/tracker/

- La sezione internazionale della Campagna Abiti Puliti mantiene un blog per raccogliere le informazioni su come la pandemia colpisce i lavoratori https://cleanclothes.org/news/2020/live-blog-on-how-the-coronavirus-influences-workers-in-supply-chains

- Le richieste immediate del network globale della Campagna Abiti Puliti verso imprese, governi su come rispondere alla pandemia http://www.abitipuliti.org/regole-vincolanti-per-le-imprese/i-grandi-marchi-della-moda-e-i-distributori-devono-intervenire-adesso-per-proteggere-i-lavoratori/

- La risoluzione del Parlamento Europeo del 17 aprile 2020 "EU coordinated action to combat the COVID-19 pandemic and its consequences" https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2020-0054_EN.pdf

 


Strategia ombra della società civile: servono nuove leggi sul settore tessile e dell’abbigliamento dell'UE

Il Coronavirus rafforza le argomentazioni a favore di nuove leggi sul settore tessile e dell’abbigliamento dell’UE – 65 gruppi della società civile pubblicano una visione comune

Mentre la Commissione Europea è pronta a sviluppare una nuova “strategia globale per il settore tessile” nei prossimi mesi, oggi un gruppo di 65 diverse organizzazioni della società civile ha lanciato la sua visione per tutto il settore del Tessile, dell’Abbigliamento, della Pelle e delle Calzature (TGLF). Lo hanno fatto rilasciando una strategia non ufficiale (o “ombra”) in cui propongono una serie di azioni legislative e non che l’UE può intraprendere per contribuire a rendere le catene di valore TGLF più eque e sostenibili.

Il gruppo di organizzazioni – un’ampia coalizione di attivisti per il commercio equo e solidale, i diritti umani e dei lavoratori, la protezione dell’ambiente e la trasparenza – invita la Commissione europea, i deputati al Parlamento europeo e i governi dell’UE a sostenere una strategia ambiziosa che dia il via a una riprogettazione globale del modello di business dell’industria tessile per il mondo post-coronavirus.

Il settore TGLF è stato a lungo caratterizzato da violazioni dei diritti del lavoro e dei diritti umani, oltre che dall’immensa pressione che esercita sul nostro ambiente e sul clima.

I membri del Parlamento europeo Delara Burkhardt (S&D), Heidi Hautala (presidente del gruppo di lavoro sulla condotta aziendale responsabile, del gruppo Verdi/Alleanza libera europea) e Helmut Scholz (GUE/NGL) hanno inviato una lettera congiunta a tutti i membri del Parlamento europeo per condividere e sostenere la “Strategia ombra della società civile”. Nella lettera, i deputati sottolineano che “il settore tessile è stato tra i più vulnerabili alla crisi del COVID-19 a causa degli squilibri di potere tra i suoi attori piccoli e grandi, e dei suoi gravi problemi strutturali, compresi i danni ambientali che provoca e le questioni di governance. È una delle industrie più inquinanti, fonte di innumerevoli catastrofi come quella di Rana Plaza, e un settore dove vi sono numerose violazioni dei diritti umani – che colpiscono le donne in modo sproporzionato“.

In rappresentanza della coalizione, Sergi Corbalán, direttore esecutivo dell’Ufficio Advocacy di Fair Trade, ha dichiarato: “L’azione volontaria dell’industria non è riuscita a portare ad un’industria tessile equa e sostenibile, quindi è giunto il momento che i leader dell’UE riformino la struttura del settore” e ha aggiunto: “Questa ‘strategia ombra’ offre alla Commissione la competenza combinata di 65 organizzazioni della società civile che hanno anni di esperienza nell’affrontare i vari impatti del settore. Non si tratta di un menu dal quale la Commissione può scegliere alcune iniziative specifiche, lasciandosi le altre alle spalle, ma di una strategia globale in cui l’azione in ogni ambito rafforza gli sforzi compiuti negli altri“.

La visione della società civile per una strategia tessile globale dell’UE contiene raccomandazioni tra cui:

  • Garantire che le aziende siano legalmente obbligate ad assumersi la responsabilità non solo delle proprie attività, ma dell’intera catena di fornitura, applicando una legge UE sulla due diligence in tutti i settori, compresi requisiti specifici per il settore TGLF. La firma di una partnership multi-stakeholder non dovrebbe esentare le aziende da responsabilità proprie.
  • Norme ambientali più severe che coprano il modo in cui i prodotti tessili venduti nell’UE sono progettati e prodotti, responsabilità legale e finanziaria dei produttori quando i loro prodotti diventano rifiuti, nonché misure significative per promuovere la trasparenza.
  • Garantire che i marchi e i distributori siano legalmente obbligati ad onorare i contratti e a porre fine alla cultura delle pratiche commerciali sleali che assicura alle imprese committenti impunità in caso di cancellazione degli ordini senza onorare i pagamenti lasciando, come conseguenza, i lavoratori senza salario.
  • Fare in modo che le riforme della governance e una migliore applicazione della legge nei paesi produttori siano parte della soluzione ai problemi di sostenibilità affrontati nelle catene del valore dell’intero settore.
  • Attraverso la politica commerciale, utilizzare il potere di mercato dell’UE per favorire le pratiche di produzione sostenibile nell’intera industria.



Abiti Puliti Live - Un'altra moda è possibile? Riprendiamo il filo

Giovedì 30 aprile alle ore 17, per il ciclo Tra le trame della crisi,
UN’ALTRA MODA E’ POSSIBILE? RIPRENDIAMO IL FILO

Insieme agli ospiti parleremo dei limiti del modello di business della fast fashion, della necessità di ripensare i modelli di produzione e consumo, di riconversione delle filiere.

Interverranno:

  • Stefano Bartolini, Economista e docente universitario
  • Marco Craviolatti, attivista sindacale e autore di “E la borsa e la vita. Distribuire e ridurre il tempo di lavoro: orizzonte di giustizia e benessere”

Modera: Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti
#cambiamoda


Dopo 5 anni le lavoratrici della Jaba Garmindo aspettano ancora 5,5 milioni di dollari

Il 22 aprile 2020 ricorre il quinto anniversario del fallimento della fabbrica Jaba Garmindo in Indonesia. 2.000 lavoratrici che stavano fabbricando abiti per Uniqlo e per il marchio tedesco s.Oliver persero il lavoro quando i marchi decisero di ritirare i loro ordini e ancora oggi stanno portando avanti la loro battaglia per ricevere i 5,5 milioni di dollari di TFR che gli spettano per legge. La Clean Clothes Campaign (CCC) chiede a Uniqlo, che opera sotto la casa madre Fast Retailing, e s.Oliver di agire immediatamente per porre rimedio alla precarietà finanziaria che queste lavoratrici stanno affrontando, pagando tutto ciò che gli spetta. Entrambe le società sono attualmente oggetto di indagine da parte della Fair Labor Association in merito alle loro azioni su questo caso.

Dopo l’improvvisa perdita del lavoro, queste lavoratrici si sono ritrovate in situazioni estremamente vulnerabili, aggravate oggi dall’attuale pandemia di Covid-19 e dalle conseguenti restrizioni. Molte di loro non sono state in grado di trovare altri impieghi in fabbrica: lavorando per anni alla Jaba Garmindo, alcune sono state ritenute troppo anziane per una nuova assunzione, altre ufficiosamente escluse a causa delle loro continue campagne di pressione. Alcune di loro si sono dedicate alla vendita ambulante, all’assistenza ai bambini o al riciclo degli indumenti per racimolare qualche introito: ora affrontano difficoltà senza precedenti e la maggior parte può permettersi solo riso in bianco come pasto. Non beneficiano di protezione sociale e non potranno accedere al sistema indonesiano delle prestazioni o dei fondi relativi all’emergenza COVID-19. Molte sopravvivono prendendo in prestito denaro dove possono, ma non avendo mezzi per ripagare i loro debiti presto i problemi aumenteranno.

Uniqlo ha un’evidente responsabilità morale nei confronti di queste lavoratrici, ma da cinque anni non si assume le sue responsabilità. Gli standard internazionali impongono che le aziende affrontino e pongano rimedio agli impatti negativi sui diritti umani delle loro pratiche commerciali: se Uniqlo avesse agito in modo responsabile, le 2.000 lavoratrici della Jaba Garmindo non sarebbero ora in posizioni così disperate.

La Campagna Abiti Puliti invita inoltre UN Women, un’organizzazione che si occupa di difendere l’uguaglianza delle donne in tutto il mondo, a prendere iniziative immediate nei confronti di Uniqlo, suo Global Partner Program, per affrontare la sofferenza di queste ex lavoratrici. La Clean Clothes Campaign ha invitato UN Women ad incontrare queste donne ma non ha ancora ricevuto risposta.

Organizzazioni, individui e marchi che intrattengono rapporti commerciali con Uniqlo sono chiamati a intervenire urgentemente per chiedere a Uniqlo di garantire alle lavoratrici ciò che gli spetta. Il marchio di design finlandese Marimekko, ad esempio, lancerà la sua terza capsule collection con Uniqlo il 23 aprile. In merito a questa collaborazione Marimekko ha affermato di “condividere i valori” di Uniqlo e di credere nell’”Equità verso tutti e tutto”. Abbiamo chiesto allora a Marimekko di assicurarsi che la sua etica non sia solo vuota retorica ma al momento l’azienda ha rifiutato di incontrare i rappresentanti della Clean Clothes Campaign per discuterne.

Le 2.000 lavoratrici della Jaba Garmindo hanno atteso per cinque anni e ora, anche per le restrizioni dovute all’emergenza covid-19, vivono in situazioni estremamente pericolose senza entrate o mezzi per sostenersi. Uniqlo e S. Oliver devono immediatamente farsi avanti e pagare: è ormai una questione di vita o di morte. Chiediamo inoltre a UN Women, per tenere fede alla sua mission, di assumere con urgenza una posizione in favore dei diritti delle donne nel settore dell’abbigliamento assicurandosi che le lavoratrici della Jaba Garmindo non vengano dimenticate”, dichiara Ilona Kelly, coordinatrice per le azioni urgenti della Clean Clothes Campaign.


I grandi marchi della moda e i distributori devono intervenire adesso per proteggere i lavoratori

La pandemia di COVID-19 sta palesando la relazione di potere estremamente ineguale che sorregge la filiera tessile globale, di cui sono i lavoratori a pagare il prezzo. Oggi le numerose organizzazioni del network della Campagna Abiti Puliti richiamano a gran voce l’attenzione sulle azioni che grandi marchi e distributori - ma anche governi ed altri stakeholders- possono implementare per mitigare l’impatto della crisi su coloro che sono già estremamente sfruttati nella catena di fornitura e iniziare a costruire un futuro in cui lavoratori e lavoratrici abbiano accesso a un salario dignitoso e ad una rete di protezione sociale.

Le ultime settimane hanno reso evidenti le implicazioni derivanti dalla posizione di potere quasi egemonico dei grandi marchi e dei distributori nella filiera tessile. Non appena la pandemia ha colpito le imprese di abbigliamento più grandi al mondo, queste hanno risposto nel loro solito modo, addossando rischi e costi nella parte più bassa della filiera. Ciò ha fatto sì che molte fabbriche non hanno potuto contare su mezzi finanziari per pagare gli stipendi ai propri dipendenti, anche per ordini già eseguiti. Milioni di lavoratori sono ora senza una paga e senza la sicurezza di un lavoro, in aggiunta alle ovvie e non trascurabili ansie per i rischi sanitari.

I marchi devono comportarsi correttamente con le fabbriche con cui hanno concluso contratti” ha affermato Juan Eguigure del sindacato SITRADAHSA in Honduras. “Senza i pagamenti, i nostri datori di lavoro non possono pagarci il denaro che già ci spetta. Questo è il nostro sostentamento, senza di esso non potremo dare da mangiare alle nostre famiglie.”

"La pandemia di Covid-19 ha dimostrato che la responsabilità sociale d'impresa esiste solo come mezzo di cui le aziende dispongono per “ripulirsi” dai loro comportamenti immorali. Ora più che mai, i lavoratori necessitano di solidarietà economica da parte dei propri datori” ha affermato Evangelina Argueta del sindacato CGT in Honduras, “per molti anni i lavoratori hanno generato ricchezza in favore dei brand.”

Ora è giunto il momento in cui i brand e i distributori, inclusi quelli di e-commerce, devono smettere di approfittarsi di fornitori e lavoratori, e iniziare a ripagarli per gli anni in cui hanno incamerato profitto grazie ai bassi salari, all’assenza pressoché totale di previdenza sociale, e allo spostamento dei rischi nella parte più bassa della filiera.  

I brand e i distributori, inclusi quelli di e-commerce, devono agire in modo responsabile in questa pandemia. A tal fine devono:

  • Rispettare gli obblighi nei confronti dei fornitori, pagando gli ordini già eseguiti o in produzione;
  • Assicurare e permettere il pagamento di salari e stipendi o liquidazioni a tutti i lavoratori del settore dell’abbigliamento, del tessile, delle calzature e della logistica che sono stati assunti al sorgere di questa crisi; 
  • Garantire che coloro che lavorano durante la pandemia siano effettivamente in grado di attenersi ai protocolli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, e che vengano loro offerte altre tutele giuslavoristiche quali strutture o assegni per l’infanzia, assicurazioni sanitarie, copertura in caso di malattia, e retribuzione legata al rischio lavorativo; 
  • Permettere ai lavoratori di rifiutarsi di lavorare in assenza di protezioni, e di rimanere in casa senza subire discriminazioni per coloro che sono malati, o i cui familiari siano malati. 

Il minimo che marchi e distributori possono fare durante la crisi è pagare per gli ordini già eseguiti. Quando la pratica della maggior parte dei brand di annullare tali ordini è stata criticata, diverse aziende sono tornate sui loro passi, per il sollievo dei fornitori” ha affermato Liana Foxvog dell’International Labor Rights Forum. “Tuttavia molti pesci grossi quali C&A, Gap, Nike e Uniqlo, perseverano nel non pagare per ordini già eseguiti o per i quali la produzione è già avviata; altri hanno implementato alternative francamente non adeguate, come ad esempio la proposta di Primark di istituire un fondo che copra la componente del costo del lavoro degli ordini che ha cancellato.”

Per alleggerire i problemi dei lavoratori i cui mezzi di sostentamento sono minacciati da questa crisi, è necessario creare fondi di emergenza e pacchetti di sostegno economico specifici per il settore tessile, ai quali dovrebbero contribuire le istituzioni finanziarie internazionali, governi donatori, marchi e distributori. Tali fondi dovrebbero partire il prima possibile affinché tali pagamenti siano effettuati rapidamente, attraverso il meccanismo più efficace disponibile in ciascun Paese. Laddove possibile, ciò andrebbe fatto sostenendo la capacità dei datori di mantenere stabili contratti e salari. 

Se la crisi è causata dall’arresto della domanda, degli acquisti e delle linee di produzione dell’abbigliamento, è anche esacerbata dalla mancanza di protezione sociale nella maggior parte dei Paesi in cui si producono abiti.

I governi dei paesi di produzione devono impegnarsi fin da subito a implementare e migliorare i programmi di previdenza sociale, così da allinearli agli standard dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) relativi alla disoccupazione,  agli infortuni sul lavoro e all’assicurazione sanitaria. Siffatte operazioni dovrebbe essere effettuate di concerto con le aziende manifatturiere e con la contribuzione economica dei marchi, mediante l’istituzione di meccanismi di comparto dei costi trasparenti e tracciabili.

Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti sottolinea: “La crisi è arrivata come un pugno in faccia per farci rendere conto, speriamo definitivamente, che un modello economico basato sulla compressione massima dei costi, sullo sfruttamento illimitato delle risorse e sulla assenza di reti di protezione sociale solide per chi lavora è semplicemente insostenibile. Le catene di fornitura globali, se torneranno ad operare, dovranno essere radicalmente riformate, mettendo al centro il tema della redistribuzione del valore e l’istituzione di sistemi di assistenza e previdenza sociale per tutti i lavoratori della filiera

I governi dei paesi ove i marchi e i distributori hanno la propria sede centrale, dovrebbero riformare la normativa su quelle pratiche di concorrenza sleale che portano a violazioni di diritti umani nella filiera internazionale, obbligando per legge le società al rispetto dei diritti umani nelle proprie operazioni e lungo tutta la filiera che movimentano. Inoltre tali società dovrebbero essere portate in tribunale, qualora non conducano una dovuta diligenza sul rispetto dei diritti umani lungo la filiera.  

Che l’abusiva sperequazione nei rapporti di filiera rimanga un fatto del passato: il momento è ora. Quando questa crisi sarà superata, sarà fondamentale sventare il rischio di tornare ad una normalità che era semplicemente patologica. Questa crisi dovrà tracciare la strada per una economia finalmente più equa, resiliente e sostenibile.

Scopri l'elenco completo di richieste Immediate in Difesa dei Lavoratori Tessili nella Filiera Globale


Abiti puliti LIVE - INCATENATI DALLE CATENE GLOBALI

Giovedì 16 aprile alle ore 17, per il ciclo Tra le trame della crisi,
INCATENATI DALLE CATENE GLOBALI
Insieme agli ospiti analizzeremo gli impatti della pandemia di Covid19 sulle filiere tessili globali

Interverranno:

  • Devi Sacchetto, Docente di Sociologia del lavoro
  • Giorgio Grappi, assegnista UniBO e collettivo connessioni precarie
  • Paola Sampino, operaia del Polo Logistico di Stradella e delegata SICobas

Modera: Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti


Covid-19: cresce l'insicurezza per i lavoratori e le lavoratrici tessili

Garment factory in Dhaka Bangladesh in the Mohakhali area.

La pandemia globale di COVID-19 continua a crescere e diffondersi. In questo momento, oltre un terzo della popolazione mondiale è interessato da una qualche forma di lock down o restrizione dei movimenti per controllare l’espansione del virus.  I lavoratori tessili nelle filiere globali, già costretti in situazioni di vita precarie, affrontano una crescente insicurezza man mano che le fabbriche chiudono per il calo degli ordini e le misure governative restrittive per proteggere la salute pubblica.

In particolare i lavoratori sono stati colpiti da ciascuna delle tre ondate di questa pandemia. La prima si è verificata quando la Cina ha identificato il COVID-19 nella sua popolazione: smettendo di esportare le materie prime necessarie per la produzione di abbigliamento, ha costretto molte fabbriche nel sud e nel sud-est asiatico a chiudere temporaneamente e rimandare a casa i lavoratori, spesso senza preavviso e salari. La seconda quando il virus è arrivato in Europa e negli Stati Uniti: le aziende della moda hanno annullato gli ordini in corso senza pagarli e molte hanno smesso di effettuarne altri; le fabbriche di fornitori, che operano con margini ridotti a causa dei prezzi troppo bassi, sono state costrette ancora una volta a chiudere e mandare i lavoratori a casa senza paga. L'ultima ondata riguarda la diffusione del virus proprio nei Paesi produttori: alcuni di essi hanno chiuso gli impianti come misura precauzionale, ancora una volta lasciando a casa gli operai senza stipendio; altri hanno deciso di lasciarli aperti, nonostante il significativo rischio per la salute dei lavoratori nelle fabbriche affollate. Ciò accade anche nel segmento a valle della filiera, dove si addensano situazioni di rischio e vulnerabilità per quei lavoratori che nei magazzini processano gli ordini tuttora in corso per i grandi gruppi multinazionali. Come per esempio gli oltre 500 lavoratori e lavoratrici del polo logistico di Stradella, dove ancora sono smistati gli ordini H&M acquistati online, i quali hanno denunciato le gravi inadempienze in materia di sicurezza ai tempi del coronavirus.

Anton Marcus, Sottosegretario del Free Trade Zones & General Services Employees Union, ha dichiarato: “L'impatto del COVID-19 sui lavoratori dell'abbigliamento in Sri Lanka è stato immenso. I lavoratori, tornati nei loro villaggi senza avere percepito i salari di marzo, stanno attraversando un momento molto difficile non riuscendo a sostenere le loro famiglie. I datori di lavoro stanno sfruttando questa situazione per licenziare e ridurre benefici e stipendi dei dipendenti, dando la responsabilità al ritiro o alla riduzione degli ordini dei loro clienti. In questa situazione i lavoratori a contratto saranno i più colpiti”.

In alcuni casi questi effetti sono stati esacerbati dalla cattiva gestione della crisi da parte dei governi nazionali. L'India ha improvvisamente annunciato un blocco nazionale, lasciando i lavoratori migranti domestici senza mezzi di sussistenza o accesso ai trasporti per tornare a casa. Alcuni di essi sono stati costretti a camminare per centinaia di chilometri verso le loro città e i loro villaggi. In altri paesi, come la Cambogia e le Filippine, le misure per combattere il virus stanno limitando ulteriormente lo spazio civico, compresa la libertà dei lavoratori di organizzarsi. In Myanmar gli imprenditori hanno usato la pandemia come pretesto per reprimere il sindacato, assicurandosi che i lavoratori sindacalizzati fossero i primi ad essere licenziati dalle imprese in difficoltà finanziaria.

Due recenti report del Worker Rights Consortium, del Penn State Center for Global Workers’ Rights e della Clean Clothes CampaignWho will bail out the worker s that make our clothes?” and “Abandoned? The Impact of Covid-19 on Workers and Businesses at the Bottom of Global Supply Chains” mettono in luce le cause all’origine dei catastrofici effetti del Covid-19 nelle catene di fornitura. L'estrema interconnessione e l’asimmetria di potere tipica delle catene di approvvigionamento ha permesso ai marchi e ai distributori di scaricare le conseguenze del calo della domanda sui fornitori. Le imprese di abbigliamento pagano solo alla consegna - con le fabbriche che sostengono i costi generali e di manodopera - e hanno il potere di decidere di non pagare gli ordini, anche se ciò significa, di fatto, una violazionecontrattuale. Ciò significa che i proprietari delle fabbriche di tutto il mondo sono lasciati senza liquidità per pagare i salari dei lavoratori di marzo e ancora peggio sarà per i mesi a venire, quando nessun ordine probabilmente arriverà. Nella stragrande maggioranza dei paesi produttori di abbigliamento, meccanismi di protezione sociale come l'assicurazione sanitaria, l'indennità di disoccupazione o i fondi di garanzia in caso di insolvenza sono assenti o insufficienti, in parte a causa di decenni di pressione al ribasso sui prezzi pagati dalle imprese committenti. Anni di incapacità di intraprendere azioni significative sui salari hanno lasciato i lavoratori senza risparmi e senza rete.

Dalla pubblicazione di questi due documenti, un piccolo numero di marchi ha accettato di adempiere ai propri obblighi contrattuali e di pagare gli ordini che le fabbriche stavano già producendo: H&M, PVH Corp., che possiede Tommy Hilfiger e Calvin Klein, Inditex, proprietario di Zara, e Target.

Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti afferma: “E’ fondamentale che i marchi in questo momento assolvano i loro obblighi contrattuali e paghino gli ordini effettuati e in molti casi già prodotti. In questa drammatica situazione, è urgente garantire a tutti i lavoratori nelle filiere globali risorse sufficienti a soddisfare i bisogni delle loro famiglie e a sopravvivere alla crisi, a partire dalla corresponsione dei salari e dei benefit dovuti per i mesi in corso. Le imprese multinazionali hanno costruito la loro ricchezza sull’utilizzo di milioni di lavoratori sottopagati in paesi dove non sono presenti le infrastrutture di protezione sociale necessarie a tutelare i lavoratori nei momenti di crisi. Questa crisi deve produrre un cambio strutturale del modello di business, a partire dalla introduzione di meccanismi di regolazione delle filiere global e di norme vincolanti per le imprese, a tutti i livelli

Le istituzioni finanziarie internazionali si stanno già impegnando a mobilitare miliardi di dollari per sostenere le economie dei Paesi produttori. È fondamentale che tale sforzo includa l’impegno di mettere al primo posto le esigenze dei lavoratori, unitamente a meccanismi che garantiscano che tale sostegno li raggiunga direttamente. I sindacati globali hanno formulato raccomandazioni su come queste istituzioni possano garantire una risposta urgente ed equa alla crisi. È della massima importanza che i lavoratori, nelle fabbriche di produzione, nella logistica e fino alla distribuzione, siano al centro delle soluzioni economiche per superare questa crisi e per garantire che le misure per salvaguardare la salute delle persone non acuiscano invece loro miseria e fragilità


Chi salverà i lavoratori che producono i nostri vestiti?

di Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti

Un documento del Worker Rights Consortium, redatto in collaborazione con la Clean Clothes Campaign, propone un primo ragionamento sugli impatti che l’attuale pandemia da coronavirus avrà sui lavoratori del settore moda. I Paesi ricchi metteranno a disposizione misure economiche mai viste per fronteggiare la crisi, proteggere le loro imprese e i lavoratori. Ma cosa succederà agli operai del tessile-abbigliamento, addensati in Paesi a basso reddito dove le infrastrutture sociali per tutelare i lavoratori dalle crisi spesso non esistono o sono fragili?

Parliamo di 150 milioni di persone che producono beni per l’America del Nord, l’Europa e il Giappone e altre decine di milioni impiegati nei servizi. Nel solo settore tessile-abbigliamento sono almeno 50 milioni di operai, quasi tutte donne, con stipendi di povertà senza alcuna possibilità di accumulare risparmio.

Il documento prova a identificare i fattori che stanno esacerbando la crisi per quei settori, come la moda, basati su un modello produttivo insostenibile (la fast fashion) e su filiere globali che hanno deliberatamente prodotto una limitazione delle responsabilità dei marchi committenti verso i fornitori, terminali ultimi delle conseguenze della crisi. Il rischio, che in alcuni casi è già una realtà, è che i grandi player del mercato utilizzino la pandemia per giustificare pratiche commerciali piratesche (cancellazione degli ordini in corso o addirittura già in consegna, rifiuto di pagare per merce già prodotta, etc..). Le imprese fornitrici, prive della forza economica necessaria, non potranno difendersi legalmente e, operando con margini bassissimi, non avranno le riserve finanziarie, né l’accesso al credito, per resistere allo shock prodotto dal blocco globale delle vendite.

In molti Paesi produttori i governi non finanziano direttamente le misure legali di protezione sociale per chi perde il lavoro: impongono di farlo ai datori di lavoro. Il problema è, come sempre, l’applicazione di tali obblighi: le imprese, in assenza di continuità produttiva per la cessazione degli ordini per il mercato estero, potranno sottrarsi con facilità alle loro responsabilità. Milioni di lavoratori informali o precari saranno comunque esclusi dai benefit. Inoltre, per i lavoratori che saranno costretti a recarsi in fabbrica si fa scottante il tema della sicurezza: è molto improbabile che siano messe in atto misure e protezioni individuali adeguate a garantire il distanziamento sociale in strutture normalmente sovraffollate.

E’ chiaro che sarà necessario un massiccio intervento pubblico per prevenire la catastrofe economica e sociale. Ed è altrettanto chiaro che i Paesi a basso reddito, con finanze scarse e infrastrutture di protezione sociale deboli o inesistenti, non saranno in grado di fronteggiare le conseguenze strutturali della crisi a medio e lungo termine. Ma i pacchetti finanziari messi in campo dai governi a capitalismo maturo non paiono mettere in conto misure di sostegno a favore di coloro che hanno prodotto in larga parte la ricchezza delle loro multinazionali: i milioni di lavoratori del Sud e dell’Est globale sono i grandi esclusi dai salvataggi in epoca di pandemia.

Per affrontare questa drammatica crisi e dare risposte ai lavoratori più vulnerabili delle catene di fornitura globali, occorre uno sforzo congiunto che veda da una parte i grandi marchi assumere condotte responsabili nella gestione dei rapporti commerciali con i fornitori per consentire loro di onorare gli obblighi verso i dipendenti; dall’altra la necessità di una risposta collettiva da parte di tutti i governi, delle istituzioni finanziarie e degli organismi internazionali affinché sia possibile mantenere un reddito a tutti lavoratori nel mondo oggi sull’orlo del baratro. I marchi, invece di spostare tutto il peso sulla filiera, devono condividere la responsabilità e i costi finanziari della crisi, mettendo al centro delle loro priorità il rispetto degli obblighi verso i fornitori e verso tutti i lavoratori. Queste risorse non saranno comunque sufficienti: perciò è necessario che i piani di salvataggio multimilionari predisposti dalle istituzioni internazionali e dai governi ricchi guardino anche ai destini dei soggetti più vulnerabili dispersi nelle catene globali di fornitura.

Gli aiuti futuri destinati ai Paesi produttori per far fronte alla crisi Covid-19 dovranno essere condizionati da una parte all’impegno dei loro governi a creare, nel medio periodo, robusti sistemi nazionali di protezione sociale; dall’altra all’impegno delle imprese multinazionali a siglare accordi vincolanti di filiera che riflettano prezzi di acquisto sufficienti a garantire il finanziamento ordinario di tali sistemi di protezione.

L’attuale pandemia svela definitivamente l’estrema insostenibilità di un modello di business basato sullo sfruttamento endemico di milioni di lavoratori che ricevono salari di povertà, su una forte asimmetria di potere tra marchi e fornitori che permette ai primi di addossare tutte le responsabilità alle parti deboli della filiera, su una totale assenza di accountability da parte delle imprese committenti che dovrebbero invece essere obbligate per legge alla dovuta diligenza sui diritti umani per identificare, prevenire, mitigare e riparare i danni derivanti dagli impatti delle loro attività economiche sulle comunità e sui lavoratori.

Una cosa è certa. Questa crisi offre l’opportunità di ripensare il modello di produzione e consumo patologico che ha inasprito l’attuale catastrofe economica perché non si torni al passato. E’ imperativo usare questo tempo drammatico e fecondo per gettare le basi per una industria più equa, sostenibile e resiliente nei fatti, non solo nelle pagine patinate dei rapporti di sostenibilità o dei codici di condotta unilaterali che popolano i siti delle imprese.

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Coronavirus: i marchi tutelino i lavoratori del tessile

I marchi devono assumere misure immediate per minimizzare l’impatto del coronavirus sulla salute e la vita dei lavoratori del settore moda.

Il nuovo coronavirus ha raggiunto livelli di pandemia globale e sta colpendo le persone in tutto il mondo, compresi i lavoratori dell'abbigliamento nelle catene di fornitura globali. Proteggerli significa prendere misure per limitare la loro esposizione e garantire che chi lotta quotidianamente per la sopravvivenza non sia spinto sotto la soglia di povertà.

A causa infatti dei bassi salari e della diffusa repressione della libertà di associazione, i lavoratori tessili vivono già in situazioni precarie e le ricadute economiche della pandemia stanno avendo conseguenze di vasta portata.

Esortiamo tutti i marchi dell’abbigliamento ad adottare immediatamente misure proattive di due diligence per proteggere i lavoratori che producono le loro merci: i marchi devono assumersi le loro responsabilità e garantire che coloro che hanno reso possibili i loro profitti non si facciano carico dell'onere finanziario di questa pandemia.

Molte fabbriche nei paesi produttori stanno chiudendo o sono a rischio di chiusura a causa della scarsità di materie prime, della riduzione degli ordini e delle preoccupazioni per la salute pubblica. I lavoratori dell'abbigliamento guadagnano già uno stipendio da fame, con salari che coprono a malapena le loro esigenze di base, senza lasciare nulla in più per gestire le emergenze o i periodi di assenza dal lavoro. Queste chiusure, sia temporanee che permanenti, li stanno spingendo verso il baratro - soprattutto i lavoratori migranti che potrebbero non avere reti sociali locali su cui fare affidamento e potrebbero dover affrontare ulteriori restrizioni o attacchi xenofobi.

Secondo le inchieste dei media e le informazioni che abbiamo raccolto attraverso la nostra rete di partner, i Paesi più colpiti sono lo Sri Lanka, il Bangladesh, l'Indonesia, l'Albania e gli stati dell'America centrale.

I lavoratori tessili vivono alla giornata. Se perdono il lavoro, perderanno il loro salario mensile che gli permette di mettere in tavola il cibo per loro e per le loro famiglie", ha detto Kalpona Akter, presidente del Bangladesh Garment & Industrial Workers Federation. "In caso di licenziamento dei lavoratori, i marchi dovrebbero garantire pagamenti immediati ai fornitori, in modo che i lavoratori possano ricevere piena indennità di licenziamento come previsto dalla legge".

Già da alcune settimane la situazione è particolarmente grave in Cambogia e in Myanmar. Circa il 10% delle fabbriche di abbigliamento nella regione di Yangon in Myanmar è temporaneamente chiuso e i lavoratori non ricevono il loro stipendio. Il trattamento di fine rapporto, che spetta se la chiusura della fabbrica dura più di tre mesi, ammonta solo alla metà dello stipendio mensile per ciascun anno di lavoro, dopo un periodo iniziale di prova di sei mesi. Molte fabbriche in Myanmar hanno aperto solo negli ultimi cinque anni, il turnover dei lavoratori è molto alto e quindi molti di essi rimarranno senza nulla. Secondo i nostri contatti le chiusure delle fabbriche sono utilizzate anche per reprimere la libertà di organizzazione dei lavoratori in tutto il Paese.

I lavoratori temono inoltre che il coronavirus abbia un impatto sul loro diritto alle festività pubbliche pagate. Il Festival dell'acqua, il Capodanno del Myanmar, si svolge in aprile e viene celebrato ogni anno con congedo pagato di dieci giorni. Quest'anno i festeggiamenti pubblici sono stati cancellati a causa dei timori di infezione e i lavoratori temono che le fabbriche non permettano loro di prendere il congedo, contando invece ogni assenza come malattia non retribuita.

Il quadro in Cambogia è altrettanto preoccupante: decine di migliaia di lavoratori dell'abbigliamento potrebbero perdere il lavoro nelle prossime settimane, se la situazione delle materie prime non migliora. Secondo la legge nazionale, i datori di lavoro devono richiedere l’autorizzazione per sospendere i lavoratori, cui devono corrispondere il 40% dei 190 dollari di salario minimo mensile e dare la possibilità di seguire corsi di formazione, per guadagnare un ulteriore 20%. Tuttavia i rapporti governativi ora suggeriscono che i lavoratori potrebbero ricevere il 60% del salario minimo per soli sei mesi e diverse imprese hanno già sospeso i lavoratori senza autorizzazione. Molti di essi vivono già indebitati, chiedendo prestiti per compensare le carenze del loro misero salario, ora si trovano in una situazione in cui non possono permettersi di pagare le rate mensili, rischiando anche di perdere eventuali terreni di famiglia messi a garanzia.

"I marchi di abbigliamento hanno tratto profitto dal lavoro degli operai cambogiani. Ora devono fare un passo avanti in questo periodo di crisi e garantire la protezione della loro vita e dei loro mezzi di sussistenza. I lavoratori dovrebbero poter rimanere a casa fino a quando la situazione non sarà gestibile e i marchi devono garantire che ricevano il loro stipendio regolare, bonus di presenza e indennità di trasporto e alloggio durante tutto il periodo", ha dichiarato Tola Moeun, Direttore Esecutivo del Center for Alliance of Labor and Human Rights (CENTRAL).

I brand devono stare al fianco dei lavoratori che confezionano i loro abiti e attivarsi immediatamente per garantire che continuino a ricevere il loro salario durante le chiusure delle fabbriche o le assenze per malattia. Chiediamo ai marchi di impegnarsi pubblicamente a svolgere un'adeguata due diligence per quanto riguarda gli eventi che si verificheranno in seguito alla diffusione del COVID-19.

In particolare, nel momento di una crisi pandemica, i marchi devono:

  • Garantire che le fabbriche fornitrici rispettino gli obblighi o le raccomandazioni governative sulla sospensione dei grandi raduni e se necessario la chiusura delle fabbriche per la durata appropriata a proteggere la salute dei lavoratori e delle loro comunità, mantenendo in essere al tempo stesso i contratti di tutti i lavoratori e il pagamento regolare di tutti i loro salari;
  • Garantire che i lavoratori che vengono mandati a casa per mancanza di lavoro siano coperti con il loro pieno e regolare salario;
  • Garantire che i lavoratori che contraggano il virus, o che sospettino di averlo, possano prendere un congedo per malattia senza ripercussioni negative e siano retribuiti con il loro pieno e regolare salario durante tutto il periodo di recupero e di autoisolamento;
  • Garantire che, alla riapertura delle fabbriche, le scadenze degli ordini siano rivalutate per evitare che i lavoratori facciano gli straordinari obbligatori per recuperare i ritardi;
  • Garantire che le misure di lotta contro il virus non limitino indebitamente la libertà di movimento dei lavoratori o la loro libertà di organizzazione.

In tempi di paura e disinformazione è di vitale importanza astenersi dal diffondere informazioni non verificate e assicurarsi che tutte le comunicazioni sul virus e le sue conseguenze si basino su fonti affidabili. I marchi devono garantire che i lavoratori delle fabbriche fornitrici ricevano informazioni accurate e aggiornate dai loro datori di lavoro. 

In un periodo di crisi, la forza si trova nella solidarietà e siamo orgogliosi di far parte di una comunità globale. Ci schieriamo con i lavoratori i cui diritti sono violati ogni giorno e che stanno affrontando battaglie economiche ancora più grandi a causa di questa pandemia. La necessità di lottare per i diritti dei lavoratori continua oggi più che mai e all’ombra di questa crisi la necessità di un salario dignitoso si fa sempre più incombente.


La risposta congiunta della società civile allo studio della Commissione Europea sul dovere di vigilanza nella catena di fornitura

Nove organizzazioni e reti della società civile - inclusa la Clean Clothes Campaign - accolgono molto positivamente i risultati dello studio della Commissione Europea sui requisiti di due diligence per la catena di fornitura pubblicato a Febbraio 2020.

Scarica il documento 


EVENTO: Facciamo luce sul lato oscuro della moda

3 VIDEO-DOC E 1 GRANDE EVENTO PER SVELARE LE TRAME DELLA FAST FASHION
18 marzo | 23 aprile | 27 maggio 2020
Preparatevi! #cambiamoda #trasparenza #nomoreranaplaza

Photo © Edu Lauton


(2019) REPORT: Impegno per la trasparenza: scopri come si comportano i marchi della moda

Nel 2016, una coalizione di sindacati e organizzazioni della società civile impegnate nella difesa dei diritti umani e dei lavoratori ha dato vita all’Impegno per la Trasparenza (Transparency Pledge), un insieme di requisiti minimi per rendere trasparenti le catene di fornitura dei brand e permettere ad attivisti, lavoratori e consumatori di ricostruire la provenienza dei beni prodotti.

Il rapporto “La prossima tendenza della moda: accelerare la trasparenza di filiera nell’industria dell’abbigliamento e calzature mostra come, da allora, decine di marchi della moda abbiano deciso di aderire a questa iniziativa, divulgando un numero sempre maggiore di informazioni sulle loro filiere.

La trasparenza è ormai largamente riconosciuta come un passo importante per favorire l’identificazione e la gestione degli abusi sui lavoratori nelle catene di approvvigionamento del settore tessile.

Non è una panacea, ma è fondamentale per un’azienda che si definisce etica e sostenibile“, ha affermato Aruna Kashyap, consulente senior per i diritti delle donne di Human Rights Watch. “Tutti i marchi dovrebbero essere trasparenti: per questo sono necessarie leggi che impongano la trasparenza insieme a pratiche che garantiscano il rispetto dei diritti umani

La coalizione ha finora contattato 74 aziende1chiedendogli di pubblicare le informazioni richieste dal Transparency Pledge: di queste 22 hanno aderito pienamente2, 31 solo in parte, 21 quasi per nulla3. Alle 22 virtuose, se ne sono aggiunte altre 17 di loro spontanea iniziativa4.

La trasparenza è importante per costringere le aziende ad assumersi le proprie responsabilità. È la garanzia che il marchio è a conoscenza di tutte le fasi di produzione dei suoi beni, consentendo ai lavoratori e agli attivisti da una parte di allertarlo in caso di violazioni, dall’altro di accedere rapidamente a tutti gli strumenti di rivalsa per gli abusi subiti.

Non possiamo però affidarci solo alla buona volontà delle imprese. Più efficaci sarebbero norme nazionali specifiche per imporre alle aziende la due diligence in tema di diritti umani lungo le loro catene di fornitura, obbligandole innanzitutto alla pubblicazione delle informazioni relative alle fabbriche in cui si riforniscono.

Dalla metà del 2018, la stessa coalizione è impegnata con sette Iniziative per il business responsabile (Responsible Business Initiatives – RBIs), per cercare di indirizzare le loro pratiche di business verso modelli etici e promuovere la trasparenza delle filiere tra i loro membri. Ma non essendoci obbligatorietà nella pubblicazione delle fabbriche fornitrici, i comportamenti degli aderenti a questi gruppi variano molto: per questo la coalizione ha chiesto a queste Iniziative di giocare un ruolo determinante, imponendo a chi volesse diventare loro membro, come condizione vincolante per l’adesione, almeno la pubblicazione delle informazioni richieste dall’Impegno per la trasparenza.

Non è più accettabile che iniziative volte a promuovere un business responsabile e pratiche aziendali più etiche non impongano la trasparenza alle aziende quale requisito minimo di affiliazione” ha dichiarato Deborah Lucchetti, coordinatrice delle Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign. “L’accesso pubblico alle informazioni minime sulle catene di fornitura previste dall’Impegno per la Trasparenza è vitale per consentire ai lavoratori e agli attivisti di identificare e contrastare gli abusi nelle fabbriche”.

Così ad esempio ha fatto l’iniziativa americana Fair Labor Association. A novembre ha annunciato l’obbligo per tutti i suoi aderenti di pubblicare le informazioni sulle loro catene di fornitura in linea con lo standard del Transparency Pledge e renderle disponibili in un formato aperto e accessibile entro il 31 marzo 2020. L’organizzazione ha stimato che più di 50 marchi e distributori dovranno adeguarsi a questo obbligo e che da aprile 2020 potrebbero essere soggetti a una speciale revisione in caso di inadempienza.

Il Dutch Agreement on Sustainable Garments and Textiles (AGT) non ha reso l’obbligo di trasparenza un requisito di adesione ma ha chiesto ai suoi membri di fornire le informazioni al suo segretariato che a sua volta le pubblicherà attraverso l’Open Apparel Registry, un database facilmente accessibile che fornisce informazioni sull’affiliazione delle fabbriche ai marchi e alle Iniziative per il business responsabile.

La United Kingdom Ethical Trading Initiative e la Fair Wear Foundation hanno adottato misure incrementali per migliorare la trasparenza dei loro membri.  La Sustainable Apparel Coalition, amfori, e la German Partnership on Sustainable Textiles non hanno invece fatto nulla per legare la trasparenza ai requisiti di affiliazione.

I governi possono giocare un ruolo fondamentale emanando la legislazione necessaria ad imporre alle aziende la due diligence in materia di diritti umani lungo le loro catene globali di fornitura e la trasparenza su dove vengono realizzati i loro prodotti“, ha affermato Bob Jeffcott, analista politico presso il Maquila Solidarity Network. “Tali norme sono fondamentali per creare condizioni di parità tra le imprese e per proteggere i diritti dei lavoratori“.

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1 Per maggiori informazioni sulle 74 aziende contattate dalla coalizione e le altre aziende che hanno aderito al Pledge o si sono impegnata a farlo: https://airtable.com/shrycG3Ylj9wFY2lH/tbljLFp4O3qk0dmVN/viwqDL8ndd3XgcpyK?blocks=bipTM9f7Xn4HdfnXs

2 adidas, ASICS, ASOS, Benetton, C&A, Clarks, Cotton On, Esprit, G-Star RAW, H&M, Hanesbrands, Levi Strauss, Lindex, Mountain Equipment Co-op, New Balance, New Look, Next, Nike, Patagonia, Pentland Brands, PVH Corporation, and VF Corporation.

31 imprese si sono impegnate a pubblicare almeno la lista e l’indirizzo dei loro fornitori ma sono ancora lontane dallo standard previsto dall’Iniziativa per la Trasparenza. Si tratta di: ALDI North, ALDI South, Amazon, Arcadia Group, Bestseller, Coles, Columbia, Debenhams, Disney, Fast Retailing, Gap, Hudson’s Bay Company, Hugo Boss, John Lewis, Kmart Australia, Lidl, Marks and Spencer, Matalan, Mizuno, Morrisons, Primark, Puma, Rip Curl, Sainsbury, Shop Direct, Target Australia, Target USA, Tchibo, Tesco, Under Armour, Woolworths, e Zalando.

3 Di queste:

  • 18 aziende non hanno ancora pubblicato alcuna informazione
    American Eagle Outfitters, Armani, Canadian Tire, Carrefour, Carter’s, Decathlon, Dicks’ Sporting Goods, Foot Locker, Forever 21, Inditex, KiK, Mango, Ralph Lauren, River Island, Sports Direct, The Children’s Place, Urban Outfitters, e Walmart.
  • 2 aziende hanno pubblicato solo i nomi delle aziende e i Paesi in cui operano:
    Abercrombie & Fitch e Loblaws
  • 1 azienda si è impegnata a pubblicare i nomi e i Paesi nel 2020:Desigual

4Alchemist, Dare to Be, Eileen Fisher, Fanatics, Fruit of the Loom, HEMA, KappAhl, Kings of Indigo, Kontoor Brands, Kuyichi, Lacoste, Lululemon Athletica, Okimono, Schijvens, Toms, We Fashion e Zeeman. Gildan ha cominciato a pubblicare dei dati ma è ancora lontana dallo standard previsto dall’Iniziativa per la Trasparenza

Sommario in italiano
Report completo in inglese

Chiedi trasparenza ai marchi


Incendio in una fabbrica in India: oltre 40 persone morte. Giustizia per le vittime

Domenica scorsa, oltre 40 persone sono morte in un incendio in una fabbrica tessile a Delhi, in India. Ancora una volta ci troviamo a dover denunciare l’esigenza di norme trasparenti ed efficaci per la sicurezza degli edifici e le pratiche antincendio. Il governo ha annunciato alcune misure di risarcimento, ma bisogna subito lavorare per garantire pieno accesso alla giustizia per le vittime e i loro familiari.

Secondo i media locali, l'incendio è divampato domenica mattina presto in una fabbrica situata in un’area residenziale di Delhi, all’interno di un edificio che ospita anche altre produzioni, non solo tessili. Molti degli operai, in gran parte migranti e alcuni di loro minorenni, stavano dormendo all’interno dello stabile. Il nostro pensiero va innanzitutto alle famiglie che hanno perso i loro cari e a tutte le persone colpite da questa orribile tragedia.

Palesi violazioni della sicurezza hanno impedito alle persone di fuggire e mettersi in salvo. Secondo quanto riferito, una delle due scale dell'edificio era bloccata dai prodotti accatastati, le finestre erano sbarrate e l'unica uscita accessibile era bloccata. Funzionari hanno riferito che lo stabilimento non disponeva di alcuna licenza di sicurezza e molte fonti sostengono che operasse nella completa illegalità. Per di più, le strette vie in cui si trova l’edificio hanno ulteriormente ostacolato le operazioni di salvataggio.

Disastri come questo mostrano l'urgente necessità di applicare norme antincendio e di sicurezza degli edifici in maniera trasparente e credibile. I sistemi di ispezione esistenti, compreso l’utilizzo di società di certificazione sociale, pagate dalle multinazionali per controllare le fabbriche di loro fornitori, finora non sono riusciti a migliorare strutturalmente la sicurezza degli stabilimenti.

Il governo di Delhi ha annunciato lo stanziamento di 10.000,00 INR (circa 12.700 EUR) a titolo di risarcimento per i defunti e 100.000 INR (circa 1.270 EUR) per le spese mediche per i lavoratori feriti. Inoltre si è impegnato a pagare 200.000 INR (circa 2.500 EUR) alle famiglie dei defunti e 50.000 INR (circa 635 EUR) a quelle dei feriti. Un’iniziativa lodevole ma non sufficiente. Le misure di indennizzo, almeno per la perdita di reddito e le spese mediche, dovrebbero coprire le esigenze a lungo termine delle famiglie, come stabilito nella Convenzione ILO 121 per i risarcimenti in caso di infortuni sul lavoro. Inoltre, gli accordi dovrebbero tenere conto del dolore e della sofferenza subita dai lavoratori e dai loro familiari.

Non è ancora chiaro se la fabbrica stesse producendo per l'esportazione o per il crescente mercato interno. In ogni caso, chiunque abbia effettuato degli ordini in quella fabbrica dovrebbe assumersi la responsabilità di risarcire le vittime che stavano realizzando i loro prodotti.

Ci chiediamo inoltre perché quelle persone stessero dormendo nella fabbrica, per di più durante il fine settimana e con la produzione ferma. Non potevano permettersi i costi di un alloggio o del trasporto? È chiaro che si apre anche una questione relativa ai salari dignitosi dei lavoratori, in particolare di quelli più vulnerabili come i migranti.

Sono necessari ulteriori passi per garantire giustizia ai lavoratori e qualcosa sembra essersi già messo in moto. Il governo di Delhi ha ordinato un'inchiesta giudiziaria e sono state presentate accuse contro il proprietario dell'edificio. Questa tragedia dovrebbe essere un’occasione per porre fine all'impunità di chi gioca con la vita dei lavoratori, gestendo luoghi di lavoro illegali e insicuri.


Amazon fa un passo verso la trasparenza. Ma potrebbe fare di più.

Il 15 novembre Amazon ha compiuto un primo passo verso la trasparenza pubblicando i nomi, gli indirizzi e altri dettagli di oltre 1000 “strutture che producono beni a marchio Amazon”. Ma se l’azienda ha davvero a cuore la trasparenza, allora deve fare di più.

Secondo gli standard previsti dal “Transparency Pledge”, un’iniziativa realizzata da una coalizione internazionale*, tra cui figura anche la Campagna Abiti Puliti, che fissa le informazioni minime necessarie a rendere un’azienda trasparente nei confronti dei suoi lavoratori e consumatori, l’elenco pubblicato dal colosso dell’e-commerce non è abbastanza specifico per sapere cosa o dove i prodotti vengono realizzati e non è in un formato facilmente accessibile o filtrabile.

Una multinazionale così grande non può sottrarsi al dovere di essere quanto più trasparente possibile. Non è una questione di dettagli: i requisiti del Transaperncy Pledge sono il minimo indispensabile per mettere nelle condizioni lavoratori e attivisti di poter allertare i marchi in caso di violazioni lungo la catena di fornitura. Pur apprezzando questo primo passo, ancora molta strada resta da percorrere.” dichiara Deborah Lucchetti portavoce della Campagna Abiti Puliti

Il settore dell’e-commerce è in rapida espansione in tutto il mondo. Anche in Italia il fatturato è in crescita costante. Le risorse da investire nella tutela dei lavoratori e delle lavoratrici della propria catena di produzione non mancano di certo. 

Ci auguriamo che anche Amazon decida di seguire il percorso già tracciato da oltre 70 aziende contattate dalla coalizione, allineando le sue pratiche di trasparenza con lo standard minimo del Transparency Pledge” ha concluso Lucchetti.

*La coalizione sul Transparency Pledge è stata costituita nel 2016 con l'obiettivo di rendere la trasparenza della catena di fornitura una norma nell'industria dell'abbigliamento e delle calzature. È composta da nove membri: sei organizzazioni non governative internazionali - Clean Clothes Campaign, Human Rights Watch, International Corporate Accountability Roundtable, International Labor Rights Forum, Maquila Solidarity Network, and Worker Rights Consortium – e tre sindacati globali -  IndustriALL, International Trade Union Confederation e UNI Global Union.


Quanto costa produrre un maglione di Zara? Come Inditex usurpa la parola Rispetto

Un’indagine esclusiva di Public Eye mostra l’ipocrisia che si nasconde dietro la produzione tessile del marchio Zara, di proprietà del colosso Inditex. L’organizzazione ha ripercorso a ritroso la produzione di un maglione della collezione “Join Life” di Zara, la linea modello per la sostenibilità dell’azienda, mettendo in luce la realtà che vivono i lavoratori e le lavoratrici lungo la catena di fornitura.

Inditex si presenta al pubblico come un’azienda trasparente che attribuisce la massima importanza alle persone che realizzano i suoi capi. Lo slogan della sua campagna di comunicazione, “R-E-S-P-E-C-T: find out what it means to me” (RISPETTO: scopri cosa significa per me), in riferimento alla canzone di Aretha Franklin, sottintende la cura che l’azienda avrebbe verso le lavoratrici e i lavoratori della sua filiera.

I risultati dell’inchiesta restituiscono un’altra impressione: operai soffocati dall’enorme compressione dei prezzi esercitata da Inditex sui suoi fornitoricon conseguenti salari di povertà, orari di lavoro eccessivi, contratti precari, a fronte di profitti milionari per il brand. Secondo la stima di Public Eye, realizzata in collaborazione con alcuni partner della Clean Clothes Campaign e BASIC, l’azienda guadagna per ogni maglione venduto il doppio di tutte le persone impegnate nella sua produzione.

Risalendo la catena di produzione di questo articolo, l’inchiesta è arrivata agli stabilimenti di Smirne, in Turchia. La fabbrica incaricata della realizzazione dei 20mila maglioni, venduti in Svizzera al prezzo di 39,67 euro cadauno, ha ricevuto soltanto 1,53 euro al pezzo e la tipografia che ha apposto lo slogan solo nove centesimi a stampa. Per garantire la produzione è evidente che i proprietari siano stati costretti a sotto pagare i dipendenti o a farli lavorare più del consentito.

I lavoratori avrebbero guadagnato tra i 310 e i 390 euro al mese, circa un terzo del salario stimato dalla Clean Clothes Campaign come dignitoso. Nonostante il codice di condotta di Inditex affermi testualmente che i suoi fornitori dovrebbero sempre pagare salari “sufficienti a coprire almeno le esigenze di base dei lavoratori e delle loro famiglie, nonché ogni altra ragionevole necessità“. Inoltre, in uno degli stabilimenti la produzione sarebbe continuativa per 24 ore al giorno, divisa in due soli turni da 12 ore: pratica contraria al codice di condotta e alla legge turca, che impone turni massimi di lavoro notturno di sette ore e mezza. Peraltro, in una delle fabbriche buona parte dei lavoratori sarebbero assunti con contratti giornalieri, senza alcuna garanzia di impiego il giorno successivo.

La ricerca condotta sulla popolare felpa di Zara conferma ciò che affermiamo da tempo. Le pratiche d’acquisto capestro esercitate dai marchi committenti sono la prima causa strutturale della compressione dei costi verso i fornitori e del conseguente impoverimento cronico di milioni di lavoratori nel mondo.” dichiara Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti. “È sempre più urgente e necessario affrontare il tema della redistribuzione della ricchezza nelle catene produttive globali della moda a favore dei lavoratori, spesso donne, che ne sono le principali artefici. Per questo sono necessari accordi vincolanti che obblighino i marchi committenti a pagare prezzi adeguati a garantire il riconoscimento di salari dignitosi a tutti i lavoratori della filiera

Inditex non pubblica nessun dato concreto sui livelli salariali dei suoi fornitori e sui prezzi di acquisto dei suoi articoli: Public Eye, allora, in collaborazione con il collettivo Éthique sur l’étiquette, la Schone Kleren Campagne e l’ufficio di analisi francese BASIC ha fatto una stima dettagliata della composizione del prezzo di questo maglione. Secondo i calcoli l’azienda guadagna 4,20 euro al pezzo, circa il doppio rispetto a tutte le persone impegnate nella sua produzione (2,08 euro), dai campi di cotone in India alla filanda di Kayseri, nella Turchia centrale, fino alle fabbriche di Smirne. Una scelta precisa quindi, non una fatalità: basterebbe destinare 3,62 euro in più a maglione alla mano d’opera per garantire un salario dignitoso a tutti i lavoratori. 

Inditex, che ha registrato un utile netto record di 3,44 miliardi di euro nel 2018, deve rispettare i diritti di coloro che contribuiscono al suo successo, cominciando a pagare dei prezzi di acquisto sufficienti a garantire loro un salario dignitoso.


Lettera alle istituzioni in materia di Impresa e Diritti Umani

Lettera inviata alle principali istituzioni italiane in materia di Impresa e Diritti Umani su iniziativa dei Direttori Scientifici della "Business and Human Rights" Summer School. La Campagna Abiti Puliti ha sottoscritto la lettera, firmata da più di 50 accademici ed esperti italiani e stranieri. La lettera è disponibile anche in inglese.

Leggi il testo della lettera


EVENTO: Human Rights Due Diligence

HUMAN RIGHTS DUE DILIGENCE

PRINCIPI E PRATICHE EMERGENTI IN EUROPA:
QUALE RUOLO PER L’ITALIA?

13 novembre 2019 dalle 10.00 alle 18.00
Sala Vitman dell
Acquario Civico di Milano, viale Gadio 2

 

Per poter identificare, prevenire e mitigare i propri impatti negativi su ambiente e società, le imprese, multinazionali in primis, sono sempre più chiamate a fare uso di due diligence con riguardo ai diritti umani (HRDD).

Si tratta di un processo che consiste nel valutare gli impatti effettivi e potenziali delle attività produttive su tali diritti, nel dotarsi di politiche aziendali che tengano conto di tali valutazioni, nel monitoraggio delle misure adottate e nel dotarsi di meccanismi di rimedio a favore delle persone e delle comunità che effettivamente subiscono abusi. Nonostante il concetto sembra essere ormai di uso corrente tra gli addetti ai lavori, gli esempi di legislazione oggi in vigore in Europa presentano caratteristiche disomogenee e lacune.

Nel corso del seminario internazionale ragioneremo insieme su quali siano gli elementi fondamentali che dovrebbero essere presenti in una legge nazionale, una direttiva o un regolamento comunitario sulla HRDD; condivideremo le lezioni apprese dai Paesi UE che stanno sperimentando le prime legislazioni sul tema; faremo un approfondimento sul panorama italiano e sulle potenzialità della legge 231/01 sulla responsabilità amministrativa delle società e degli enti.

L’evento è promosso da Mani Tese, FIDH, HRIC, Fair e Campagna Abiti Puliti e si inserisce all’interno del progetto “New Business for Good. Educare, informare e collaborare per un nuovo modo di fare impresa”, co-finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo.

La partecipazione al seminario è gratuita. Per registrarsi: https://forms.gle/UCuGeUUdiDEp7XVP6


Caso UNIQLO: presentata denuncia alla Fair Labor Association

I lavoratori indonesiani chiedono di intervenire per risolvere definitivamente la disputa sui salari con Uniqlo

Dopo che per anni Uniqlo si è rifiutata di prendere parte seriamente a qualsiasi processo di mediazione, la Clean Clothes Campaign, insieme ai lavoratori indonesiani della fabbrica Jaba Garmindo, ha presentato una denuncia alla Fair Labor Association (FLA).L’atto, indirizzato a Fast Retailing, società madre del marchio Uniqlo, e al marchio tedesco s. Oliver, contesta la violazione del “Codice di Condotta” della FLA e i suoi “Principi del lavoro equo e della fornitura responsabile”, concepito per garantire “un trattamento rispettoso ed etico dei lavoratori” e per “promuovere condizioni sostenibili” nell’industria tessile.

Nell’aprile 2015, due stabilimenti indonesiani a Cikupa e Majalengka chiudono i battenti dalla sera alla mattina senza pagare ai loro operai, per lo più donne, le indennità di licenziamento obbligatorie per legge e diversi mesi di salario. Le chiusure sono avvenute dopo la bancarotta causata dal ritiro delle commesse da parte dei principali acquirenti, in particolare Uniqlo. Le migliaia di lavoratrici e lavoratori della Jaba Garmindo non sapevano nemmeno ci fossero dei problemi. Hanno scoperto della bancarotta e della chiusura soltanto attraverso le inchieste della stampa.

I documenti ottenuti dai lavoratori dimostrano come Uniqlo e s. Oliver fossero gli acquirenti più significativi negli anni precedenti alla chiusura: oltre il 50% del volume di produzione della fabbrica nel 2014 era su loro commissione. I lavoratori hanno visto con i loro occhi l’influenza che Uniqlo ha esercitato sulla produzione della fabbrica e di conseguenza sulle condizioni di lavoro: l’arrivo del marchio ha portato con sé obiettivi esorbitanti, straordinari forzati e pressione sui lavoratori. Gli atti giudiziari della procedura fallimentare citano le pratiche commerciali degli acquirenti come un fattore significativo per la chiusura degli stabilimenti.

Nurhayat, Vice Presidente del sindacato FSPMI presente presso la PT Jaba Garmindo, ha dichiarato: “È profondamente ingiusto che i lavoratori e le lavoratrici che hanno realizzato gli abiti di Uniqlo debbano soffrire una tale ingiustizia, mentre il marchio continua a crescere e prosperare, generando miliardi di profitti. Abbiamo il diritto ad avere quanto ci è dovuto, dopo anni di duro lavoro per realizzare i capi Uniqlo. Il rifiuto di pagarci è paragonabile a un furto e questo dovrebbe essere motivo sufficiente perché la FLA prenda provvedimenti immediati”.

Come marchi affiliati alla FLA, Uniqlo e s. Oliver sono tenute ad aderire al “Codice di Condotta” che stabilisce chiaramente che essi debbano garantire che i loro fornitori salvaguardino i diritti dei lavoratori ai sensi delle leggi nazionali e internazionali sul lavoro e sulla sicurezza sociale. Ciò include il fatto che i lavoratori ricevano tutti gli indennizzi previsti dalle normative. Dalla chiusura dello stabilimento, 2.000 lavoratori e lavoratrici della Jaba Garmindo hanno chiesto a Uniqlo e s. Oliver di assumersi le proprie responsabilità e di pagare i 5,5 milioni di dollari dovuti a titolo di indennità di licenziamento. Poiché i procedimenti legali sono chiusi, i lavoratori ora si rivolgono alla FLA come uno degli ultimi meccanismi di accesso ai risarcimenti.

Molte donne hanno lavorato in quegli stabilimenti per moltissimi anni e, in un mercato che preferisce assumere giovani, per loro sarà molto difficile trovare altre occupazioni. Quasi 600 lavoratrici vivono in condizioni di indigenza, costrette ad accettare lavori con paghe ben al di sotto del salario minimo.

Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti, ha dichiarato: “Uniqlo continua a sostenere di non aver alcun obbligo legale di pagare ciò che spetta ai lavoratori della Jaba Garmindo. Questo è esattamente il problema, cioè l’assenza di norme legalmente vincolanti nell’industria dell’abbigliamento. I codici di condotta cui molti marchi fanno riferimento sono volontari lasciando la responsabilità di rispettare di diritti fondamentali sanciti da norme e standard internazionali in balia della buona volontà degli stessi marchi che concorrono a violarli. Ora ci aspettiamo che FLA intervenga, in coerenza con quanto previsto dal suo codice di condotta e si adoperi concretamente per garantire un pieno risarcimento per i lavoratori della Jaba Garmindo“.

Molte delle aziende concorrenti di Uniqlo, alcuni anche membri della FLA, hanno accettato di contribuire al pagamento delle indennità di licenziamento in caso di fallimento di un loro fornitore. Ad esempio Nike, Adidas, Disney, Fruit of the Loom, Hanesbrands, H&M e Walmart hanno pagato direttamente i fondi dovuti ai lavoratori o hanno sollecitato i loro partner della catena di fornitura a farlo.

Negli ultimi anni, la campagna #PayUpUniqlo ha ricevuto un significativo sostegno pubblico globale portando all’avvio di un processo di mediazione tra Uniqlo e i lavoratori della Jaba Garmindo con incontri nel luglio 2017 e novembre 2018. Tuttavia, Uniqlo ha poi rifiutato di impegnarsi in maniera significativa e di partecipare ad ulteriori incontri, nonostante gli appelli della FLA alla Fast Retailing per “cercare una soluzione adeguata per i lavoratori e le lavoratrici della fabbrica”.

Risulta oltremodo stridente osservare che mentre Uniqlo ignora le richieste di migliaia di lavoratrici che l’hanno reso uno dei brand più redditizi al mondo, il marchio acquisisce credibilità attraverso le recenti partnership con l’OIL e UN Women

  • La denuncia dei lavoratori della Jaba Garmindo alla FLA arriva poche settimane dopo che Uniqlo ha annunciato la sua partnership con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro nel più grande progetto mai finanziato dal settore privato, per un valore di 1,8 milioni di dollari, volto a promuovere la protezione sociale, lo sviluppo delle competenze e il sostegno all’occupazione in Indonesia. Inoltre a giugno di quest’anno, Fast Retailing ha annunciato la sua partnership globale con UN Women per “difendere i diritti delle donne e il loro rafforzamento nel settore dell’abbigliamento”. Otto su dieci degli ex lavoratori della Jaba Garmindo sono donne e almeno 600 di loro versano in gravi difficoltà finanziarie.
  • Nel 2016, la Fair Wear Foundation ha risposto al reclamo di un lavoratore predisponendo un accordo con il marchio, suo socio e acquirente della Jaba Garmindo, Jack Wolfskin affinché pagasse un importo molto limitato a titolo di indennizzo ai lavoratori. Il sindacato di fabbrica FMPSI ha ritenuto che questa cifra fosse una “miseria”. Sentendosi scoraggiati e delusi dal processo di reclamo della FWF, i lavoratori della Jaba Garmindo hanno cercato il sostegno della Clean Clothes Campaign.
  • La Clean Clothes Campaign, composta da oltre 200 organizzazioni in tutto il mondo, ha lanciato la campagna #PayUpUniqlo nel 2016, prendendo di mira l’apertura di nuovi negozi Uniqlo in tutta Europa e i lavoratori che visitano la sede centrale di Uniqlo a Tokyo. Questo mese, gli attivisti si concentreranno sull’apertura di negozi a Madrid e Barcellona.
  • Uniqlo ha precedenti in materia di violazioni del diritto del lavoro. Nel 2016, la Students and Scholars Against Corporate Misbehaviour (SACOM) a Hong Kong ha condotto indagini sotto copertura in quattro fabbriche che producono per Uniqlo in Cina per mostrare le condizioni di lavoro della catena di fornitura. In Cambogia, Human Rights Now (HRN), una ONG internazionale per i diritti umani con sede a Tokyo, ha scoperto che centinaia di lavoratori sono stati ingiustamente licenziati semplicemente per aver lottato per i loro diritti. Anche S. Oliver si è macchiato di violazioni dei diritti dei lavoratori, tra cui salari da fame e cattive condizioni in Ucraina, Serbia e Ungheria.
  • Dal 2010 i principali marchi globali hanno pagato oltre 10 milioni di dollari di indennità di licenziamento previste per legge a più di 6.000 ex dipendenti di fabbriche chiuse in tutto il mondo. Più recentemente, lo scorso agosto, è stato firmato un accordo che garantisce che migliaia di lavoratori in Indonesia riceveranno 4,5 milioni di dollari a titolo di indennità di licenziamento obbligatoria per legge.

Verena – OEW

Alessandro, Movimento Consumatori

Deborah, FAIR

Sara, Hòferlab

Francesco, FAIR

Francuccio, CNMS

Ersilia, Abiti Puliti

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(2019) REPORT - La foglia di fico della moda: come l’auditing sociale protegge i marchi a danno dei lavoratori

“Ci spingiamo fin dove i marchi committenti ci fanno arrivare”

Un nuovo rapporto mostra come l’industria multimiliardaria dell’auditing sociale sia utilizzata come strumento di responsabilità sociale di impresa (RSI) per proteggere la reputazione dei marchi e i loro profitti a danno della sicurezza dei lavoratori della moda.

Il rapporto “La foglia di fico della moda: come l’auditing sociale protegge i marchi a danno dei lavoratori” pubblicato oggi dalla Clean Clothes Campaign offre un’analisi approfondita dell’industria della certificazione, mostrando i collegamenti tra le più famose iniziative commerciali di conformità sociale (come Social Accountability International, WRAP, FLA, e amfori BSCI), le più grandi imprese di auditing (come Bureau Veritas, TÜV Rheinland, UL, RINA e ELEVATE) e i marchi interessati da queste certificazioni.

Le prove mostrate nel rapporto evidenziano chiaramente come l’industria dell’auditing sociale abbia platealmente fallito nel raggiungimento del suo obiettivo primario: proteggere la sicurezza dei lavoratori e migliorare le loro condizioni. Al contrario è stata molto attiva nel proteggere l’immagine e la reputazione dei marchi e dei loro modelli di business, ostacolando al tempo stesso modelli più efficaci che comprendono l'obbligo di trasparenza e impegni vincolanti in materia di accesso alla giustizia.

Il rapporto offre esempi specifici di negligenza citando alcuni casi molto noti accaduti negli scorsi anni: l’incendio della Ali Enterprises in Pakistan del settembre 2012, in cui oltre 250 lavoratori persero la vita perché impossibilitati a scappare a causa delle porte e delle finestre sbarrate; il crollo del Rana Plaza in Bangladesh nell’aprile 2013, con la morte di 1.134 lavoratori e il ferimento di migliaia di persone; l’esplosione del boiler nella fabbrica Multifabs sempre in Bangladesh nel luglio 2017, con decine di morti e feriti. Ciascuna di queste fabbriche era stata certificata come sicura da diverse aziende di auditing - tra cui TÜV Rheinland, Bureau Veritas e RINA - utilizzando gli standard, la metodologia e la guida di importanti iniziative di conformità come la amfori BSCI e la SAI. Nei casi della Ali Enterprises e del Rana Plaza inoltre, le certificazioni erano avvenute solo poche settimane o mesi prima dei disastri: per la Ali, secondo quanto riferito, addirittura senza che gli auditor avessero visitato la fabbrica.

Questi casi, prevedibili ed evitabili, dimostrano il fallimento del sistema di auditing sociale controllato dalle aziende. Si tratta di un’industria che, per usare le parole di un’auditor, si spinge “fin dove i marchi committenti ci fanno arrivare”*. Un’industria che opera impunemente: ci sono state poche, se non nessuna, ripercussioni negative per le aziende e le iniziative di certificazione coinvolte in quei disastri. Queste continuano a crescere così come crescono i loro profitti e ricavi, man mano che aumentano le fabbriche controllate. Un settore che è riuscito a mantenere nascosti i suoi fallimenti grazie alla notoria assenza di trasparenza e all’opacità della sua catena di responsabilità che gli permette di non condividere alcun risultato con il mondo esterno, compresi quei lavoratori i cui diritti, vite e salute sono in gioco. Il rapporto si concentra sulle cause strutturali di questi fallimenti, suggerendo ai diversi soggetti coinvolti numerose raccomandazioni per cambiare il sistema, a partire dall’esigenza di maggiore trasparenza, responsabilità e coinvolgimento reale dei lavoratori.

Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign, ha dichiarato: “20 anni di responsabilità sociale d’impresa non sono riusciti a migliorare le condizioni di lavoro e si continuerà in questo modo fino a quando non ci sarà una revisione strutturale del sistema di auditing sociale. Non possiamo lasciare che le imprese si autoregolino. Normative vincolanti con la minaccia di sanzioni e il rafforzamento dei lavoratori attraverso le loro rappresentanze sono gli unici meccanismi che possano garantire una seria presa in carico delle proprie responsabilità, l’esercizio della due diligence sui diritti umani e la protezione delle vite dei lavoratori”. 

Kalpona Atker, del Bangladesh Centre for Worker Solidarity, particolarmente coinvolta nella battaglia per ottenere giustizia per le famiglie colpite dal crollo del Rana Plaza, ha dichiarato: “È fondamentale capire che il sistema di auditing sociale è fallimentare a partire dalla sua progettazione. I certificatori non hanno le competenze, il tempo o gli incentivi per rilevare correttamente gli edifici non sicuri e rilasciano rapporti che dicono in modo rassicurante ai marchi che non c'è nulla di cui preoccuparsi. Il crollo del Rana Plaza è stato un disastro causato dalla negligenza umana e del tutto prevedibile. I marchi non hanno voluto vedere le condizioni in cui versavano le fabbriche, condizioni non rilevate o ignorate negli audit da loro stessi commissionati. È sorprendente che nessuno - non un marchio o una società di auditing - sia stato ritenuto responsabile dell'enorme perdita di vite. Abbiamo bisogno di leggi che costringano queste imprese a render conto della loro negligenza."

Garrett Brown, coordinatore del Maquiladora Health & Safety Support Network, fondato nel 1993 attraverso progetti di sicurezza sul lavoro in Messico, America Centrale, Indonesia, Cina, Vietnam e Bangladesh, ha dichiarato: “Questo rapporto esaustivo e ben documentato mostra chiaramente come e perché i programmi di responsabilità sociale di impresa (RSI) non siano riusciti a proteggere la salute, la sicurezza e i diritti legali dei lavoratori in tutta la catena globale di fornitura. Ciò che manca nell'auditing sociale sono auditor competenti e non corrotti; rapporti di ispezione accurati e integrali; coinvolgimento reale dei lavoratori, la parte più informata e più interessata al processo di monitoraggio. Il punto della questione è che lo scopo reale della Responsabilità Sociale di Impresa non è proteggere i lavoratori ma l’immagine e la reputazione dei marchi, continuando ad ottenere il massimo profitto dalle catene globali di approvvigionamento”.

*La citazione originale è “We go as far as brands want us to go” in LeBaron, G., and Lister, J. 2016. Ethical Audits and the Supply Chains of Global Corporations. SPERI Sheffield Political Economy Research Institute. Brief 1. Sheffield. http://eprints.whiterose.ac.uk/96303/.

Scarica il report completo (Inglese)
Scheda sul social auditing (italiano)
Riassunto del rapporto (italiano)


UNIQLO: paga subito i risarcimenti!

Questa settimana Uniqlo apre il suo primo negozio a Milano. È l’occasione giusta per chiedere al marchio di assumersi le sue responsabilità!

Nel 2015 la fabbrica indonesiana Jaba Garmindo chiudeva i battenti senza alcun preavviso dopo che Uniqlo, unico acquirente, decideva di ritirare i suoi ordini. Da allora i lavoratori (per l’80% donne), improvvisamente licenziati e lasciati in condizioni disperate, aspettano almeno 5,5 milioni di dollari di indennità di licenziamento per ricominciare a vivere.

Unisciti a noi per chiedere a Uniqlo di assumersi le sue responsabilità dopo essersi rifornito presso quella fabbrica che sfruttava quei lavoratori con bassi salari, straordinari obbligatori e non pagati e altre vessazioni. Uniqlo paghi subito i risarcimenti dovuti!

Parliamo di un’azienda, il terzo distributore di moda nel mondo, che ha chiuso lo scorso anno fiscale (conclusosi il 31 agosto) con una crescita del 14,4% e un aumento del 29,8% del profitto. Concretamente, la Fast Retailing ha registrato un fatturato di 2,13 trilioni di yen (16,39 miliardi di euro) e un utile di 154 miliardi di yen (1,19 miliardi di euro). Profitti costruiti anche sulla pelle dei lavoratori e delle lavoratrici della Jaba Garmindo.

Lascia un commento all’evento di Uniqlo e fagli sapere da che parte stai: https://www.facebook.com/events/1138341733024208/


(2019) Ali Enterprises: dopo 7 anni ancora fabbriche insicure

Nel giorno del settimo anniversario dell’incendio alla fabbrica tessile Ali Enterprises, che nel 2012 in Pakistan uccise oltre 250 lavoratori e lavoratrici, con il nuovo rapporto I lavoratori tessili del Pakistan hanno bisogno di un accordo sulla sicurezzaClean Clothes Campaign, International Labor Rights Forum, Labour Education Foundation, National Trade Union Federation e Pakistan Institute of Labour Education and Research denunciano come ancora oggi le fabbriche tessili del Paese restino insicure come allora

Le iniziative avviate negli ultimi anni non sono riuscite a porre i lavoratori (e i sindacati che li rappresentano) al centro dei programmi di sicurezza e quindi difficilmente potranno affrontare in modo significativo la questione. Per questo si chiede un meccanismo ispirato al programma per la sicurezza messo in atto nel 2013 dopo il drammatico crollo dell'edificio Rana Plaza in Bangladesh.

In questa giornata innanzitutto il nostro pensiero va da una parte a tutti i lavoratori e le lavoratrici che hanno vissuto questa tragedia traumatizzante sette anni fa e alle famiglie che in quel giorno hanno perso i propri cari; dall’altra a tutte le vittime e ai feriti colpiti da incendi e altri incidenti prevenibili accaduti negli anni a seguire.

La totale mancanza di un adeguato sistema di monitoraggio della sicurezza nell'industria dell'abbigliamento in Pakistan è costata centinaia di vite umane negli ultimi anni. Così come l’assenza delle misure che potrebbero essere messe immediatamente in atto, come assicurare che gli operai non restino mai bloccati all'interno degli edifici o rimuovere i prodotti accumulati davanti alle uscite di emergenza, e che avrebbero potuto fare la differenza, salvando centinaia di vite umane dal fuoco della Ali Enterprises e in molti altri incendi accaduti in seguito" dichiara Khalid Mahmood, direttore del Labour Education Foundation in Pakistan.

Il rapporto evidenzia come tutte le iniziative avviate dal 2012 in Pakistan volte a migliorare la sicurezza sul lavoro siano in realtà caratterizzate da scarsa trasparenza. E, cosa più importante, nessuna di esse sia stata sviluppata coinvolgendo i sindacati e le altre organizzazioni per i diritti dei lavoratori pakistane. La rappresentanza dei lavoratori è stata esclusa non solo nella fase di progettazione ma anche in quella di implementazione e nella governance.

Marchi e distributori continuano a convogliare le loro energie sugli stessi schemi di auditing aziendale che in passato non sono riusciti a migliorare significativamente il settore o a prevenire decine di morti. Gli ispettorati governativi pakistani non dispongono di personale e di risorse sufficienti e non sono in grado di coprire in modo significativo un settore in crescita. Nel frattempo, ogni giorno i lavoratori continuano a rischiare la vita in fabbriche non sicure.

È giunto allora il momento che le aziende che producono abiti e tessuti per la casa in Pakistan inizino a prendere sul serio la sicurezza dei lavoratori. Tutte le parti interessate, a livello locale e internazionale, devono assumersi la loro responsabilità, mettendo le persone che fabbricano i loro prodotti al centro dei loro sforzi per la sicurezza” dichiara Nasir Mansoor, presidente della Pakistani National Trade Union Federation.

Il rapporto esorta i marchi e i distributori che si riforniscono in Pakistan a tenere conto delle richieste del movimento sindacale pakistano di sostenere la formazione di un accordo giuridicamente vincolante tra i brand dell’abbigliamento, i sindacati e i gruppi, locali e globali, impegnati per i diritti dei lavoratori. Tale intesa deve trarre insegnamento dall'esperienza vissuta in Bangladesh attraverso l’Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici, il che significa porre al centro del programma la trasparenza, l'applicazione, gli obblighi commerciali e la partecipazione dei lavoratori. È fondamentale per la sicurezza dei lavoratori che i sindacati locali e le altre organizzazioni locali per i diritti dei lavoratori siano coinvolti nell'ideazione, progettazione, governance e attuazione di qualsiasi iniziativa volta a migliorare la salute e la sicurezza sul lavoro nel Paese.

Abbiamo visto in Bangladesh, dove sono emerse contemporaneamente due iniziative in materia di sicurezza, che il coinvolgimento dei lavoratori, la trasparenza e la natura vincolante sono essenziali per creare un programma di sicurezza di successo. Mentre l'Alleanza per la sicurezza dei lavoratori del Bangladesh, controllata dalle imprese, non ha mai coinvolto gruppi indipendenti di rappresentanza dei lavoratori nella sua progettazione, sviluppo o governance e ha rifiutato di richiedere impegni giuridicamente vincolanti da parte delle imprese, l'Accordo ha stabilito un nuovo standard rivoluzionario per un sistema di ispezione e bonifica trasparente, replicabile ed efficace. Qualsiasi programma di sicurezza in Pakistan deve partire da qui” dichiara Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti.

Il rapporto chiede che i governi nazionali e provinciali pakistani adottino una serie di misure per allineare la situazione in quelle fabbriche che non fossero incluse nell’accordo. 

È importante che i governi nazionali e provinciali aumentino le risorse, la copertura e l'efficacia, al fine di garantire che tutte le fabbriche di abbigliamento e le strutture tessili in Pakistan diventino più sicure, non solo quelle che producono per il mercato internazionale” dichiara Zulfiqar Shah, co-direttore del Pakistan Institute of Labour Education and Research.

Infine, il rapporto chiede ai governi dei Paesi che ospitano le sedi dei principali brand di abbigliamento e dei distributori di porre fine alle pratiche di autocontrollo inaffidabili, introducendo una legislazione obbligatoria di due diligence in materia di diritti umani garantendo così che i marchi si assumano le loro responsabilità lungo tutta la catena di fornitura. Inoltre anche le società di social auditing devono essere ritenute responsabili di audit erronei che potrebbero costare la vita ai lavoratori.

Leggi il report completo (inglese)


Donne nell’industria dell’abbigliamento e delle calzature in Albania

Pubblichiamo la traduzione di un articolo di Factoje dello scorso maggio sulla situazione dei lavoratori e delle lavoratrici tessili in Albania (traduzione a cura di Ersilia Monti)

Il 6 ottobre 2018 il primo ministro albanese Edi Rama ha visitato una delle più grandi fabbriche di abbigliamento di Durazzo. Nel corso della visita ha affermato che grazie agli incentivi economici del governo le imprese del settore hanno visto crescere negli ultimi anni la loro capacità produttiva e hanno così potuto garantire maggiore occupazione e consistenti aumenti salariali. A sostegno della sua tesi Rama ha pubblicato anche un video sulla sua pagina facebook, ma ha raccolto non pochi commenti da parte di cittadini che descrivono una realtà ben diversa fatta di retribuzioni che, non solo non sono aumentate, ma restano ancora troppo basse.

Ecco alcuni dei commenti:

“Dove li vedete questi aumenti salariali? Lavoro in fabbrica alla macchina da cucire, il massimo che ricevo sono 250 mila ALL (200 euro) e vivo in un clima di paura, come le mie colleghe”.

“Ho lavorato l’anno scorso in quella fabbrica e non portavo a casa più di 250 mila ALL al mese per 10 ore di lavoro al giorno. Per favore dite le cose come stanno e non come il primo ministro vorrebbe che fossero”.

 “Signor primo ministro, guardi che lì si prendono solo 180 mila ALL. Non sono cose di cui vantarsi!”

“Perché non dice che gli straordinari non sono retribuiti e che i lavoratori non ricevono nemmeno il salario minimo?”

Per gli intervenuti sulla pagina facebook di Edi Rama le condizioni di lavoro nei luoghi descritti non sono per niente favorevoli. Si dice, per esempio, che solo i supervisori sono pagati in modo adeguato, che le donne sono autorizzate ad andare in bagno una sola volta, anche in condizioni di assoluta necessità, durante turni di lavoro di 9 ore, e che dopo sette anni di lavoro ci si ammala d’asma o di altre patologie respiratorie. Si afferma infine che quasi nessuna fabbrica ha adottato misure di sicurezza.

Le dichiarazioni del primo ministro e le reazioni, così numerose, apparse sui social network hanno indotto Faktoje a svolgere un’indagine per approfondire la questione e accertare i fatti. In questo contesto, sono state realizzate una serie di interviste a donne, occupate nell’industria dell’abbigliamento in città diverse, le quali si sono rese disponibili a rendere pubblici i propri problemi di lavoro. Solo due testimoni hanno chiesto di mantenere l’anonimato per paura di essere licenziate. Tefta Buci, ex dipendente di un’azienda di Tirana, ha accettato di essere intervistata di fronte alla telecamera nella convinzione che il suo esempio sarà di stimolo alle donne incoraggiandole a discutere apertamente delle loro condizioni di lavoro. Buci è stata licenziata per aver organizzato una serie di scioperi considerati illegali e per aver tentato di fondare un sindacato in fabbrica. Per vedere riconosciuta l’illegittimità del suo licenziamento, ha portato il suo caso in tribunale. I giornalisti di Faktoje hanno assistito alle udienze.

Tefta Buci è stata per dieci anni dipendente di AlbaGroup, un’azienda italiana, amministrata da un albanese, che è proprietario di una piccola quota azionaria. L’azienda è specializzata nella cucitura e incollaggio di calzature, e nella modellistica. Fra le marche più note per le quali AlbaGroup lavorava, Buci ha menzionato Valentino, Jimmy Choo, Disquared, Louboutin, Fendi, Versace, Aurelien, Hermes, and Philipp Plein.

Abbiamo tentato di metterci in contatto con la sede dell’azienda in Italia per avere maggiori informazioni sulle condizioni di lavoro, sui contratti applicati, o anche solo per sapere se era noto il caso di un ricorso legale da parte di una ex dipendente, ma finora non abbiamo ricevuto risposte.

In Albania non vengono utilizzati termini univoci, a livello istituzionale, per identificare il settore industriale di cui stiamo parlando. Qualche volta lo si classifica come “façon”, altre volte come “industria per la trasformazione di materiale tessile”. La poca precisione rende difficile la raccolta di dati ufficiali sia riguardo al numero di imprese che operano nel settore sia riguardo al numero degli occupati. Abbiamo inoltrato numerose richieste per ottenere informazioni ufficiali, ma sono state tutte respinte con la motivazione che non era stata utilizzata la terminologia corretta. Restano così di difficile individuazione le aziende che non rispettano la legge e obbligano i dipendenti a lavorare in nero. 

Il caso di Tefta Buci è la dimostrazione del cattivo funzionamento del sistema preposto alla tutela dei lavoratori, con il risultato che questi ultimi sono costretti ad affrontare la battaglia per il riconoscimento dei loro diritti in totale solitudine. A detta di Tefta, l’ispettorato del lavoro ha svolto più di un sopralluogo su richiesta dei lavoratori che denunciavano irregolarità nelle condizioni di lavoro, nei livelli retributivi e nei ritmi di produzione. Tutto quello che è stato rilevato nel verbale di ispezione però è la mancanza di un servizio di mensa e l’abitudine dei dipendenti a fumare nei locali di lavoro, desunta dalla presenza di cartelli di avviso. 

Non c’era niente di normale invece, secondo Tefta, nelle condizioni in cui lei e le colleghe erano costrette a lavorare: “le pressioni erano continue, ed esercitate nei modi più disparati, le donne subivano violenze fisiche e psicologiche, il caposquadra e i superiori non facevano che insultarci ben sapendo che non potevamo reagire, pena il licenziamento”.

Dal racconto di Tefta risulta che in fabbrica si sono verificati numerosi incidenti per i quali le vittime non solo non sono state risarcite, ma non hanno ricevuto nessun tipo di cura. Il medico responsabile sembra esistere solo sulla carta dal momento che non era mai presente ogni volta che si è verificato un problema di salute o un caso di infortunio. Secondo un’altra testimone, R.B., 35 anni, che ha chiesto di mantenere l’anonimato, i datori di lavoro e i superiori minimizzano i problemi pensando di risolverli con l’installazione di un climatizzatore, cosa che per altro hanno fatto solo dopo una serie di incidenti sul lavoro dei quali si sono occupati anche i mezzi di informazione.

Facciamo straordinari senza ricevere la maggiorazione del 10% alla quale abbiamo diritto e non ci riconoscono le assenze per malattia”, dice R.B., che aggiunge che le lavoratrici non si lamentano apertamente perché temono di perdere l’unico reddito con il quale mantengono la famiglia.

Rimangono così nell’ombra anche le molestie sessuali. Un’altra testimone, L.K., 45 anni, dipendente di una fabbrica di Valona, ha raccontato a Faktoje di essere a conoscenza di casi in cui sono state effettuate delle nuove assunzioni di donne, selezionate espressamente per ottenere sotto ricatto occupazionale favori di tipo sessuale. Una di queste donne, a detta di L.K., è una ventenne divorziata, giudicata una facile preda per via del suo stato civile e dei problemi che ha dovuto affrontare nella vita.

La mancanza di attenzione che viene riservata ai gravi problemi che vivono le donne occupate nell’industria dell’abbigliamento in Albania è un’offesa al nostro paese, perché queste donne sono fra le categorie sociali più deboli e ignorate dallo stato. Ci si deve occupare di loro in modo costante e non soltanto l’8 marzo. Il governo ha il dovere di intervenire per risolvere una situazione scandalosa, anche se le aziende del settore sono quasi tutte di proprietà privata. 


(2019) REPORT - Salari su misura

Un nuovo rapporto dimostra come i principali marchi dell’abbigliamento non siano riusciti a mantenere l’impegno del salario vivibile

  • Nessun grande marchio di abbigliamento intervistato è stato in grado di dimostrare, al di fuori della propria sede centrale, che i lavoratori della sua catena di fornitura siano effettivamente pagati abbastanza per vivere con dignità e sostenere una famiglia.
  • I marchi di abbigliamento e i distributori stanno violando le norme sui diritti umani riconosciute a livello internazionale e i propri codici di condotta.

Secondo un nuovo rapporto pubblicato oggi dalla Clean Clothes Campaign, nessun grande marchio di abbigliamento è in grado di dimostrare che i lavoratori che producono i loro capi in Asia, Africa, America Centrale o Europa Orientale siano pagati abbastanza per sfuggire alla trappola della povertà.

Lo studio "Salari su misura 2019: Lo stato delle retribuzioni nell’industria globale dell’abbigliamento" analizza le risposte di 20 grandi marchi della moda sui loro progressi nell'implementazione di un salario vivibile per i lavoratori che producono i loro vestiti. Dalla ricerca è emerso che l'85% dei marchi si è impegnato in qualche modo a garantire che i salari siano sufficienti a soddisfare le esigenze di base dei lavoratori, ma, al contempo, che nessuno di loro ha messo in pratica questo principio per nessun lavoratore nei Paesi in cui viene prodotta la stragrande maggioranza dei capi di abbigliamento.

Anna Bryher, autrice del rapporto, ha dichiarato: “A cinque anni di distanza dalla nostra precedente indagine, nessun marchio è stato in grado di mostrare alcun progresso verso il pagamento di un salario vivibile. La povertà nell'industria dell'abbigliamento sta peggiorando. È una questione urgente. Il nostro messaggio ai brand è chiaro: i diritti umani non possono aspettare e i lavoratori che realizzano i capi venduti nei nostri negozi devono essere pagati abbastanza per vivere con dignità”.

Dei 20 marchi intervistati, 19 hanno ricevuto il voto più basso possibile, mostrando di non essere in grado di produrre alcuna prova che a un lavoratore che confeziona i loro capi di abbigliamento sia stato pagato un salario vivibile in qualsiasi parte del mondo. L'unica eccezione è stata Gucci che è riuscita a dimostrare come, per una piccola parte della sua produzione in Italia, grazie alle trattative salariali nazionali, le paghe consentano a una famiglia di vivere in alcune zone del Sud e del Centro Italia.

"Le iniziative volontarie non sono riuscite a garantire i diritti umani dei lavoratori", ha aggiunto Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign. "Il modello economico globale che spinge i prezzi al continuo ribasso e mette in competizione i Paesi a basso salario è troppo forte. È un dato di fatto che i lavoratori che producono quasi tutti gli abiti che compriamo vivono in povertà, mentre le grandi marche si arricchiscono grazie al loro lavoro. È tempo che i marchi adottino misure efficaci di contrasto al sistema di sfruttamento che hanno creato e da cui traggono profitto".

salari di base in Etiopia e Bangladesh sono meno di un quarto del salario dignitoso, mentre in Romania e in alcuni altri paesi dell'Europa orientale il divario è ancora maggiore, con i lavoratori che guadagnano solo un sesto di quanto necessario per vivere con dignità e mantenere una famiglia [1]. Di conseguenza, i lavoratori sono costretti a vivere in baraccopoli, soffrono di malnutrizione e debiti, spesso non possono permettersi di mandare i loro figli a scuola, il tutto mentre lavorano ore e ore di straordinario per cercare di sbarcare il lunario. 

Marchi come C&A, H&M, Zara, Primark, Nike, Adidas e Zalando, tra gli altri, sono tutti responsabili di non aver fatto abbastanza per arginare la povertà dei lavoratori. 

Deborah Lucchetti ha concluso: "I marchi e i distributori globali sanno da anni che i salari pagati ai lavoratori non sono sufficienti per permettergli di vivere con dignità ma continuano a fare promesse vuote mentre rastrellano profitti enormi. Se i marchi fossero davvero impegnati a pagare un salario dignitoso, dovrebbero passare dalle parole ai fatti, scegliendo un parametro di riferimento credibile, informando i fornitori e aumentando i prezzi di acquisto in coerenza. Dovrebbero iniziare subito con i 50 maggiori fornitori e rendere pubblici i libri paga, a dimostrazione che ciò stia realmente accadendo. È una questione affrontabile, basta mettere mano alla redistribuzione della catena del valore e pagare di più i lavoratori”.

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Interrogativi sollevati a seguito dell’intesa raggiunta sull’Accordo sugli incendi e la sicurezza degli edifici Bangladesh (Accord).

Il 19 di maggio 2019 la Corte dAppello della Corte Suprema del Bangladesh ha accettato un Protocollo di Intesa raggiunto allinizio del mese tra il Comitato Direttivo dellAccordo e lassociazione degli imprenditori tessili BGMEA. Il Protocollo stabilisce che lAccordo continuerà ad operare in Bangladesh per un periodo di transizione di 281 giorni lavorativi durante i quali i marchi, i sindacati e il BGMEA daranno vita ad una nuova istituzione denominata RMG Sustainability Council (RSC) che assumerà le mansioni dellAccordo nel 2020. 

 Il Protocollo mette fine ad un periodo di incertezza circa il futuro dell’Accordo nel paese e assicura la sua operatività ancora per un anno, ma non ne elimina totalmente il senso di incertezza, lasciando ambiguità circa l’impatto immediato sulla funzionalità dell’Accordo. Esso solleva anche dubbi su elementi vitali relativi alle future istituzioni previste. Alcuni mediae rappresentati dei lavoratori in Bangladesh hanno già sollevato questioni relativa al fatto se il Protocollo indebolirà l’indipendenza dell’Accordo e darà più potere agli imprenditori locali. “Avrà delle conseguenze negative”, ha dichiarato il leader sindacale Babul Akhter a AFP.

Limpatto immediato dl Protocollo

La presenza concordata di una “Unità BGMEA”all’interno dell’ufficio dell’Accordo e l’esatta funzione di questa entità, costituisce fonte di preoccupazione. Secondo il Protocollo di intesa, i Piani di azione correttiva saranno valutati in collaborazione con questa unità. Questo solleva interrogativi circa l’influenza dei datori di lavoro sull’indipendenza del processo decisionale dell’Accordo. Inoltre, una presenza visibile delle imprese all’interno dell’ufficio dell’Accordo potrebbe avere un impatto negativo sulla disponibilità dei lavoratori a fidarsi del meccanismo di denuncia, una delle caratteristiche più importantidell’Accordo.

Ci sono timori che il BGMEA, che ha ripetutamente e pubblicamente rigettato il lavoro dell’Accordo come interferente nei suoi affari, proverà ad utilizzare questa Unità per esercitare una influenza indebita sul funzionamento indipendente dell’Accordo, contrariamente all’intento del Protocollo. Tali timori sono rinforzati da una recente dichiarazione media del BGMEA secondo la quale selezione ed esclusione delle fabbriche dalla fornitura dei marchi firmatari richiederà il consenso del BGMEA, laddove il Protocollo semplicemente richiama la “collaborazione”  sul processo di escalation. Il linguaggio del Protocollo dà origine a diverse interpretazioni ed è assolutamente urgente fare maggiore chiarezza.

Interrogativi e preoccupazioni in merito al RMG Sustainability Council.

Il Protocollo di intesa inoltre ha annunciato la nascita di un sistema permanente nazionale di monitoraggio della sicurezza denominato RMG Sustainability Council (“RSC”), istituito a partire dall’infrastruttura dell’Accordo, continuando il suo lavoro e mantenendo lo stesso livello di trasparenza.

Il Protocollo di intesa non fa chiarezza sulla struttura decisionale del nuovo organismo,sul meccanismo di finanziamento e di attuazione, incluso se tale nuova istituzione avrà la stessa natura legalmente vincolante dell’Accordo. Ciò significa che i seri interrogativi sollevati dall’aggiunta di un nuovo stakeholder (gli imprenditori) al programma rimangono irrisolti. Per esempio, se la componente sindacale continuerà ad avere la metà dei voti nella struttura di governance o potrà essere facilmente essere messa in minoranza dai marchi e dai datori di lavoro alleati. Non è chiaro neanche cosa comporterà per i livelli futuri di trasparenza, l’evidente esclusione delle ONG quali agenzie di controllo, da questo nuovo organismo e come questo dovrebbe essere interpretato in un Paese dove il diritto fondamentale alla libertà di associazione e di espressione dei sindacati resta fortemente sotto minaccia.

Per il bene dei lavoratori tessili in Bangladesh, è di massima importanza accertarsi che la nuova istituzione operi secondo gli stessi principi e criteri che hanno reso l’Accordo così credibile ed efficace nel garantire protezione ai lavoratori. 
Questo implica:

  • un sistema di ispezioni meticoloso e trasparente che operi indipendentemente da qualunque influenza delle imprese;
  • la formazione dei lavoratori e un sistema di denuncia che permetta ai lavoratori di proteggere la propria sicurezza e i propri interessi contro quelli del management senza avere paura di ritorsioni;
  • robusti e credibili meccanismi di attuazione e controllo dove i sindacati abbiano la capacità di far rispettare l’accordo attraverso l’arbitrato vincolante;
  • una forte e indipendente leadership dell’Accordo dove l’Ispettore Capo mantenga piena e indipendente discrezionalità per assumere decisioni sulle misure correttive da adottare e sulla pianificazione delle ispezioni, laddove necessario.

(2019) Romania: salari da fame. Meno di un sesto del salario dignitoso

I lavoratori dell'abbigliamento in Romania guadagnano solo il 14 per cento del salario dignitoso. Per questo motivo i loro familiari sono costretti a cercare lavori precari in Europa occidentale.

Il nuovo rapporto della Clean Clothes Campaign dedicato alla Romania analizza ampie ricerche che coprono gli ultimi sei anni, con particolare attenzione al periodo 2017-2018. Quasi mezzo milione di persone lavora nell'industria della moda rumena - la maggiore forza lavoro di questo settore in Europa. Le principali destinazioni di esportazione dell'abbigliamento "Made in Romania" sono l'Italia, il Regno Unito, la Spagna, la Francia, la Germania e il Belgio. I marchi rilevati durante le indagini spaziano da discount e aziende di fast fashion a marchi del lusso di alta gamma, tra cui Armani, Aldi, Asos, Benetton, C&A, Dolce & Gabbana, Esprit, H&M, Hugo Boss, Louis Vuitton, Levi Strauss, Next, Marks & Spencer, Primark e Zara (Inditex). Con quasi 10.000 fabbriche e laboratori, la Romania rappresenta a uno dei paesi di produzione storici per i marchi di moda dell'Europa occidentale. 

Da più di un decennio, l'industria dell'abbigliamento del Paese soffre di una drammatica carenza di manodopera, a causa delle condizioni di lavoro pessime. I lavoratori considerano i salari bassissimi del settore come il problema più grave: la paga media dei lavoratori intervistati per un orario di lavoro regolare è pari solo al 14% del salario dignitoso. Contrariamente alla legge, una cifra spesso inferiore al salario minimo legale, che di per sé costituisce comunque solo il 17% del salario vivibile. Sempre secondo i lavoratori, il mancato pagamento del salario minimo legale costituisce la norma. Molti di loro riferiscono di essere costretti a contrarre prestiti per far fronte alle spese quotidiane, come quelle di riscaldamento in inverno. Ciò significa che la maggior parte è fortemente indebitata. "Sto restituendo un prestito mentre guadagno 150 euro al mese. Soldi chiesti non per acquisti di lusso, ma per pagare le mie cure mediche", ha riferito un lavoratore al nostro ricercatore. 

Oltre a contrarre debiti, i lavoratori e le loro famiglie sopravvivono, nonostante la povertà dei salari, grazie all'agricoltura di sussistenza, condotta oltre le lunghe ore di lavoro in fabbrica, e grazie al sostegno dei membri della famiglia che migrano verso l'Europa occidentale in cerca di lavoro. Quasi tutti gli altri lavoratori intervistati hanno raccontato di avere familiari che lavorano nell'edilizia o nell'agricoltura, ad esempio in Italia o in Francia. La migrazione della manodopera verso l'Occidente è una conseguenza diretta della povertà dei salari. "Provate a mantenere le vostre famiglie per un solo mese con i nostri salari" è stato l’invito di un lavoratore rivolto alle aziende che producono abiti nella fabbrica in cui è impiegato.

Oltre ai bassi salari, i lavoratori della metà delle fabbriche oggetto di indagine riferiscono di ore di lavoro straordinario non retribuito, così come di ventilazione e aria condizionata non funzionanti in un Paese dove le estati possono essere roventi. La ricerca ha riscontrato anche casi di straordinari forzati e di accesso limitato o mancato all'acqua. Tutti i lavoratori si sono lamentati di essere vittime di bullismo: vengono maltrattati verbalmente, molestati e costantemente minacciati di licenziamento.

Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti, membro italiano della Clean Clothes Campaign, lo riassume così: “I marchi del tessile spesso si vantano di portare lavoro in quei Paesi in cui ce ne bisogno e di offrire soprattutto alle donne una strada per uscire dalla povertà. La nuova ricerca della CCC dimostra che lavorare per i marchi della moda occidentali non costituisce una via di uscita dalla povertà, piuttosto favorisce la contrazione di debiti per sopravvivere ed è causa di separazione delle famiglie. Nessuno dei marchi che si rifornisce in Romania si è impegnato seriamente ed efficacemente contro le violazioni dei diritti umani e del lavoro nel Paese. È giunto il momento che l’Unione Europea introduca norme vincolanti sui diritti umani lungo le catene di forniturae affronti le grandi disuguaglianze all’interno del continente. In una parte - quella occidentale - i salari minimi legali sono a prova di povertà; nell’altra sono addirittura al di sotto della soglia di povertà stabilita dall’Unione Europea.”

La Clean Clothes Campaign chiede che l’Unione Europea sviluppi una politica comune sui salari minimiper garantire in tutti gli Stati membri il rispetto del diritto umano a un salario vivibile, applicando di fatto il suo “Pilastro dei diritti sociali”. In particolare al Capitolo II, paragrafo 6 di questo documento si legge che “i lavoratori hanno diritto a salari equi che garantiscano un tenore di vita dignitoso” e che “la povertà lavorativa deve essere prevenuta”. 


Gli azionisti di H&M coglieranno l'opportunità di far uscire i lavoratori dalla povertà?

https://www.youtube.com/watch?v=3GH6z2Shipg

Nel 2013 H&M si è impegnata a garantire salari dignitosi entro il 2018 a 850.000 lavoratori della sua catena di fornitura. La promessa aveva avuto molto risalto mediatico, portando benefici all'immagine pubblica del brand. Peccato che il tempo sia scaduto e nessun lavoratore abbia visto aumentare il proprio salario fino alla soglia di dignità

Abbiamo già raccolto oltre 170 mila firme per chiedere a H&M di mantenere la sua promessa e presto le consegneremo al CEO Karl-Johann Persson e alla responsabile della sostenibilità Anna Gedda.

Nel frattempo però, abbiamo fatto qualcosa in più. Abbiamo comprato alcune azioni di H&M garantendoci così l'opportunità di presentare una risoluzione agli azionisti durante la prossima Assemblea generale annuale dell'azienda che si terrà a Stoccolma il prossimo 7 maggio.

Con questa risoluzione chiederemo agli azionisti di usare i loro profitti del 2019 per istituire un fondo e iniziare a pagare salari dignitosi ai loro lavoratori.

CI SERVE ANCORA IL TUO SOSTEGNO: 
CHIEDI AGLI AZIONISTI DI VOTARE LA NOSTRA RISOLUZIONE

QUI TUTTE LE ISTRUZIONI SU COME ATTIVARTI:
https://turnaroundhm.org/take-action/

#TurnAroundHM #ShareYourProfits